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Il castello di Calatajub

“In casa mia ci sono tutte le cose inutili. Non manca che il necessario: un grande squarcio di cielo come qui.” M. Proust

Il castello di Calatajub

Sono nato nelle terre tra due fiumi. Fiumi per modo di dire, meglio torrenti che spesso d’estate interrompono la continuità del loro percorso, diventando stagnanti e il mare vi entra dentro. In certi inverni invece fanno la voce grossa e straripando diventano un pericolo per le case costruite come avamposto in una lotta di conquista, nei pressi dell’alveo secco da anni. Tra i due fiumi la pianura fertile s’allarga e confina col mare e con la linea ferrata, ospitando paesi affiatati, alcuni litoranei altri dell’entroterra, ma come rassegnati alla irritabilità delle stagioni o alla volontà degli uomini. A occidente il castello di Calatajub, che domina la vallata e il fiume, costringe l’occhio a sconfinare, raccogliendo filari di viti inquadrati come soldati, uliveti dalla chioma argentea spesso agitata dal maestrale; dal mare flotte di pescherecci, usciti per la pesca delle sarde, una volta carrettieri e greggi sulla battigia, nuvole che nelle stagioni di pioggia abbassano il cielo e mortificano il mare. Un tempo perfino l’assalto proditorio dei pirati veniva presagito e la resistenza partiva al contrattacco, in tempo per vincere o retrocedere.

-Che cosa farai, che farai? – spesso mi ripetevano in casa e proseguivano…

-Guarda questo, guarda quell’altro. Hanno studiato e ora fanno il bello e il cattivo tempo.

-Farai il leccapiatti – mi riecheggiava nelle orecchie mentre mi allontanavo mogio mogio, col viso compunto e il nodo alla gola: orpelli ben congegnati di una mia pretesa sofferenza, che a stento tuttavia riusciva a mascherare una certa indifferenza, ironia o anche disprezzo.

-Tutti quelli che non studiano fanno sempre i leccapiatti- mi gridavano ancora, dopo che avevo svoltato l’angolo… Non capivo perché dovessi fare il leccapiatti, né perché mia madre mi minacciasse spesso una simile ventura e nemmeno perché s’incaponisse a farlo. Un ideale poteva risolvermi tutto, ma non ce l’avevo né, del resto, potevo darmelo per forza. Studiavo tuttavia un atteggiamento il più possibile compunto, più per rabbia o per meglio sottrarmi ad eventuali carezze che per riverente timore o smania di ubbidire, e mi allontanavo mantenendo una certa patina d’impassibilità, prerogativa del mio carattere un po’ sornione. Riflettendo sulla parola leccapiatti poteva capitare che facessi  delle strane, non so fino a che punto, conclusioni: che ad esempio mia madre e mio padre lo fossero pure, se lo erano tutti quelli che non avevano studiato. In genere però non andavo in fondo ai miei pensieri e non ricercavo il pelo nell’uovo, come si dice, né capivo l’ingenuità delle mie paradossali deduzioni. Forse lo strano nasceva più per sentito dire che per convincimento personale. Comunque sia, appare evidente che amavo lo studio e i maestri come il diavolo l’acqua santa o come mio nonno amava i preti. E su di un amore non c’è niente da ridire! Capitava che spesso s’allineassero nella mia mente idee fisse, ideali contingenti e puerili che mi svolazzavano attorno come chimere ossessive. La mia pigrizia abitudinaria si appagava però di poche esigenze, di giochi sfrenati, non so fino a che punto costruttivi. Una banda è sempre una cosa seria, anche di ragazzi. E la mia lo era: avventurieri fieri, col muco che gocciolava loro dal naso, i vestiti schizzati di fango e il cipiglio da Beppe Nappa; sempre all’erta, col viso teso scuro, di un olivastro mediterraneo.

-Diavoli dell’inferno, figli di… buona gente, perché i disgraziati siete voi, nati apposta per arricchire le vostre famiglie…

Epiteti tuttavia lusinghieri alla nostra spregiudicatezza, forse anche oltraggiosi, specialmente per chi fa dell’oltraggio una ragione di vita: non per noi che consideravamo pregiudizievole passare inosservati. E si continuava a correre inseguiti da quelle grida insinuanti.

