Al momento stai visualizzando La solitudine di chi non dimentica

«E sarà questo vento forte che mi soffia via i ricordi
Io li vedo sollevarsi dal suolo, sparire fra i boschi come i pollini
Diceva camminando sui bordi dei giorni trascorsi tra i suoni dei nomi, i contorni dei volti sepolti
»
(Mara e il Maestrale, L’uomo che viaggiava nel vento e altri racconti di brezze e correnti, Murubutu)

“Francesca”
“Mm”
“Ciao, come stai oggi? È stata una giornata pesante. Pensavo che dovrei ricominciare a fumare, una sigaretta per mandare in fumo tutti i brutti pensieri. Ti confesso che non sono pochi, ma so che ora come ora a te posso dire tutto. Anzi, questo posso farlo da sempre. Hai visto? Fuori c’è il sole. Nostro figlio mi ha detto che più tardi verrà con il piccolo. Mio nipote – anzi! – nostro nipote. Si chiama come me. E se fosse nato femmina, si sarebbe chiamato come te. Chissà se ne faranno un altro, se nostra figlia ne avrà mai qualcuno. Gli ho comprato un nuovo gioco. È un trenino, è molto bello. I binari sono fatti di plastica ed hanno un colore giallo intenso, il treno ha tanti vagoni, dalla locomotiva alla carrozza ristorante, e ci sono alberi, passaggi a livello e gallerie, non penso che si annoierà. Forse dovrei fumare due sigarette, poi non c’è due senza tre e tre è parente di quattro. Va bene. Adesso la smetto. Del resto, se ci sei tu, che bisogno c’è di fumare. Hai visto poi in giardino? L’albero sta facendo i primi limoni, il cedro invece tarda. Sono sbocciate le rose, lì fuori il mondo ci dimostra quanto sia forte la vita. I frutti ed i fiori nascondo la reale essenza del giardino, un luogo di pace apparente che nasconde tante insidie e che per tante piccole creature rappresenta quanto di più prossimo all’inferno. Mancano solo le fiamme”.

“…”

“Non rispondi? Ultimamente non sei di molte parole, sarà colpa del vento, sì, ne sono certo. Tu sei sempre stata una donna intelligente, parlare con te era pura fonte di gioia”.

“…”

“Eh già. Colpa del vento che ti soffia via i ricordi. Pensavo che nella vita si potesse perdere di tutto: così come i giocattoli da bambino, poi i libri, i soldi, l’amore per una persona, la prima macchina, la casa in cui si cresce. Pensavo che i ricordi fossero l’unica cosa che restasse all’uomo, perché anche in letto di morte potesse ripercorrere tutto ciò che ha fatto durante la sua vita. Nasci e poi aspetti di morire. Certo, è un’attesa molto lunga, e allora tanto vale provare a viverla questa vita, a succhiare ogni goccia della sua linfa. Diceva più o meno così Kerouac, sai? Mi chiedo se lui ci sia riuscito, se abbia avuto tempo a sufficienza. Non pensavo potessero privarci di tutto quello che ci resta quando perdiamo tutto: i ricordi. Un tempo eravamo i sovrani di questa casa, e adesso guardaci. Tu sei la regina di una sedia di cui io non mi scorderò mai e che tu hai già dimenticato. Mi senti? A volte penso che tu sia rinchiusa in una sorta di prigione, una galera in cui ti condannano a stare fino a quando non esaurisci ogni singola memoria di vita vissuta. Urla, prova ad urlare, striscia le unghie su quella teca di vetro che ti separa dal mondo, io proverò a sentirti, continuerò a parlarti. Mi si potrà seccare la lingua, vero, ma una parola per te troverà sempre la forza di uscire fuori. E se spero di sentire qualcosa la mattina, quando apro gli occhi, non spero di certo nel rombare delle auto o nel cantare dei galli. Spero piuttosto di sentire il mio nome pronunciato con la tua voce. Hai idea di quanto sia duro il quotidiano in questi giorni di burrasca? È come se questo vento non smettesse più di soffiare, come se strappasse le vele del tuo vascello. Come navighi in questo mare, in balia delle onde che ti impediscono di andare in qualsivoglia direzione tu desideri? Ti aspetto qui, sulla costa sicura di casa nostra. Che ne sarà di me quando chiuderai gli occhi e ti scorderai persino di riaprirli?”

“…”

“Ho sentito dire che c’è della poesia nel dolore: io non la riesco a percepire. Tu? Percepisco solo sconforto ed angoscia, avverto la disperazione di vedere la donna a cui ho giurato dinanzi a Dio di assisterla, nella buona e nella cattiva sorte, condotta contro la sua volontà tra le braccia della morte. Vedo me stesso privo di ogni signoria sul corso di questi eventi. Cara mia, credo che se il paradiso esista davvero, lì potresti ritrovare i tuoi ricordi. I tuoi genitori, la tua gioventù, il nostro primo bacio, la nostra vecchia casa, il matrimonio, i nostri figli. Cosa ti resta di tutto questo? Nulla.
La notte quando vado a letto provo a chiudere gli occhi e ritrovarti da qualche parte nei meandri reconditi della mia anima, là, dove una parte di me non si è arresa all’inevitabile decorso della malattia, là, dove il sole continua a svettare alto in cielo, dove il vento non soffia via nulla, nemmeno i ricordi. Nel riflesso dei tuoi occhi, chi c’è?”

“Chi sei?”

A non concedergli di presentarsi per l’ennesima volta fu il suono del citofono di casa. Erano arrivati tutti. La sola idea che il suo piccolo nipotino potesse chiamare nonna solo ciò che restava di sua moglie gli faceva il cuore a brandelli. Continuava a pensare al vento, nonostante fuori facesse un gran caldo e le foglie non si muovessero. Era tutta una questione di tempo. A quella morte della memoria, ne sarebbe presto sopraggiunta un’altra, solo in quel momento lui si sarebbe potuto lasciare andare. Ora no. C’erano ricordi da provare a tenere ancorati al suolo. C’erano le piante da annaffiare, la sua famiglia a cui aprire le porte di casa, il pranzo da preparare. Gli impegni di ogni giorno erano diventanti solo dei semplici palliativi per un’esistenza segnata da un irreversibile dolore. Gli restava solo qualche carezza ad un ciuffo di capelli grigi, un bacio prima di andare a letto, i sogni e poi nulla più.

Francesco Raguni