Al momento stai visualizzando Itinerario cinematografico tra luoghi e solitudini. Da “Il deserto rosso” a “Le sorelle Macaluso” (2)

Case e conflitti

 JOKER, (Philliphs, 2019)

Arthur Fleck è un aspirante comico. Soffre di una patologia rara, la sindrome pseudobulbare, che gli provoca improvvisi e incontrollabili scoppi di risate. Vive con la mamma, donna poco incline al contatto con la realtà, in un piccolo appartamento in cui lui è l’uomo di casa sin dai suoi ricordi più remoti. Probabilmente, è lo stesso luogo in cui ha vissuto la straziante esperienza di abusi e violenze di cui verrà a conoscenza in seguito e che i suoi meccanismi di difesa hanno provveduto a rimuovere dalla coscienza. Una casa che rimane in silenzio, quella di Arthur e Penny Fleck, dopo la morte di quest’ultima che trasmette le stesse emozioni negative che caratterizzano il tono emotivo di Arthur. All’ingresso del condominio, una cassetta delle lettere sempre vuota al suo interno, che la mamma fa controllare al figlio volta per volta, perché invano attende la risposta di Thomas Wayne (supposto padre di Arthur) alle innumerevoli sue missive. Cassetta vuota che sembra rispecchiare il vuoto interiore di Arthur, alimentato, giorno dopo giorno, dal crescente sentimento di alienazione e dall’incapacità di costruire una rete di relazioni. Di seguito, un ascensore che raramente porta a termine il proprio tragitto senza segni di cedimento: la sua funzione di collegamento tra i piani superiori e inferiori è spesso interrotta nel suo circuito, così come è interrotto da brevi cortocircuiti (deficit neurologico) il collegamento tra la mente e il corpo di Arthur. Alcune parti di sé non funzionano come dovrebbero e la pulsionalità, costretta alla latenza, è impossibilitata a trovare una scarica funzionale per via dell’assenza di una efficace elaborazione cognitiva superiore. La casa si presenta povera e poco curata, le pareti sono rivestite da carta da parati di diverso motivo (come il pavimento della stanza di Travis, in Taxi Driver). La Tv sempre accesa rappresenta, attraverso lo show di Murray, una delle poche forme di contatto con la vitalità: Arthur ha bisogno della TV perché, imitando i suoi eroi, può prepararsi all’azione e accedere alla fantasia di diventare famoso.

“Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e lo tratta come immondizia?

Te lo dico io cosa ottieni. Ottieni quel c***o che ti meriti.”

Questo è l’avvio di un breve monologo di Arthur Fleck a cui seguiranno la confessione dei tre omicidi e l’esplosione di rabbia la cui violenza travalica il corpo, passa per la metropolitana e invade la città di Gotham.

Nel caos del momento, Arthur abbandona i panni del clown che aiuta i bimbi nelle corsie degli ospedali e indossa definitivamente la maschera del criminale.  Diventa Joker: l’accondiscendenza passiva delle scene iniziali si trasforma in rabbia e desiderio di vendetta. Gli improvvisi scoppi di risate assumeranno il carattere di comportamenti ampi e strutturati.  Il bambino (e quella parte residuale bisognosa di affetto e contatto) verrà messo da parte per lasciare il posto a un adulto violento.

La rabbia diventerà l’affetto dominante, rigorosamente scisso da ogni altro sentimento.

Il disimpasto pulsionale, (nel caso di Joker conseguenza della ripetitività dei traumi e di numerose ferite narcisistiche, tra cui l’ultima, cioè quella di non essere figlio di un potente politico) può dare origine ad una produzione seriale di odio: di fronte all’espressione imperiosa di un tale sentimento, il mondo oggettuale viene investito allo stesso modo di come una costa può essere investita da uno tsunami la cui potenza può spazzare via ogni costruzione,  lasciando spazio solo a un desolante quadro di distruzione.

nota a margine:

alla fine del film, l’uccisione del conduttore per mano di Arthur Fleck, a nostro avviso, può essere anche letta come “il passaggio del testimone di interprete della follia” dal grande De Niro al più giovane Phoenix, suo degno erede.

Ritroviamo la stessa potenza distruttrice in

FIGHT CLUB (Fincher, 1999)

“La casa è diventata una cosa vivente, bagnata all’interno dal sudore e dal respiro di tante persone. Si muovevano talmente che la casa si muoveva”.

Fight Club è la narrazione di un conflitto intrapsichico in cui ogni personaggio rappresenta un pensiero, ogni azione un conflitto dei due protagonisti, Edward Norton e Brad Pitt, posti in una condizione di serrato antagonismo allo stesso modo di come si pongono nella mente impulsività e pensiero, amore e odio, Eros e Thanatos.

La grande casa malandata in cui Tyler ospita il Narratore appare allo spettatore come   un vero e proprio “teatro della mente”, un rifugio disastrato e lugubre per la base operativa degli uomini del progetto MAYHEM: “sembrava che stesse aspettando di essere demolita”.

La casa, per struttura e funzionamento, rispecchia molto fedelmente il funzionamento di un’area dissociata della mente: si erge in un vasto giardino in una zona isolata della città, senza vicini. Mancano le serrature, alcune finestre sono aperte mentre altre sbarrate da assi, scale pericolanti, mobili malandati. Circondata da odori acri e immondizia, ovunque chiodi arrugginiti, ci si lava con acqua putrida e si vive in spazi dove la pioggia si infiltra attraverso l’intonaco. Si alternano spazi disordinati e caotici a spazi in cui un supposto ordine è finalizzato alla realizzazione di una officina dell’odio: un luogo in cui giovani aspiranti vengono arruolati per essere addestrati, sotto la guida dell’autorevole padrone di casa per formare un esercito in grado di distruggere e combattere il sistema economico. È una casa sessualizzata ma non disposta al legame, alla conoscenza, alla generatività creatrice. Il sesso è istinto. Uomini senza nome e identità, omologati per l’odio, all’interno di un “meccanismo di scimmie spaziali”.

Il Narratore, mentre osserva il crollo dei grattacieli, realizza che Tyler altri non è che una parte di sé stesso (un elemento scisso della sua persona portatore di odio) che uccide dopo un violento scontro finale. Nella devastazione della scena, si salvano lui e Marla, il legame.

La dissociazione è la conseguenza di una mancata integrazione di aspetti della percezione, della memoria, dell’identità e della coscienza. Questo processo rappresenta una reazione comune che si mette in atto quando si è posti di fronte ad una esperienza traumatica che travalica le capacità di elaborazione, consentendo all’individuo di mantenere l’illusione di un controllo mentre, contemporaneamente, sperimenta una sensazione di impotenza. Così facendo, è possibile “distaccarsi totalmente dal dolore, dal terrore, dall’orrore e dall’idea di una morte imminente”. Si innescano dei meccanismi di “compartimentalizzazione dell’esperienza” e di immagazzinamento dei ricordi come se discontinui, al quale segue l’esclusione dalla coscienza del trauma e la relativa deprivazione della determinante affettiva (Gabbard, 2015; McWilliams, 2012).

Anna La Rosa, dirigente psicologa ASP CT3
Barbara Farina, tirocinante psicologa
Mattia Mammone, tirocinante psicologo