-Sì grandi disgraziati siete e galerioti. Ma se vi acchiappo… conoscerete il giorno del giudizio- ci gridava il municipale. Non ci credeva nemmeno lui però, alla possibilità di imporre quanto prometteva e cercava di acchiapparci più con i fulmini che materializzavano le sue rughe affannate, che con l’agilità della sua ciccia traballante. Noi ci passavamo la voce che arrivava il municipale e sgattaiolavamo come serpi, a nasconderci nei luoghi più vicini e impensati, stando all’erta e facendo le fiche alla guardia che arrivava, chiusa nella sua uniforme bianca, da fantasma diurno. Così le buche continuavano a spuntare per le strade, da parte nostra lottando per imporci sia di sera, quando s’accendeva la luce rossastra e tremolante dell’illuminazione pubblica, sia di giorno alla luce del sole. Quando pioveva poi l’acqua, che le colmava fino all’orlo, fuoriusciva dalle stesse come l’olio da un formaggio troppo grasso. L’ideale certo per inzaccherarci tutti e insudiciati di terra, maleodoranti e umidi rincorrerci, coi visi accaldati; la causa anche di non troppe gradite carezze, quando si ritornava a casa. Mi chiedevo allora che cosa avrei fatto, con una punta di sarcasmo, ma con una circospezione insolita, come se temessi di essere spiato. Il leccapiatti… e la lingua mi s’ingarbugliava in quella parola strana, quasi senza senso, venuta fuori come per caso: insolente e inquietante risposta a una domanda impegnata, esasperata. Quando la guardia municipale arrivava sul luogo del misfatto, vi giungeva senza fretta, sicuro per conto suo di non trovare i mocciosi ad attenderlo. E allora si girava guardingo, come se fosse lui il ricercato, con la faccia congestionata per l’affanno della camminata e la pancia che sembrava lì lì per cadere, se non ci fosse stato a trattenerla un cinturone bianchissimo, come del resto tutta la divisa, dalla fibbia in ottone di un verde ossidato. Scalpicciava per un po’, facendo le viste di scorgerci; ma anche se ci vedeva e per impaurirci aumentava i suoi movimenti scomposti, non osò mai avventurarsi a rincorrerci, specie d’inverno, per paura d’inzaccherarsi i pantaloni immacolati. Se potevamo evitare il municipale era tuttavia inevitabile che ogni sera, dalle nostre case, venissero a rincorrerci urla di richiamo perentori: mostruosi per esseri indifesi come noi. Quasi laceravano l’aria e i timpani, inseguendoci come segugi irrefrenabili.

La civiltà in un paese di mare arriva d’estate, coi primi bagnanti. Venendo dalla città questi pellegrini infatti avevano punti di vista differenti, che ci meravigliavano. Stavano appena il tempo per comunicarci le loro novità sempre alla moda, per poi sparire con le prime piogge di settembre. Ma la scia di quelle sortite duravano però nei mesi successivi, quando il vento spazzava via i gabbiani dall’arenile. Qualcuno s’era anche fidanzato e continuava a sentirsi con la paesana e a fantasticare sulle sorprese della prossima stagione, quando alle vecchie conoscenze s’aggiungevano anche le nuove. Solo che le madri su quelle fantasie stendevano un velo non tanto pietoso, facendo capire che avendo l’oro davanti agli occhi, con quelle non andavano certo a scoprire l’America. La vera nostra preoccupazione era comunque l’acqua, che all’arrivo dei turisti cominciava a scarseggiare. E va da sé pure che aumentassero i prezzi, mentre la merce scarseggiava. Che la piazza si riempisse poi di belle ragazze, niente da ridire secondo le nostre madri, ma si presentavano troppo con le gonne per aria, non giovando certo alla buona reputazione del paese e alla propria. Troppo libertine se, con la scusa del gelato, affollavano l’unico bar che era pure considerato il circolo della briscola: punto di incontro dei fannulloni di casa nostra.

Nella mia infanzia i gatti miagolavano appassionate romanze sui tetti, alla    luna di gennaio…

Cui fici amuri fici cosi assai
Fici ’na turri carricata e forti
Primu fici l’amuri e poi li guai,
E pri spartenza ci misi la morti;
Non fari comu mia, ca ci ’ncappai,
Ch’amuri mi ha purtatu a tanta sorti;
Oh guarda, amuri, chi putiri ch’ai,
M’hai livatu lu sonnu di la notti!

Miagolavano impassibili fino al mattino, anche sotto la pioggia. La pensilina della vecchia stazione, di lamiera arrugginita, era scivolosa ma essi, quando facevano l’amore, non cadevano mai. A volte qualche coppia saltava sul tetto della cappella vicina al passaggio a livello, dove i treni sferragliavano vicinissimi giorno e notte, neri e sbuffanti come diavoli dell’inferno. Quando la sera li sentiva miagolare sulla cappella il prete, venendo dal portare i sacramenti a qualche moribondo, li malediva infastidito, atteggiando il viso a una smorfia di disgusto. Non era un S. Francesco quel prete, anche se il leggero, impercettibile sorriso, che gli sfiorava le labbra, rivelava una bonarietà sorniona, per nulla contrariata da contingenze esterne. Ma per tutta risposta si riceveva un miagolio lungo, acuto peggio di una sirena. Alzato lo sguardo poi non tardava ad accorgersi di due occhi fosforescenti che, sospesi nel buio, sembravano sfidarlo e quasi intimorirlo. La cappella tuttavia andava in pezzi e sembrava il relitto di un naufragio, talmente distante dalla costa da essere destinato a scomparire del tutto. Dalle sue pietre la calcina si scrostava come pelle secca. Macchie d’umido la ingrigivano d’inverno, mentre crepe profonde, coi primi caldi, avanzavano in superficie con lunghissime fessure. Il gelsomino ristrutturava alla meno peggio quella decadenza, mantenendo nonostante tutto sobria la parete interna che ospitava un’Addolorata smilza, dal volto di cera, incorniciato da un ampio mantello nero. La Madonna sembrava aggrapparsi alle sbarre rugginose della sua cella, con lo sguardo perduto di una prigioniera dimenticata.

