Michele Perriera
Mi trovo all’improvviso tra le mani un nuovo libro, inatteso. All’improvviso perché è così che accade ultimamente. Forse chi è innamorato della lettura diviene un cercatore vorace o apparentemente passivamente attira a sé la carta come fosse metallo e si ritrova come un lattante a brandire tra le mani i presunti prodotti della sua mente, per magia. Ciò che è inatteso solitamente può spaventare, può rivelarsi ciò che avremmo preferito evitare. Forse a volte è così. Tuttavia, quando si tratta di libri, nella maggior parte dei casi gli Autori e le loro opere non arrivano per caso e ti trovi in una condizione di gratitudine verso chi ha impreziosito non solo il tuo mondo, ma il Mondo in sé.
Il mio ringraziamento allora va ad un grande uomo, palermitano, venuto a mancare nel 2010, Michele Perriera, e all’Autrice di un commovente saggio che ruota attorno alla sua figura, Valeria Spallino, sua concittadina. Commovente perché parola dopo parola la carta trasuda amore. Sono queste le sole parole che mi vengono in mente per definire la sensazione che lo scritto porta, indipendentemente dal suo lettore. Michele Perriera, la morte non vince la Memoria. È questo il titolo del saggio della Spallino che trae dalle opere perrierane una delle frasi rimaste celebri, l’obiettivo della sua arte ma della sua vita stessa. Sarà l’uomo che è stato, con il suo meraviglioso universo, sarà l’abilità della poetessa che vive nell’Autrice, in grado di cogliere con grande sensibilità l’animo dell’altro, aiutata dalla sintonia intellettuale e umana che si è venuta a creare tra i due nella scoperta purtroppo non reciproca. La Spallino è estasiata, è innamorata, rapita, e il suo coinvolgimento trabocca dalle sue parole. Lo stesso Mario Grasso, prefatore dell’opera, inizia scrivendo quanto poi diviene tangibile: “Il poeta è sempre un ottimo critico letterario”. Ebbene sì. Ma voglio dare voce anche ad un’altra personalità, che interviene con gioia introducendo l’Autrice, interviene come testimone diretta e come anima altrettanto innamorata: si tratta della figlia di Michele Perriera, Giuditta, militante nelle fila di coloro che sempre lo hanno sostenuto e ne hanno condiviso le avventure. Lei scrive: “Quello di Valeria non è soltanto un omaggio intenso e accurato ad un autore ma un incontro fra due belle anime”.
È un inno alla Memoria, nonostante la morte, che riporta alla vita o tiene in vita chi non dovrebbe mai morire. La Memoria permea l’intera opera, permea coloro che oggi operano quotidianamente seguendo i suoi insegnamenti e apprendendo dalla sua esperienza, crescendo con le sue produzioni letterarie che hanno arricchito la Sicilia, a dispetto del rancore di chi non ha potuto corromperlo, la memoria permea anche la curiosa catena dinnanzi alla quale mi trovo, una catena tra letterati fatta di reciproci nutrimenti: la scrivente parla di un’Autrice che parla di un Autore che ha parlato e parla di un Universo. Credo lui si unisca attivamente a questa catena mnemonica, se ciò che dicono sulla vita dopo la morte sia vero, perché non era un millantatore e se scrive “vorrei potermi ricordare di me stesso quando sarò morto” … c’è da credergli.
Sull’onda dell’Autrice, seguo il suo stesso metodo nel riportare in corsivo le parole dell’artista, qui citazione di citazione. Ma questo non è l’aspetto tecnico più rilevante del brillante saggio, perché altro subito salta all’occhio: la struttura, in omaggio ad un uomo di teatro (regista, drammaturgo), vede la storia delle ricerche di lei, che progressivamente si affaccia verso un mondo sfaccettato, intercalata ad atre voci che si intrufolano nella fluidità del discorso a rompere, spezzare, battere il ritmo del viaggio, voci che prendono il nome di “UNA VOCE”, “ALTRA VOCE”, … ogni tanto a seguito di sue forti dichiarazioni cariche di tensioni ecco un crollo che permette al cuore di non scoppiare, distratto da altre presenze nella stanza della mente: “(rumori dal fondo)”, “(musica)”, le contestazioni di chi battibecca sulle scoperte della poetessa, il fantasticare orchestrale di chi si è lasciato abbandonare al mondo perrierano. Sembra che l’Autrice abbia appreso davvero tanto e abbia trovato dentro di sé quell’anima innovatrice che l’ha fatta innamorare, impostando lo stesso saggio in un modo mai visto.
