Per i tipi di Torri del Vento, è appena giunto in libreria “C’era una volta un certo Stefano D’Arrigo di Alì Marina” (pagg.147, euro 16,00), libro-intervista co-firmato da Salvatore Cangelosi (scrittore e libraio) e Mario Grasso (tra le altre cose, nostro Ludi Rector) che di D’Arrigo è sempre stato studioso e fraterno amico. Questo conferisce al saggio una doppia valenza per il mondo della Letteratura: 1) quella di essere il primo libro edito riguardante lo scrittore “messinese” dopo la sua morte; e 2) quella di fornirci informazioni preziose per una migliore comprensione dell’uomo dietro l’intellettuale, con aneddoti di prima mano e affondi analitici. Così il volume si presta a essere lettura fondamentale per laureandi e dottorandi in procinto di redigere una Tesi di Laurea/Dottorato su “Horcynus Orca” (il suo capolavoro), ma anche punto di riferimento per chiunque si approcci alla lettura di D’Arrigo e ne voglia penetrare la “poetica”. A quasi 30 anni dalla scomparsa, a fronte di una (non abbastanza) estesa critica, Cangelosi e Grasso traggono le somme su questioni di accoglienza/rifiuto delle opere, inclusione/emarginazione negli ambienti degli addetti ai lavori, comparazioni con le voci regionali/nazionali/internazionali con cui la sua scrittura ha/non ha instaurato un dialogo. E lo fanno ripercorrendo la vita dell’amico, dagli anni del giornalismo sino alla scomparsa.
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Innanzitutto, l’indagine degli Autori comincia dall’esordio letterario con le poesie di “Codice Siciliano” (1957), sin da subito accolte positivamente con il conferimento dell’importante premio Crotone. E sono molteplici le tracce di uno stile già fortemente personalizzato, che non fa il verso a nessuno, tracce che in altra occasione ho avuto modo di indagare a caldo, mossa dall’entusiasmo della prima lettura (cfr. Classici di Sicilia: D’Arrigo, in Ebdomadario, 05/05/2018). Ma l’affondo di Mario Grasso raggiunge quote «dove il mare è mare» (per usare un’espressione darrighiana).
Ad accomunare esordio e capolavoro, pur servendosi di generi letterari differenti, vi è per esempio la genesi di alcune suggestioni nel mondo dell’arte, e in particolare dei dipinti neorealisti ed espressionisti di Giovanni Omiccioli e dello stesso Renato Guttuso. Attenti, tuttavia, a non contrassegnare le opere di D’Arrigo come neorealiste!
In entrambi i casi – di “Codice Siciliano” e “Horcynus Orca” – si può parlare di nostos: ora ritorno a «una lingua che non so più dire», ora ritorno in Sicilia dalla Grande Guerra e dai disastri storici.
Se il premio Crotone aveva fatto da propulsore verso una scrittura sempre più presa sul serio (e da prendere sul serio), il premio Cino del Duca (1959) per “La testa del delfino” (incunabolo dell’Horcynus) aveva a tal punto alzato la posta in gioco, e reso lo scrittore esigente verso se stesso, che ne decretò il ritiro dalla Poesia: non volle più pubblicare versi. Da allora ci fu solo il progetto dell’orcaferone la cui realizzazione si destinava, tela di Penelope, a durare un ventennio.
All’entusiasmo dei consensi (il premio era stato difeso da Elio Vittorini e la scommessa editoriale fu di Arnoldo Mondadori), si aggiungeva l’aspetto più importante e determinante della vita di D’Arrigo, sia sul piano privato che professionale: la moglie Jutta, a cui – non a caso – dedicò “Horcynus Orca” con parole come pietre: «A Jutta, che meriterebbe di figurare in copertina col suo Stefano».
E qui le ragioni sono numerose, alcune note ed evidenti, altre ipotizzate dagli Autori.
Innanzitutto la moglie aveva capito subito quale talento vi fosse nel marito e fece tutto per sostenerlo, dandogli quella serenità economica e organizzativa necessaria per dedicarsi alla scrittura. Ne fu figura di accudimento durante i periodi di malessere, a causa dell’epilessia di cui soffriva. Dalla grande raffinatezza intellettuale e morale, ne fu fedele consigliera, dolce e inflessibile al contempo, amministrandone persino le amicizie (nel bene e nel male). Ne fu consigliera a tal punto – e qui ci introduciamo nel territorio dell’ipotesi – che condizionò alcune scelte narrative, con suggerimenti e influssi della tradizione calabrese, da cui lei d’altronde veniva. Si pensi alla caratterizzazione di alcuni personaggi (le femminote) e ad alcune espressioni che hanno più del calabro che del siculo. E che dire del fatto che, tra tutti gli scrittori siciliani di sempre, Stefano D’Arrigo è stato quello che più di tutti (o forse bisognerebbe dire il primo!) ha saputo dipingere la donna nella sua complessità, lontana dai cliché e dagli stereotipi di genere (di cui i colleghi del presente e del passato, pur nella loro grandezza, sono stati vittime e divulgatori). Quest’ultima osservazione è di Mario Grasso, che alla figura femminile nelle proprie opere ha riservato un’attenzione altrettanto particolare. Ma Grasso aggiunge anche, in punta di piedi, che su questa sensibilità può aver influito, ancor prima, la madre, la quale, di tutt’altra stoffa di Jutta, di mestiere gestiva una casa di tolleranza, quando Stefano non aveva ancora paura che la propria origine gli rovinasse l’immagine e cambiasse il nome di battesimo Fortunato per depistare i conoscenti.