Sant’Ignazio di Antiochia

Dirò che sarebbe stato strano non vederla dietro ogni funerale, mentre procedeva a sbalzelloni, quasi saltellando. Abitudinaria fino al punto che ogni bara, essendosi ricevuta l’ultima benedizione, non osava avviarsi senza essere stata toccata dalla sua mano secca e rattrappita, esangue come il suo vestito stinto, nonostante la diavolina, con la quale era stato mortificato.  Se la indicavano a bassa voce, chiamandola il corvo, le vicine che si affacciavano sulla soglia o sporgevano il naso da dietro le tende, per curiosare su chi fosse presente al funerale o su quante ghirlande vi fossero.  E corvo nero le lanciavano i monelli, mentre la ricorrevano e lei puntava l’indice, come se avesse riconosciuto chi la importunava, mentre era solo un estremo tentativo di difesa, anche se con risultati poco duraturi. I monelli continuavano a sputare sulla vecchia beccamorti le loro ingiurie, con una sorta di ribrezzo o di meschino compatimento, mentre la vecchia procedeva col suo passo ondulato e lo sguardo assorto; raggiungendo la chiesa a ogni mortorio, le spalle ricurve, con la sua lunga falcata. Nonostante l’età. La sua veste, pieghettata da una cinta stretta alla vita, di un nero unto, macchiato e slavato, svolazzava a ogni passo… e i capelli bianchissimi, chiusi dentro una veletta nera, sporgevano di tanto in tanto e quasi timidamente, qualche ciocca stopposa. Un corvo certo, ma un paragone calzante fino a un certo punto, non essendo il corvo un volatile pio, data la sua antica abitudine a svolazzare per il cielo, in attesa di posarsi su qualche verminosa putredine. Tanto che la Bibbia, in posizione salomonica, ha bollato questo volatile nel Levitico, dandoci la riprova delle nostre intuizioni di una maledizione tetra, che impregna di sé ogni più piccola penna. Un paragone che comunque aveva la sua ragion d’essere, nonostante tutto, più che nelle pie sollecitudini, in quelle preghiere gracchianti con cui gratificava il morto. Ma non tralasceremo pure quella sua credenza ossessiva, che la faceva credere importante come il sindaco, quando con le orfanelle delle suore intonava nel rosario l’orapronobis, né quel suo stare attenta a ogni mortorio, come se anche lei fosse in attesa di una preda su cui posarsi. Vicino alla bara che il prete aspergeva e incensava, col chierichetto a fianco, mentre l’organo strillava come se per tutti fosse arrivato il giorno del giudizio, dava l’impressione che solo lei venisse benedetta e incensata, come se lei fosse il morto e tutta l’afflizione di quei parenti fasciati di nero, con la barba incolta, la cravatta nera, la coppola in mano, aspettasse il momento opportuno per mettere la vecchia dentro la bara e accompagnarla al cimitero. A una morta infatti si affidavano quei suoi movimenti rinsecchiti, quasi scheletrici: le guance risucchiate dalla bocca sdentata, le aguzzavano gli zigomi che, simili a grucce stiravano la pelle raggrinzita, naturalmente e senza l’intervento dei muscoli facciali. Gli occhi però vivificavano quella decadenza. Normalmente come liquidi, diventavano strani e spiritati alla Ligabue, quando li incorniciava nella plastica gialliccia degli occhiali, tanto appannati e opachi da farci chiedere che cosa veramente riuscisse a vedere. Acquistavano però in certi momenti un aspetto uncinato, di falco, di rapace che ha avvistato una preda a noi invisibile trasformando il resto del proprio corpo, costringendolo a una variazione di identità. Questi effetti naturali colpivano maggiormente, quando si passava dalla sua via. Allora la scoprivi rilassata sulla soglia di casa, quasi sempre con una gatta tra i piedi. I suoi occhi, ingigantiti dalle lenti, sembravano in quei momenti provare piacere a scrutarti minutamente, ad appuntarsi fissi, forse inconsciamente ricercando un affetto o un oggetto smarrito, del quale tentassero di focalizzarne l’immagine: una fissità scomoda, ma che spesso si normalizzava in una vacuità meno aggressiva e come smorta, come se sfogliasse le fotografie di un album, ma senza piacere però e forse annoiandosi. Anche se la solitudine poteva spiegare molte cose e la stolidaggine pure, molto tuttavia restava d’inspiegato. Chi ad es. poteva sapere che cosa la vecchia facesse quando si chiudeva dentro? Si poteva forse dar vita a qualche innocente supposizione, pensare che magari lavorasse a qualche fattura micidiale, chiusa nella sua tana simile a un antro stregato. Su chi poi la sperimentasse resta un mistero. Ma si trattava comunque di congetture, non so fino a che punto veridiche o stravaganti o almeno verificabili. Del resto non sempre certe curiosità possono appagarsi e quasi sempre siamo condannati ad impelagarci in un oceano d’insensate consistenze. Quella abitudine dei funerali era però l’unica normale consistenza che più convinceva le vicine, come d’un lavoro che ne accompagnasse la vita e la preparasse alla morte.

