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L’ULTIMA LETTERA[1]

Dramma teatrale in tre atti ambientato nella Sicilia degli anni ’40, scritto in dialetto messinese
Autore: Giovanni Bucolo[2]

L’ULTIMA LETTERA è un’opera teatrale in tre atti e con undici personaggi, di cui quattro emergono nel ruolo di protagonisti.

Il soggetto non è originale: la guerra, la partenza al fronte russo di quattro amici siciliani divenuti loro malgrado soldati, l’attesa di un ritorno da parte delle famiglie e degli amori.

Dei quattro amici partiti al fronte, unico reduce sarà Orazio, voce narrante in un movimento continuo tra il presente della narrazione e il passato delle vicende.

La storia è scritta in dialetto messinese.

 

Un inciso: per chi è avvezzo alla lettura di testi solo narrativi e in lingua italiana, cimentarsi nella lettura di un testo teatrale e per giunta in dialetto può comportare un doppio sforzo:

quello dell’interruzione del fluido narrativo in virtù dell’inserimento delle indicazioni scenografiche, e quello dell’impatto con un linguaggio – il dialettale – fino a poco prima solo ascoltato e parlato, non scritto. La chiave per superare l’impasse linguistico si è rivelata essere una lettura rapida delle battute in dialetto e a fior di labbra, in modo da non restare ingabbiati nella grafica e poter sprigionare la musicalità – e familiarità – delle parole.

L’accettazione delle regole può dare i suoi frutti, senza dimenticare che un testo teatrale, poiché appunto teatrale, va fruito a teatro.

 

Protagonista in dissolvenza de L’ULTIMA LETTERA è l’inconsapevolezza della realtà storica: i personaggi non hanno piena cognizione dei motivi che li hanno catapultati al fronte, ne restano estranei, con espressioni e frasi inebetite di chi non comprende.

Ancor prima di partire, la loro esistenza pare circoscritta in una realtà altra da quella in cui incombe l’Europa tutta, una realtà di paese del sud Italia che è una sorta di Giardino dei Finzi-Contini[3] al di fuori di spazio, tempo e responsabilità: Orazio e Carmelo non hanno mai saputo di scuola, conoscono la vita attraverso la fatica dei braccianti; Turi il manovale riscatta il suo livello sociale elevandosi al grado di mastro. Solo Nino, l’amico intellettuale, dimostra una certa coscienza storica e spera di salvare il mondo attraverso l’educazione al pensiero libero:

Carmelo:– Ouh! Ma io chi ni sacciu, non capisciu mancu bonu picchì a stamu facennu sta guerra, io non sacciu mancu chi è sta Russia, io mi scantu e basta…

Nino:Certo dimenticavo che tu, anzi tutti, non sapevate mai niente perché non leggete, non avete una coscienza vostra dei fatti, non vi guardate intorno. Chiddi comu a viautri nni puttaru Mussolini! Siti sulu boni pi zappari!”

Una volta chiamati a combattere, i quattro amici continuano a comunicare tra loro in dialetto. La scelta linguistica operata dall’autore ha un peso specifico indicativo: il dialetto, decontestualizzato e ricollocato in situazione altra, concorre a mantenere l’impermeabilità contro il dolore, è una garanzia di autenticità mantenuta, una cifra linguistica intima che continua a parlare di intime cose, come il cibo di casa, l’amore giovanile, l’imbarazzo nel dichiararsi, le beffe contro una dittatura di cui non si conosce la reale, drammatica portata, essa resta burlescamente personificata nel ricordo di uno dei paesani – il barbiere Nicola , fascista – schernito in tono leggero e malandrino.

Anche al fronte, Nino continua a distinguersi: il suo sapere simboleggia quello di una classe sociale intellettuale che non è riuscita a deviare il corso della storia e che, nella figura sottile e atterrita del personaggio, compie un ultimo sforzo per porre rimedio e infondere nelle coscienze il germe del cambiamento.

Lo sforzo è contenuto in una lettera che egli, prima di cadere in guerra come i suoi due amici, consegnerà al reduce Orazio per la sua Anna – per il mondo tutto -:  quasi un manifesto di protesta contro ogni schieramento politico che manda a morire vite disorientate, senza una reale coscienza del dolore.

Tra le parole della missiva, emerge un Nino diverso, che non si riconosce più nel combattente con la penna e con la parola, la guerra ha stravolto anche il suo animo battagliero, ha anteposto il dolore a ogni forma di giustificazione politica, lo ha reso assoluto.

Nino scrive così alla sua Anna:

“(…) ho ripensato molto alle parole che ho scambiato con tuo padre (Don Nicola, fascista) e di come ho reagito: sono stato uno stupido, dovevo assecondarlo, che importa come la pensa lui, io ho le mie idee. Avremmo potuto trascorrere molto più tempo insieme e invece…Ti ricordi i miei animati discorsi su come cambiare l’Italia?”.

Pare una lettera di resa, portatrice di una sconfitta irrimediabile contro la Storia.

Invece, il germe che avrà lanciato in Anna, che di scuola non sapeva perché tempo da perdere non ne aveva – e qui la mente va alla pragmatica Antonietta di Una giornata particolare [4] – attecchirà, sotto forma di spinta propulsiva verso il sapere, a monito perenne dell’azione provvidenziale  che la cultura consapevole e collettiva può avere, contro la manomissione delle coscienze.

Maria Bucolo

[1] L’ultima lettera è andata in scena con la produzione della NAXOS ENTERTAINMENT e la regia di Giovanni Bucolo nel maggio 2012 presso il teatro SIPARIO BLU di Catania.

Nel mese di febbraio 2020 verrà messa in scena dalla compagnia teatrale LE TRE FONTANE DI PRESA presso il teatro REX di Giarre. Nel mese di Marzo 2020 andrà in scena presso il teatro DON BOSCO di Giardini Naxos con la compagnia teatrale NAXOS ENTERTAINMENT e la regia di Giovanni Bucolo.

[2] Giovanni Bucolo – 16.03.1976 – è regista e autore teatrale e cinematografico, presidente di diverse associazioni culturali della sua città – Giardini Naxos, Messina.

[3] Film del 1970 di Vittorio De Sica, tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, 1962.

[4] Film del 1977 di Ettore Scola