La Spallino ripercorre la sua vita, inizialmente a ritroso, dal giorno in cui lei stessa lo conobbe imbattendosi con i propri crucci al suo funerale, poi mettendo ordine e, avviata le vorace lettura, seguendo la cronologia, saltando da un traguardo all’altro: scrisse per il giornale cittadino L’Ora, fu chiamato ad unirsi al famoso Gruppo ’63 per la carica rivoluzionaria e pionieristica della sua scrittura, fu fondatore e direttore del teatro e scuola di teatro Teatès, direttore della scuola di teatro del Comune di Marsala, vinse il Premio Pirandello, il Premio Mondello, il Premio della Critica Teatrale. Ma l’indagine nella vita e nell’arte (si può pensare ad un’interscambiabilità dei due termini e a una loro fusione) non si limita a ciò che tutti – teoricamente – sanno o possono comprendere, l’Autrice valica l’oggettività del sensibile per arrivare alle profondità del percepibile, del soggettivo, dell’umano più umano che vuole emergere e rappresentare l’aspetto fondamentale delle opere perrierane, al di là della tecnica. Lei coglie un uomo “che desiderava un più giusto mondo e per quello, a testa alta, senza colpi bassi, si batteva, pretendeva chiarezza, bellezza, equità (…) rinnegando il ricatto dei potenti e del potere, perseguendo e professando la giustizia e la fiducia, la libertà (…) aveva tenacemente contestato la rinuncia e la disperanza, la rassegnazione e l’oblio”. Rubo le parole della Spallino che ha raggiunto il tetto della perspicacia. Ripercorre anche il rapporto particolarissimo dell’artista con Dio, assenza ma proprio per questo “voce eterna del possibile”. Letteratura e teatro, strumenti per dare un nome alla poliedricità della vita, attraverso immagini allegoriche, simboli, “suggerimenti magici alla soluzione del mistero”. Ma la Spallino chiarisce quanto deve essere ben inteso: Perriera non vuole rivelare nessuna verità, lui è come noi solo che ha più coraggio, lui vuole cercare di capire qual è la verità ma nella consapevolezza che in fondo non potrà mai arrivarci, potrà semmai avvicinarvisi ogni volta da una prospettiva diversa, ad illuminarne in lontananza uno scorcio differente. Per tale ragione lui non rivela, bensì “suggerisce”, “propone”. Così come si propone nella vita come uomo, con gentilezza e rispetto, a dispetto della sua città, “madre” e “matrigna”, nei confronti della quale si avvertiva “separato in casa”.
“L’arte di Michele Perriera, voce di diversità, risulta di difficile collocazione in una storia della letteratura e del teatro del Novecento (…) la visione, l’opera artistica non risulta soltanto scomoda al potere per il suo messaggio di intelletto e di libertà, richiede altresì da parte del fruitore consapevolezza viva e vigile percezione, visione poetica e traslata, onestà solerte e curiosità temeraria”. Questo dice l’Autrice di lui, in un condensato critico che è come il tesserino del Perriera come capitolo irrinunciabile nella Letteratura italiana contemporanea, accanto alle altre menti geniali osteggiate proprio perché grandi (si veda D’Arrigo e Piccolo – nostri corregionali – ma non solo…).