-Quel malaugurio verrà pure ai nostri funerali- scappava a qualcuna tra le più rigide, che subito ritirava la lingua, come se l’avesse sparata grossa e tutto sommato non le convenisse.

-Prima a lei, prima tocca a lei- tutte le altre intervenivano. Come se così dicendo correggessero la natura, che tiri mancini certo non ne risparmia a nessuno. Ma certo non correggendo il malcelato disprezzo, che anzi sottolineavano con quell’innocente constatazione che spettasse agli anziani precederci nell’oltretomba. Discorsi che non oltrepassavano la soglia e che cadevano come frutta matura, lasciando in bocca però un sottofondo angustiato. Sulla loro inutilità nemmeno si accorgeva la gatta che, appollaiata sul muricciolo di fronte alla casa della vecchia, faceva moderate acrobazie, cercando di sporgersi sulla sottostante ferrovia. Quasi a fare spaziare lo sguardo sul mare e sulla costa, che si apriva compatta, a cerchio, sfumando in una vaporosa lontananza. Poi la gatta, che chiamavamo Rosa, si distendeva con uno scatto improvviso di tutti i suoi muscoli e girava la testa felina, mostrando la lingua sottile e rosea. Metteva infine particolare passione nel fare luccicare di saliva il suo pelo, bianco sul ventre e picchiettato di macchie rossicce sul dorso e sulle zampe, mentre le vibrisse, tese come setole di spazzola, le inquadravano una mascella volitiva, fiera di non so quali medaglie. A volte ci accadeva di sbraitare, con la schiuma alla bocca, contro quella vecchia che, come un nero temporale, rispondeva con tutti i suoi tuoni e fulmini. Si rasserenava solo quando, svuotataci addosso una secchiata di acqua fetida, ci allontanavamo vociferanti e bagnati  come pulcini.

-Guai… guai al corvo – ripeteva, con la gola squarciata in un urlìo dirotto, quasi di pianto stridulo, la mia banda al gran completo. Come se quella fosse rimasta ad ascoltarci e la nostra sortita potesse ancora indebolire le sue residue difese. Era improvvisa la guerra del corvo: la porta della sua casa si apriva e si richiudeva a scatti, mentre il diluvio ci colpiva, non lasciandoci il tempo di calcolare le mosse dell’avversario. Il fatto sta che, col bel tempo, diveniva ardua l’impresa di sbucare le strade come gruviera. Anche se ci accadeva di scansare il municipale, ci era invece impossibile fare lo stesso con le vicine che, al solo vederci, nel timore della polvere che potevamo fare alzare, mostravano sulla soglia certi visi da basilisco, che era davvero una fortuna se non restavamo di sasso. Che fossero pronte a scattare sulla soglia o a fare capolino dalle finestre, non appena improvvisamente sbucavamo da qualche cunicolo di strada, ce lo mostravano chiaramente i loro visi espressivi, chiusi in una riservatezza astiosa, piena di dinieghi e sotto un certo aspetto anche arcigna e passionale. Avevano steso i lenzuoli ad asciugare su fili di ferro un po’ ossidati che collegavano una finestra, posta al primo piano, a un balcone o semplicemente un terrazzino bianco di calce con uno di fronte. E restavano a guardia della loro opera peggio della guardia municipale, perché mentre questa perdeva la pazienza e se la svignava, quelle invece persistevano alla finestra o sul balcone, pronte alla battaglia. I lenzuoli, gocciolanti e svolazzanti come anime in pena, apparivano contenti di quella protezione apparentemente disinteressata. Ma anche loro sembravano mostrarci un aspetto brusco, arcigno, insospettabilmente nascosto sotto un candore verginale. Per farla breve, dirò che quei fili per noi diventavano strumenti di tortura, manette che i lenzuoli bianchissimi, stesivi ad asciugare, ci mostravano minacciosi. Se una cosa ci restava da fare era scorazzare a più non posso per la campagna, zufolando con furia sorniona tutti i motivetti che conoscevamo. Ma alla fine, costeggiata la ferrovia, si sbucava sempre sulla strada diritta che sporge tutta sul mare. Eravamo di nuovo in paese e, come i musicanti della banda, marciavamo zufolando; quasi non esistessero altri posti da visitare o li avessimo esauriti tutti o come se qualcosa ci calamitasse, senza darci il tempo di resistere. Il nostro corvo stava seduto sulla soglia, come una vecchia indiana dalla pelle raggrinzita, davanti alla sua tenda. Ci controllava con gli occhi vividi, saettanti, tenendo in mano un libricino da messa e passava continuamente l’indice sinistro sulle righe, come per cancellarne le parole. La nostra maledizione investiva anche lei, chiusa in una serenità astiosa e cupa, come investiva i visi di basilisco che si facevano sulla soglia al nostro passaggio, le strade di terra battuta, le buche che non potevamo fare, i municipali e le loro bianchissime divise, tutti i lenzuoli che svolazzavano in paese. Strane rabbie, miste a disprezzi non sempre giustificati! Con la vecchia Nina che ci stava a spiare coi suoi occhietti di falco, ingigantiti dalle lenti. Interpretavamo dapprima lo spionaggio come un affronto, quasi subito però come un invito allettante, per zufolarle qualche motivetto. Così la musichetta si modulava da sola sui buchi delle canne, dove l’aria passava stridendo, acuta e sibilante. Il corvo quasi mai ci stava ad ascoltare. Scompariva invece dietro la soglia, per comparire subito dopo con un catino in mano, quasi fosse una samaritana venuta per rinfrescarci. Poco dopo ci allontanavamo grondanti ma non vinti, nonostante la rabbiosa inquietudine che ci bolliva dentro.

