Trovo estremamente difficile riuscire a essere sorprendenti attraverso proposte di evasione. Il rischio è di sfociare nei cliché. Qualcuno pensa in modo dicotomico che o si scrivano storie drammatiche o, altrimenti, divertenti. In realtà si può essere abbastanza noiosi in entrambi i casi. La noia di una tragedia trita e ritrita, la noia di una barzelletta raccontata male. Una cosa che apprezzo molto, sia nella letteratura che nel cinema, è il tragicomico: riuscire a far ridere pur parlando di cose che dovrebbero far “piangere”, o riuscire a fare in alternanza ora ridere ora piangere, pizzicando tutte le corde del nostro animo. Questo con mia grande sorpresa l’ho trovato in Proust.
Sembra una brutta parola. Come ti permetti, Proust ci sarai tu!
La ragione è che oggi noi pensiamo a Proust come a un malloppone. Non tanto per la mole quantitativa – c’è gente che si sciroppa allegramente Stephen King e George Martin, forse motivata periodicamente dalle trasposizioni cinematografiche. (E cito volutamente due indiscussi scrittori di valore perché nessuno ne abbia a male). A giustificare il vissuto da malloppo è lo stile, il modo in cui lo scrittore usa la lingua. Ma quantità di pagine e complessità espressiva non equivalgono a “noioso” come in una formula matematica. E dico noioso per usare l’italiano ma mi viene in mente con più spontaneità l’inglese “boring”, perché mi fa pensare al rotolio delle palle da bowling sulla pista mentre deviano verso la canaletta e il giocatore deluso sente cadere in terra un altro tipo di palle.
Nulla di tutto ciò. Proust è divertente. Lo dico da lettrice in itinere, non compiuta, dal momento che mi trovo ancora a metà nel percorso di digestione de’ La Recherche (come si è soliti amichevolmente chiamarla).
Ma finora, a fronte di tutte le volte in cui mi sono sentita offesa per essere stata in realtà messa a nudo nel mio animo, nelle mie fragilità, messe davanti a me come a uno specchio impietoso, ve ne sono state altre in cui ho riso e sono tornata a farlo anche a distanza di giorni al solo pensiero di quella scena o di quella battuta. Ma per riuscire a entrare nelle intenzioni comunicative di Marcel – così, per nome mi piace pensarlo, anche perché è proprio dal piccolo Proust che si dipana il viaggio – innanzitutto bisogna digerirne il linguaggio. Il difficile è entrare nella struttura della sua mente, nel modo in cui lui processa le informazioni e le elabora, in una modalità organizzativa dove il linguaggio si pone in una forma che ricorda proprio la costruzione del pensiero. Sembra quasi che il racconto rivolto al lettore si sovrapponga perfettamente al racconto che rivolge a se stesso, nell’impresa di quanto meglio capire (dove capire si dovrebbe scrivere con cinque “c”).
Se sapessimo davvero cos’è La Recherche prima di leggerla, potremmo approcciarci a essa senza pregiudizi, prendendola persino in simpatia. (E questa è forse la ragione per cui ho deciso di scrivere questa riflessione).
Tendiamo ad apprezzare perlopiù i prosecutori di “grandi” come Proust o Joyce. E qui scatta il monito di non accomunarli, come a volte si tende a fare, tant’è che Virginia Woolf amava il primo e disprezzava il secondo. Appartengono a un filone figlio di una stagione culturale europea in cui anche sul piano filosofico, per esempio, sarebbe più corretto parlare di Esistenzialismi al plurale, operazione che ci fa porre un abisso tra Heidegger e Sartre. Dunque con le dovute distinzioni, siamo nell’epoca di monologhi interiori, flussi di coscienza, sperimentazioni fono-semantiche, libere associazioni che fanno tesoro e traggono ispirazione dalle nuove indagini in ambito psicologico. Questa è una cosa che affascina ancora oggi il tipo di lettore che è portato a misurarsi con l’introspezione.
Ma proprio perché è all’introspezione che si mira, il discorso può andare così in profondità da risultare inquietante, nel tentativo di circuire sino a catturarlo quel concetto, quel sentimento, quello stato d’animo, nel tentativo di essere quanto più esatti possibili. Per farlo, vi si gira attorno in cerchi concentrici sempre più stretti, fino a individuare il concetto nel suo centro e inserirlo in una concatenazione logica di sincronie, collegamenti che, se considerassimo la nostra stessa vita nel suo scorrere distratto, tenderebbero a sfuggire.