Ricordiamo, dunque – vuole dirci Spallino – perché Perriera non si stancava di ripetere che “la Memoria è la porta del futuro. E le verità vi passano saltando all’indietro, come nei moderni salti in alto”, a cui l’Autrice aggiunge che “tramandare la memoria rappresenta un atto di testimonianza, di doverosa generosità nei confronti delle nuove generazioni, alle quali è necessario (…) consegnare un patrimonio di qualità (…) perché siano in grado di realizzare le promesse che il passato ha lasciato inadempiute (…) esiste, a ragione incontestata, un “avvenire della memoria”.
La scrittura ha qui questo sacro ruolo, stravolgere l’esistito e l’esistente per rinnovare sempre la fiamma della vita, lottando contro l’atrofia dell’anima. La scrittura ha per il Perriera tale potere proprio per la sua capacità di porsi “ai margini di ciò che può essere detto e non detto: essa corre sul filo obliquo dell’indicibile, del collegamento e del sottinteso, si avvale del sogno e dell’intuizione”, accanto al teatro, che è “gioco che, “trattando il reale con la stravolta mentalità, insieme, dell’archeologo e del veggente”, corrode puntualmente la visione del presente, si proietta dal nero passato verso un più rosato futuro”, e in virtù di ciò l’atto di scrivere si connota come “gioco che redime e differenzia l’umano, lo rende libero e indipendente, sottrae il vivere alla tirannia del caso (…) s’afferma quale allegoria, sentire finalizzato a cambiare il senso e la natura, risolvere i complicati intrecci tra trascorso ed avvenire, storia individuale e storia sociale”.
L’arte allora non è altro che la fiducia – questo ci viene detto – nel divenire, nel sogno di un uomo che ama ma non è in grado di odiare, che crede con tutto se stesso in quello che fa e mi rendo conto dell’errore espositivo nel parlare al presente, ma non mi correggo perché in fondo Perriera non è morto. Lascia se stesso nelle mani degli altri – “lascio in eredità tutti i miei sogni” – con la sua “etica della fantasia”. D’altronde “lui non aveva paura della morte in sé” ci dice l’Autrice dando voce all’artista, “ma della morte del suo senso di giustizia”, in virtù della quale meglio “morire piuttosto che vivere in un mondo ingiusto”.
“VOCE DAL FONDO
Ricominciare a sognare, ci salverà?
ALTRA VOCE
Sì, se il sogno non è fuga nell’oblio, smemoramento da se stessi”.
Prendo ancora in prestito le parole dell’Autrice, ma anche per portare un esempio stilistico che vede la contaminazione teatrale nel mondo della saggistica.
Si potrebbe dibattere a lungo sul significato della parola speranza, quindi non la userò, ma è forte e chiaro invece il senso della parola fiducia. È di questo che l’animo dell’uomo e soprattutto dell’artista si deve nutrire e deve nutrire gli altri. Nella seconda parte dello scritto si approfondisce quella fondamentale parte della produzione perrierana rappresentata dai tre volumi di Romanzo d’amore. La poetessa paragona quest’ultimo ad una bottiglia, con al suo interno “un messaggio d’amore e di salvezza, di speranza e di libertà, verità”. È il suo testamento. Non lasciamolo nel cassetto, teniamo in vita la “Memoria che travalica la morte e si fa concime. Germoglio più nascosto a nuova pianta di stagione, nuova nascita, evoluzione”, ci dice Spallino, perché “La morte non vince la Memoria. Tutti ritorniamo, una volta o l’altra. Sotto forma di anemoni, almeno”. E questa volta è lo stesso Perriera a parlare.
La letteratura e il teatro come lotta, ribellione scevra al rischio di cadere negli stessi tranelli di ciò contro cui si combatte e per questo mai abbandonare, nemmeno per un istante, l’amore, l’onestà, la libertà, la verità. Per combattere cupidigia e narcisismo, “specchiandoci nel lago noi dobbiamo imparare ad amare l’immagine di un altro”. Michele Perriera ha amato l’altro da sé, ritornando sulle sue contraddizioni senza mai darsi per completo; Valeria Spallino ha amato l’artista e l’uomo che di lui ancora vivono. La vera morte sarebbe la nostra indifferenza.