Con “Santi, potenti e briganti” (ed. Prova d’Autore, pagg.133, euro 15), Maurizio Cairone esordisce nella narrativa, dopo pregressi impegni in riviste culturali e nel teatro. L’Autore si affaccia al panorama editoriale contemporaneo con un’identità ben delineata e controcorrente rispetto alle mode di ultima generazione che puntano al minimalismo e alla facile trasposizione cinematografica. Sin dalla prima pagina si comprende di trovarsi di fronte a un’opera letteraria. Cairone compie un’operazione coraggiosa: quella di presentificare un teatro storico di una verosimile Maletto del ‘600 e lo fa infondendo nuova linfa vitale al linguaggio per mezzo del ricorso al mistiliguismo (che fu molto apprezzato in Gadda e D’Arrigo ma che non ha mai avuto un vero seguito in Italia).
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Il romanzo sembra essere stato scritto appositamente per uso teatrale, ogni episodio sembra svolgersi davanti ai nostri occhi come su di un palco, con personaggi-macchiette e dialoghi popolani che divengono efficaci strumenti narrativi. Gli episodi, tuttavia, sono cornice, pretesto per illustrare sfumature di pensiero e cultura demonica locale.
La narrazione è divisa in “quadri” come i quadri dei cantastorie di antica tradizione orale, erranti per la Sicilia attrezzati di una sorta di scenografia, come le tavole di un fumetto, che indicavano con un bastone al passaggio da una scena all’altra. Questo è un aspetto del romanzo non solo rivelatore dell’impegno storico-folclorico, ma anche di grande originalità. Lo stesso narratore fittizio si identifica sin dall’apertura con un tale che si assume la responsabilità di tramandare la storia, e alla fine si introduce il “puieta” (poeta, cantastorie) che potrebbe esser letto come l’alter ego di Maurizio Cairone.
La trama? È una rievocazione esemplificativa delle dinamiche di potere e del loro abuso, ma è più efficace citare i titoli di qualche capitolo-quadro: “Un brigante si mischia con l’autorità e se ne schifìa”, “briganti e autorità zitìano facendoci le corna al poverello”, “briganti spadronati si trovano papi, e a papiare gli viene dalla manca”, “i papi che papìano si trovano troppo a braccetto con i briganti che brigano, e gli viene dalla manca”.
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L’attenzione da storico la osserviamo con ammirazione nella formula epistolare introdotta tra un episodio e l’altro, dove le lettere ricalcano quelle vere manoscritte da personaggi dell’epoca. Ma anche nella psicologia delle folle, attraversata da un retroterra di estrema povertà e dal senso di coesione (e a volte di psicosi) che si genera(va) attorno alle feste religiose e al culto dei santi. Ma Cairone rievoca anche personaggi della mitologia malettese come lo “scavuzzo” (una sorta di gnomo).
La dimensione storica si intreccia all’impegno filologico a partire da una profonda conoscenza, oggi rara, del dialetto (in tal caso di Maletto), con le sue sfumature e le sue esclusività. Forse un italiano non siciliano incontrerebbe notevole difficoltà nella lettura, sebbene molte parole siano tradotte nelle note conclusive. D’altra parte queste ultime risultano di grande aiuto per i siciliani stessi, specialmente di più recenti generazioni, senza contare tutti i significanti (tra gli antichi detti della tradizione e i neologismi) che sfuggono al compendio dizionaristico stilato dallo stesso Autore. In ciò risiede soprattutto il coraggio di una proposta letteraria che non scende a compromessi con l’oblio e il livellamento al ribasso. Probabilmente del parere, come chi scrive, che la conoscenza (e l’uso) delle lingue locali possa rappresentare per la lingua di comunicazione nazionale una risorsa, al momento di arricchire l’espressività e l’esprimibilità.
In questo romanzo, poi, il siciliano non è utilizzato in modo circoscritto, nelle battute di spirito o a colorare qua e là la narrazione (come accade nei gialli siciliani di moda), non è un siciliano “usa e getta”, bensì è perfettamente integrato nella narrazione con spontanea disinvoltura, come può accadere solo a un “madrelingua” che conosce davvero la madrelingua.
E poi il gioco di muoversi liberamente nelle infinite combinazioni dei vocabolari merita una considerazione sullo stile. Cairone inventa parole, combinando o distorcendo quelle consuete, approfittando di concomitanze fonetiche o di allusività figurative. (Esempio: per Robin Wood, “Robb’inuddu” che sembra robbi ‘i nuddu, cose di nessuno). Altro esercizio di flessibilità è nel cambio di registro nel passaggio della focalizzazione da un personaggio all’altro, dal popolano al principe.
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A colorare personaggi e contesti sono poi le metafore, anch’esse in armonia con il mondo siciliano, come i piedi dei bambini come fichi neri o i potenti come coppia d’otre, (l’otre era ricavata da due pezzi di tela cerata cuciti insieme; quando un pezzo si strappava, si scuciva e si sostituiva con un altro).
Ma la presenza più ingombrante, seppur esplicitamente richiamata solo un paio di volte, è quello dell’Etna, ‘a muntagna (a nostro avviso la “pupara” di tutto). Personificata dall’Autore (come in genere da tutti i siciliani), “si fa licca [ghiotta], con la sua lingua di fuoco se li sorba piano piano, le murelle, i faghi, gli zzappini”, eccetera; “sta Montagna, quando vuole, si spolpa Bronte”.
La lava erutta come le trame umane nel loro farsi, mentre il popolo ribolle nei preparativi della rivolta come un vulcano attivo. Il fenomeno naturale è contraltare e specchio del fenomeno umano. I rombi sommessi del vulcano sono come il preludio della storia, gli intermezzi e i sottofondi, la colonna sonora, a dettare quasi il ritmo di azione e retroazione, come in un’opera musicata.
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E dato che, come scrive Maurizio Cairone alla fine, “il soverchio rompe il coverchio”, ci fermiamo qui, congratulandoci per l’esordio e pregiandoci di averlo tra i collaboratori di Lunarionuovo con racconti mensili, anch’essi orientati a valorizzare la Storia della Sicilia, dalle antichità classiche alle epoche recenti.
Giulia Letizia Sottile