Il merito della Letteratura – ma anche di chi riesce a inserire la propria vita all’interno di una trama narrativa, a prescindere dalla formula del romanzo – è quello di riuscire a cogliere i nessi tra un prima e un dopo, una causa latente per un effetto a sorpresa ma quasi inevitabile in una logica laica di karma. È un compito arduo per chiunque e in qualsiasi epoca, ma misurarvisi attraverso un testo scritto, mettersi davanti a se stessi, ai propri limiti, lasciando traccia di scheletri e fantasmi, ma anche di autentiche gioie e inconfessabili soddisfazioni, nelle società accelerate odierne è… inconsueto.
Così, se in genere è possibile farsi un concetto di un Autore leggendo la prima pagina di un suo libro, a volte aprendo una pagina a caso, annusando qua e là, non ci si può aspettare lo stesso da questo genere di “mostri sacri”. Non si possono leggere dieci pagine di Proust e pensare di averlo capito.
La stessa cosa accade quando leggiamo le opere di Stefano D’Arrigo, per citare un italiano (il fatto che fosse siciliano non è campanilismo). Nel mio immaginario letterario pongo D’Arrigo nella stessa categoria di Proust e Joyce, sebbene anche nel suo caso sia possibile parlare di unicità, oltre a collocarlo cronologicamente a mezzo secolo di distanza e ad aprire il capitolo del mistilinguismo. Prendiamo la sua opera più importante e rappresentativa, il voluminoso romanzo Horcynus Orca: le prime venti pagine non sono altro che un riscaldamento! Come nelle discipline sportive, ma potremmo allargare il paragone a qualsiasi ambito di vita. Spesso vorremmo ottenere ciò che desideriamo con un semplice tocco di bacchetta magica. Me ne accorgo nel piccolo della mia professione, quando un paziente si aspetta che basti un colloquio per poter ottenere i risultati attesi. Serve una combinazione di più ingredienti: tempo, costanza, impegno, sguardo (e con “sguardo” intendo proiezione verso una meta, consapevolezza dell’evolversi di un percorso fatto di passaggi e gradini, svolte e fermate, indietreggiamenti e traguardi).
Non diverso è negli sport. Immaginiamo l’allenamento di un atleta. Comincia con lo scioglimento articolare, per evitare che sopraggiungano crampi e di incorrere in incidenti. Il passaggio successivo è camminare, gradualmente il tizio passa alla corsa e poi, solo a quel punto, quando è pronto, salta.
Le prime venti pagine di Alla ricerca del tempo perduto e di Horcynus Orca non sono altro che lo scioglimento articolare del collo.
Dobbiamo avere la pazienza di addentrarci per poter comprendere. Potremo poi decidere che la cosa non ci piace, non incontra il nostro gusto, non rappresenta il nostro modo di approcciarci al mondo. È legittimo. Ma non possiamo esimerci prima dall’entrare, anche solo nel pianerottolo della mente dell’Autore. Dalla porta di ingresso possiamo solo, col cappello in mano, dire: “non è per me”, “non ho tempo”, “non me la sento”, e la Letteratura ci vorrà bene lo stesso perché apprezzerà la nostra umiltà.
Invece accade spesso di sbuffare saccenti e rifugiarsi nei prosecutori, ignari del debito, in quanto soluzione più gratificante. I prosecutori hanno fatto tesoro degli apripista e ne ripropongono le caratteristiche in forma edulcorata, più accessibile. Ogni tanto inseriscono nella propria prosa qualche sprazzo di genialità per poi proseguire in modo del tutto conforme a un linguaggio quotidiano, prosa ordinata, rilassante. E noi vogliamo rilassarci! Non possiamo farlo quando un periodo richiede un sovrappiù della nostra attenzione.
Il grande problema degli apripista, anche a distanza di più di un secolo, è l’accessibilità. Una volta dentro, tuttavia, sfido qualsiasi lettore a dire che non possano essere letture appaganti.
Mi è più volte capitato di dire che la lettura di Horcynus Orca è un viaggio senza ritorno. Se ne esce da lettori nuovi, come quando a un certo punto della propria carriera professionale si ricordano i tempi in cui si facevano solo fotocopie, o come quando per la prima volta facciamo un viaggio all’estero e capiamo che non c’è posto dove non potremmo andare.
Ora che sono alle prese con la lettura di Proust ne sono ancor più convinta. Non voglio trarre alcuna conclusione in merito alla Letteratura del dopo-Proust, dal momento che la scrittura come la lettura sono operazioni di continua scoperta e trasformazione. Nessuna conclusione, nessuna inferenza. Semplicemente, stiamo attenti a quali criteri di valutazione ci costruiamo perché sono quelli che guideranno il nostro pensiero quando leggiamo e la nostra penna quando ci misuriamo noi stessi con l’inchiostro.
Citazione poco colta, tratta da un cartone animato della Pixar: “«Da che parte cade un albero?»; «Dalla parte dove pende. Attento a dove pendi»”.
Giulia Letizia Sottile