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Naturalmente non sono mancate – e tutt’oggi non mancano – le stroncature, di cui Mario Grasso indaga le ragioni (quelle certe e quelle che si possono supporre): racconta le reazioni di Giovanni Raboni a “Codice Siciliano”, i silenzi di Leonardo Sciascia, l’orgoglio del gruppo di Alberto Moravia, incidenti tipografici, raffinato snobismo della critica e, sino a “Cima delle nobildonne”, il consueto iter del sistema dei recensori in Italia. Qui non manca un’allusione alla loro incompetenza, che boccia un’opera perché non ha le conoscenze per poterla comprendere e apprezzare, tanto meno il tempo materiale per leggerla con attenzione. Eh già.
Qui, pur rifiutando l’H.O., la riflessione più ponderata e ragionevole fu di Carlo Bo:
«Nessuno può dire che non si tratti di un capolavoro e di un libro straordinario – mi disse – straordinario anche per le sue dimensioni che scoraggiano qualsiasi lettore. Io lo ho fiutato. L’ho sfogliato e ne ho letto brani. È un libro che esige tempo – non solo per leggerlo – questo è evidente, ma per essere digerito nella sua parte che riguarda il vocabolario».
A tal proposito, a non giovare fu anche il fatto che per molto tempo il romanzo fu ritenuto intraducibile. Di recente n’è stata realizzata la prima traduzione, a opera di Moshe Kahn in tedesco, non senza difficoltà, che ha riscosso un grande successo oltralpe.
Questo lascia intravedere uno spiraglio verso il riconoscimento di Stefano D’Arrigo per quello che è: il più grande scrittore europeo della seconda metà del Novecento, come sostiene Mario Grasso. Certo, questa riscoperta dovrà confrontarsi con le legittime e rispettabili inflessioni del gusto, ma anche con i diffidenti, con chi finge di averlo letto o crede che basti qualche pagina per farsene un’idea, con chi fatica ad ammettere i propri limiti linguistici alla base di una presunta illeggibilità, e infine, naturalmente, con l’attualità di una percentuale di lettori che scende sempre più. L’atmosfera fiabesca e mitica richiamata dal titolo è eco di un «c’era una volta un modo di lettori…».
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Una precisazione che è giusto fare, per chi non si è ancora approcciato a “Horcynus Orca”, è in ordine al linguaggio, così difficile da penetrare non perché astruso, ma perché complesso, fortemente personalizzato e contaminato da mistilinguismi, chimismi, neologismi, un registro lessicale che codifica una nuova lingua e necessita di qualche decina di pagine per essere introiettato. Allora la lettura sarà scorrevole e gustosa, perché si avranno apprese le regole del gioco. L’Horcynus chiede fiducia. Per tale ragione è stato parzialmente accostato a Carlo Emilio Gadda.
Stefano Lanuzza, che – anch’egli amico e studioso dello scrittore di Alì Marina – ne ha curato la prefazione, nel 1985 condusse uno studio filologico sul vocabolario “orcinuso” che esitò nel libro “Scill’e Cariddi. Luoghi di Horcynus Orca” (ed. Lunarionuovo, quando non era ancora rivista ma marchio editoriale).
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Cangelosi e Grasso hanno discusso anche di ipotetici influssi letterari, riflettendo su affinità e dissonanze rispetto ad autori corregionali (come Verga, Quasimodo, Pirandello, Lanza), nazionali (Gadda) e internazionali (Musil, Mann, Proust, Melville, Conrad). Non passa nessuno al vaglio, perché D’Arrigo, ora per un motivo ora per un altro, risulta diverso da tutti loro, non appartenendo a nessuna costellazione; realizzando ancor più efficacemente, a dispetto della complessità del suo stile, quella levità teorizzata da Italo Calvino.
Il raffronto più interessante è con Verga, il cui universo di personaggi e sicilianità era così vicino allo scrittore che esorcisticamente, per paura di poterne riprodurre formule e rischiare di risultare un epigone, tappezzava le pareti dello studio di bigliettini con su scritto: “Guardati da Verga”. Questo è uno degli aneddoti divertenti che solo Mario Grasso poteva fornirci.
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Tuttavia, a farci ancor più sorridere e a far luce sul lato umano e contraddittorio, sono gli episodi legati alle amicizie. Eclatante il caso di Guttuso, tra i migliori amici di D’Arrigo, con cui aveva finito per rompere in modo drastico, plateale e irreversibile, a causa di equivoci creati e alimentati dalla rivalità tra le rispettive mogli (Mimise e Jutta, rispettivamente duchessa e marchesa). Se alcune scene fanno sorridere, la storia fa infine rabbia.
Ma anche questo concorre a dipingere un quadro dell’uomo fatto di luci e ombre, messo a nudo nella sua complessità che gli aveva reso la fama di superbo. D’Arrigo aveva tanti difetti ma non era superbo, ci dice Grasso (che non fa sconti di nulla, ponendosi ancora una volta, nella sua imparzialità, come “cavaliere solitario” – per citare la definizione che ne dà Cangelosi).
Molto non abbiamo detto in questo excursus, ma rimandiamo alla vostra lettura di prima mano, per comprendere un pezzo di storia della letteratura italiana, con l’auspicio di poter restituire giustizia a chi non la ha avuta in vita.
Giulia Letizia Sottile