L’estate quasi sempre ci sparpagliava chi tra i campi, per la mietitura, chi ad aiutare i padri sul mare. Per tutta la settimana ci perdevamo di vista, ma la domenica eravamo di nuovo assieme. I nostri pensieri comunque, per tutta la settimana, fantasticavano su quel giorno di libertà mentre i corpi, inceppati e incatenati dal dovere, si muovevano autonomamente. La mattina era sempre un martirio svegliarsi prima dell’alba, proprio mentre i marinai di ritorno si arrampicavano sulla scaletta in salita, abbarbicata sulle rocce e a picco sul mare. Reggevano sulle spalle montagne di reti, serpeggiando in fila lunghissima. Ma la domenica non c’era modo di inquadrarci tra i banchi della chiesa. Quasi sempre sbucavamo però nella via del fabbro la cui officina, chiusa data l’ora canicolare, non riecheggiava di note assordanti che, durante la settimana, si riversavano per strada… Non ci infastidiva quel concerto di rumori e scintille, anzi la fucina ci colpiva per il suo aspetto scuro, fuligginoso e quasi arcigno. Poi veniva la casa di Menicone e ci dimenticavamo della fucina. Il padrone doveva essersi appisolato dentro, ma noi non ci badavamo e, col sole allo zenit, davamo inizio alla nostra serenata. Ma anche senza fare tanto chiasso il Menicone sarebbe ugualmente apparso sulla soglia di casa, quasi sempre in mutande, per biascicarci una lunghissima litania di miserie. Più interessante sarebbe stato invece scoprire come sarebbe apparsa la Concetta sul suo balcone, sentendo la nostra zufolata; ma in genere ci accontentavamo di vederla a distanza, perché una volta che c’eravamo allungati sul suo marciapiedi per riposarci, senza alcuna malizia, ci aveva cacciati con urla inviperite. La sera, quando la vedevamo affacciarsi dal balcone, ci dava la strana sensazione che fosse incerta  se prendere il fresco ogettarsi sotto. Tuttavia le sue forme, anche a distanza, si delineavano perfette sotto la gonna e la camicetta scura. Il figlio del fornaio, che era più grandicello, giurava di avere sbirciato sotto le gonne, mentre quella gli calava il panierino del pane, due gambe nervose e lisce, strette dentro calze di nailon; mentre il petto, posato sulla ringhiera del balcone, come su di un vassoio, le si gonfiava sotto la camicetta scollata. Ogni volta che ci ripensava, gli ritornava una vampata sul viso. Si vedeva bene che la Concetta non teneva la comunione in bocca, ma il pettinato diceva che era una santa donna e che non faceva male a nessuno. Ma lui la santa donna l’andava a trovare a tutte le ore. Il pettinato si chiamava Andrea ed era un tipetto smilzo, nervoso, di carattere allegro. Teneva sempre i capelli ben lisci, lucenti di brillantina. Di lui raccontavano che una notte d’estate s’era tirato dietro un gruppo di giovinastri, nervosi e inquieti come lui e forse anche avvinazzati, in un vicolo stretto, dall’acciottolato scivoloso. Sotto una di quelle finestre la compagnia s’era soffermata. Sua suocera a quell’ora stava a letto ma era sveglia, perché col caldo non si poteva dormire. Tra le tante teste amorfe, indistinte, solo quella di Andrea, liscia e impomatata, luccicava alla luna. Il mormorio si dileguò non appena lui cavò fuori da una chitarra, che pizzicava sempre nei momenti di svago, un motivetto stonato ma frizzante, di un’allegria sfacciata, al quale fece seguito un accavallarsi di voci stranamente intonate…

Oh quanto è bella mia suocera!
Che se la mangino i diavoli!

 Il tono canzonatorio era troppo evidente, nonostante scoppi repentini di risate ingarbugliassero le parole. Che cosa accadde di preciso non so; anche se però qualcuno afferma che ci furono grida e che vennero pure i carabinieri, credo che nulla di tutto ciò avvenne. Forse, più semplicemente, la vecchia si fece alla finestra vacillante, coi capelli bianchissimi sciolti sulle spalle. Ma gli uomini non dovettero accorgersi di nulla. Videro solo un paio d’occhi, quasi fosforescenti, proiettare su di loro una luce fredda, più tagliente della lama di un coltello. Subito dopo la finestra si richiuse.

Terre tra due fiumi

La notte subito dopo la prima scossa, mentre la gente fuggiva a destra e a manca e le macchine sfrecciavano rumorose anche il corvo, presa dal panico, s’era fatta sulla soglia, timorosa quasi di sapere. Le avevano gridato forte, affinchè sentisse meglio, che c’era il terremoto. Alcuni poi, quella notte, la videro aggirarsi per la piazza, dove al centro scoppiettava un falò fumigante, attorno al quale s’ammassava gente rumorosa e parlottante, i cui visi esprimevano meraviglia e incredulità insieme. Si era in gennaio e tutti stavano con una coperta sulle ginocchia o uno scialle in testa. S’era pure fatta vedere alla stazione, dove aveva trovato una massa di gente che sembrava avere preso il posto dei gatti, che poco prima si rintanava in quei vagoni o vi saliva sopra, per miagolare alla luna. Gli uomini stavano fuori, fumavano e bestemmiavano come turchi, se qualcuno abusivamente voleva invadere l’alloggio. Erano venuti tutti con materassi, coperte e le donne coi soldi nascosti nel petto. I primi arrivati s’erano presi i vagoni migliori e già parlavano di portarci la luce il gas e il televisore. Anche il corvo c’era, ma s’era adattata a trovare un posticino in un vagone nauseante, pieno di insetti che pizzicavano e col tetto sforacchiato, di lamiera arrugginita. Vi trascorse però solo quella notte, perché poi si chiuse in casa e non si fece più vedere in giro, quasi le fosse del tutto passata la paura del terremoto. Il continuo stato di stupore o di ebetismo in cui viveva, le impediva certamente di pensare alla paura. E forse alle sue stolide congetture ci doveva pensare con qualche reticenza, per via della gatta, che le ronfava in grembo o le incatenava i piedi, col rischio di farla cadere. Dopo il terremoto i suoi orizzonti s’erano per così dire allargati e le visioni pure, alle quali partecipava con discorsi quasi sempre confusi, adeguando una voce rauca ed impercettibile. La disperazione sembrava tuttavia salvarla dalla monotonia delle meditazioni: una disperazione banale, che sorgeva casualmente e svaporava in fretta. Poteva ad esempio venirle causata dal ritrovare il piattino con la pietanza ben bianco e lucido, come se fosse stato lavato. E questo le capitava spesso, nonostante i più svariati accorgimenti. Sembrava quasi che la gatta avesse deciso, nonostante il parere contrario della padrona, di fare un po’ di faccende per conto suo e in particolare ripulire i piatti con gli intingoli, che la sua padrona non aveva certo dimenticato. Una guerra fredda cominciò così a delinearsi tra le due, senza soste, fatta di miagolii famelici e di occhiatacce. Negli ultimi tempi la gatta però aveva preso l’abitudine di andare a spasso per intere settimane. Ritornava poi pregna, miagolante, un po’ vergognosa, come per farsi perdonare. La vecchia la guardava arcigna, coi suoi occhi di falco, simili a due galletti appollaiati dentro le orbite. Ma non correvano parole: si fulminavano solo con gli sguardi. Un giorno la Rosa, forse facendo affidamento sull’arcigna bonarietà della padrona, s’era tirato in casa un gattone dal pelo screziato quasi tigresco, che camminava con la coda tesa, diritta come un’antenna. I monelli l’avevano soprannominato Pasquale l’americano, avendo non so perché rilevata una certa somiglianza con un altro americano, quest’ultimo venuto da poco da New York e che di mattina bazzicava nel bar, chiuso in un vestito color latte sporco e con la paglietta in testa. Incominciavano a venire infatti i primi emigranti dall’America e, ricchi o mezzi ricchi, erano una sorpresa per chi li aveva conosciuto prima. Ritornando magari facevano loro stessi il paragone su come sarebbero rimasti, se avessero continuato la vita di paese. Il nostro gatto non era un emigrante arricchito e la sua fortuna la sprecava solo con le gatte di passaggio o dedicando alla luna furiose serenate, che duravano fino al mattino. La Rosa aveva subito colto l’opportunità ed era passata a sfidare quel gattone che la guardava imperterrito, con le vibrisse emozionate e tese come antenne. L’intesa era stata comune e una miagolata era bastata per fare amicizia e per andare a rintanarsi sotto il letto.

Quando intorno al 1926, nel mese di febbraio, crollò il ponte in muratura per l’alluvione che aveva fatto ingrossare il fiume, il treno venne fermato in tempo nella vicina stazione. In tempo per evitare una disgrazia, ma il casellante che abitava proprio nei paraggi del ponte, ci perse la vita e il suo corpo fu ritrovato, parecchi giorni dopo, sotto due metri di terra. Il terreno si muoveva freneticamente verso il fiume, quasi fosse stufo di restare sullo stesso posto, portandosi con sé tutto quello che sosteneva: alberi, pagliai di canne, muriccioli in pietra. Scomparivano i viottoli, quasi non fossero stati mai tracciati. Un albero di fichi cambiò completamente padrone, arricchendo con la sua presenza un terreno incolto. Ma il suo nuovo proprietario, un allucinato contadinotto dalla barba ispida che gli nereggiava il mento e le gote, non lo considerò mai come suo e finché visse permise al primitivo padrone di cogliersi la metà dei frutti. Un carrubo gigantesco, che quattro uomini stentavano ad abbracciare, venne completamente sradicato, ma non fece molta strada: trascinato dalla corrente si arenò quasi subito tra due sporgenze rocciose del fiume, proprio nel punto più stretto e meno profondo. Ma quello che impressionò di più i contadini fu scoprire, quando la calma avvinse ogni cosa, che il fiume sputava ogni sorta di animali, tutti col ventre gonfio, a otre, che il sole oscenamente riverberava sulla spiaggia. Qualche tempo dopo quelle carcasse si erano imputridite: le teste disseccate erano piene di moscerini e le costole, alcune nascoste da esili e sfilacciati brandelli di carne, sporgevano simili a grucce. Il ponte venne poi ricostruito in ferro dai fascisti e ancora oggi lo si vede così come l’hanno lasciato, più scuro però e molto arrugginito. Ma sembrava meno solido di prima e i contadini non tardarono a chiedersi quanto sarebbe durato. Nessuno però azzardava una risposta né faceva previsioni, neppure dava vita a una qualche scialba intuizione. Su tutti i visi, come per una rapida intesa, si stampava invece una rassegnata vicissitudine. Qualche altro borbottava che se lo sarebbe mangiato il salmastro, ma come fra sé, anche se abbastanza forte da farsi sentire. Ma alla fine con l’aria di non dire niente di straordinario, perché la fine del ponte, rientrava nell’ordine dei fenomeni naturali, come la malaria che si spandeva sul fiume. In paese si acciottolava qualche strada. Dirigevano i lavori certe camicie nere dallo sguardo quasi ieratico. Gli operai sputavano, di tanto in tanto, sulle lisce coti che affondavano col mazzuolo, dando l’impressione di covare dentro una rabbia sorda, senza senso; ma forse lo facevano solo per variare il lavoro, per concedersi una pausa. Simili ricordi significavano molto per il corvo che, in quel travagliato ventennio, aveva vissuto gli ultimi anni della sua giovinezza e s’era avviata verso una maturità incerta, piena di larvate presenze. In genere la sua attenzione si applicava su un ricordo che riesumava improvvisamente, quasi per istintiva ispirazione. Poi, via via che i particolari le si profilavano netti nella memoria, passava a un altro ricordo e lo esaminava con la stessa attenzione del primo. E così faceva col terzo e con tutti gli altri fantasmi del passato che la mente continuamente le presentava, intrecciando alla fine una tela di ricordi che la notte, come un’occulta Penelope, disfaceva. La ossessionava inoltre il pensiero che il marito nell’aldilà dovesse indossare una camicia nera poiché era convinta che ciò che non si fa prima, dopo lo si dovrà fare per forza. Se il marito in vita non aveva indossato la camicia nera, certamente non l’aveva fatto per odio ideologico perché fascista lo era, anche se nella misura in cui lo era la maggior parte. Lui si scusava dicendo semplicemente che la sua pelle era una camicia più scura di quella fascista e non aggiungeva altro. Il figlio le era già partito per l’Africa e scriveva poche righe sgrammaticate, che lo stesso Corvo stentava a decifrare, quando Mussolini passò dal bivio, andando verso Trapani o Palermo. Era corso a vederlo tutto il paese: i fascisti fieri e inquadrati, le congregazioni religiose dalla compostezza gioiosa, una lunga marmaglia di monelli, che faceva ala ai compagni vestiti balilla. In lontananza una processione di carretti sembrava snodarsi, per le vie assolate di campagna, come un lunghissimo serpente variopinto; ma il polverone, alzato dagli zoccoli dei cavalli e dalle ruote cerchiate, impediva di scorgerla tutta. I cavalli più vicini, che meglio si potevano scorgere, davano all’occhio per le bardature sgargianti, i finimenti lustri e le pose marziali, sottolineate da un continuo tintinnare di sonagli. I carretti splendevano del colore delle pitture, che ritraevano paladini imbambolati in pose marziali, chiusi in grigie corazze o anche l’accozzaglia confusa di cavalli e cavalieri intenti a battagliare. Il carrozzino del potestà era passato in testa, più avanti dei giovani avanguardisti in divisa che cantavano…

Noi siamo i baldi giovani
Dalle camicie nere,
Siamo i Fascisti Siculi,
Le giovanili schiere.
Siamo le speranze italiche
Fedeli siamo a Mussolini
Ed al Fascio Littorio
Ch’è simbolo d’amor!

Improvvisi battimano e assensi fragorosi di eiaeiaalalà, sovrastarono il suono delle parole, ma in breve il canto, superate le acclamazioni, parve intensificarsi…

Viva l’Italia
E la sua gloria
Che nella storia
Mai smentì!
Viva la fulgida
Antica Roma
Che mai non doma
Nel mondo fu!

Che il terremoto fosse passato, il corvo stentava a crederci, anche se era un fatto reale che la gente, vinta la paura, ritornava in paese. Sembrava più rumorosa di quando era partita, quasi tentasse di scacciare i cattivi pensieri. Tutti però erano un po’ stanchi e come assonnati, simili a formiche che dopo un esodo forzato, per cause occasionali, ricompongano le file.

-Il temporale è passato- si ripeteva sommessa il corvo, gli occhi cerchiati dalla plastica gialliccia degli occhiali, vedendoli passare così alla chetichella e come vergognosi. Ma non aggiungeva più niente, come se reputasse inutile fare commenti o anche le venisse difficile farne. In questi casi il suo viso, indecifrabile come un enigma, riusciva bene a nascondere turbamenti interiori insospettabili. Aggiungerò tuttavia che le fece una certa impressione sentire che c’era molta gente sfollata, vittima di una catastrofe naturale che in un attimo aveva calpestato interi paesi. Ma il corvo alla fine di casa non s’era mossa, quando la paura aveva fatto fuggire tutti, né si mosse quando il tecnico comunale le dichiarò pericolante la casa. Spesso rimaneva a guardare imbambolata, quasi guardinga, come ossessionata da invisibili fantasmi, scuotendosi quando la Rosa le passava accanto con Pasquale l’americano. Entrambi avevano preso possesso di tutta la casa e spesso trovavano il giusto equilibrio, rintanandosi sotto il letto, da dove nemmeno la scopa riusciva a scacciarli. Ma avevano fatto lega solo per poche settimane, perché l’americano poi aveva trovato un’altra strada e così come era venuto, così se ne era anche andato. La Rosa però non ebbe a piangerlo molto dato che, pochi giorni dopo, ritornò ad assidersi sul solito muricciolo, con le vibrisse ancora di più tese. Qualche tempo dopo la ritrovai con un gattone bolso, pigro da fare spavento, che quando non dormiva si leccava i baffi o sbadigliava in continuazione.

Le vecchie case vicine alla ferrovia e quelle di periferia ben presto vennero abbattute. Dietro a esse, esili palazzine cominciarono a mostrare il loro ridente aspetto; ma sembravano tutte uguali e stranamente monotone… Non so se la vecchia si accorgesse di queste novità poiché, chiusa com’era nel suo antro, non si vedeva mai sulla soglia. Una giornata qualunque d’inverno però la porta restò chiusa tutto il giorno, sorda a tutti i richiami. Verso sera venne il fabbro e scardinò la serratura. La stanza odorava di cose stantie, ma ogni cosa era posata al suo posto, con un certo ordine. Solo la coperta era rovesciata, in buona parte per terra. Il pallore ceruleo del viso le distendeva le rughe, quasi annullandole, rendendola più giovane. Gli occhi li teneva chiusi. Sul comodino un lume a petrolio mandava un bagliore rossastro, leggermente fumigante. Sembrava quasi che la vecchia si fosse acceso un cero prima di morire. Solo la gatta dava segni di vita e ronfava ai piedi della morta. Quando vollero allontanarla scattò fulminea, mostrò i denti e drizzò la coda.

Salvatore Bommarito