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C’ERA UNA VOLTA UN CERTO STEFANO D’ARRIGO DI ALI’ MARINA di Mario Grasso e Salvatore Cangelosi (ed. Torri del Vento Edizioni, Palermo 2020, euro 16,00).

Questo preziosissimo libro testimonianza sull’opera e la figura di Stefano D’Arrigo, è diviso in due parti: l’introduzione di Stefano Lanuzza, uno degli studiosi più accreditati dell’opera dello scrittore di Alì Marina,  e un lungo colloquio tra Salvatore Cangelosi e Mario Grasso.

L’impressione che subito si riceve leggendo, è la preziosità dell’operazione in un momento storico in cui, l’affastellarsi nel mercato editoriale di narratori e poeti non sempre degni di nota, l’opera dei grandi rischia di rimanere congelata nelle diatribe della loro epoca, in quelle valutazioni critiche che a volte furono condizionate da un clima letterario engagé, alla moda.

Il rischio di una dimenticanza, poi, è sempre alle porte, allorquando considerazioni squisitamente di opportunismo imprenditoriale, non ne suggeriscano la ristampa e di conseguenza non ne stimolino una risorgenza critica, o peggio ancora l’interesse delle nuove generazioni.

Una riflessione che Mario Grasso suggerisce a conclusione del libro, riguarda proprio la storia futura del maggiore romanzo di D’Arrigo: ” L’avvenire della memoria, nella storia della letteratura italiana, è intanto assicurato per l’Horcynus Orca e per il suo autore; il resto s’affiderà all’oscillazione dei gusti  e alla preparazione di chi (…) per dovere istituzionale (…) sceglierà la miniera degli argomenti trattati nel capolavoro letterario del Novecento, come tema di studio per sé e per chi probabilmente, di generazione in generazione si convincerà da solo verso altrettanta scelta”, p. 135.

Un altro aspetto importante  del libro riguarda la conoscenza diretta dello scrittore D’Arrigo di cui, sia Lanuzza che Grasso possono fregiarsi, questione di non poco conto in quanto permette di calare la “correttezza” delle valutazioni critiche in un contesto biografico che, come sempre accade nell’opera di un artista, funge da scenario e da sottotesto al dispiegarsi della sua arte. Questa, altrimenti, rischierebbe di essere congelata nella dicitura di “opera universale”, non dipendente dalle geometrie dello spazio tempo in cui essa è maturata ma da una bellezza astratta, persino insondabile.

E’ lo stesso Mario Grasso, a una domanda di Cangelosi, a proposito dell’Horcynus,  a negare l’idea di un romanzo  “fuori dal tempo“, “un raro diamante che luccica solitario dentro una teca“, p. 99; un dire raffinato che autorizza una mancanza di attenzione, se non addirittura una svalutazione critica come quella messa in piede, a suo tempo, da Enzo Siciliano.

La conoscenza diretta, per prolungata frequentazione amicale da parte di Grasso, consente, piuttosto, di immaginare una critica basata non solamente su una disanima semiologica dell’opera di D’Arrigo ma su un contesto esperenziale di più ampio respiro, che aiuti a valutare, con maggiore cognizione di causa, le motivazioni  profonde dell’opera.

Critica letteraria e biografia si sposano, quindi, come forse è nella maggiore critica, mostrandoci l’oggetto d’arte come risultato di un’osmosi, o al limite di una tempestosa antinomia, tra il dentro e il fuori, le ragioni dell’invenzione tout-court e le stimolazioni dell’ambiente socio-culturale, letterario, politico persino.

Nel pensiero dell’Horcynus, ad esempio, sembra aver funzionato fortemente la ricerca di una divergenza, quantomeno di un’autonomia di lingua rispetto all’opera di Giovanni Verga –  “Guardati dal Verga”, ribadisce continuamente, fino all’ossessione, D’Arrigo mentre scrive il suo romanzo – .

L’atteggiamento è da intendersi, scrive Grasso, come rischio del pericolo “di potergli fare ripetere stilemi e impronte di antropologia del tipo che sono entrambe nel tessuto linguistico (la presenza del dialetto) e nella intramatura dei fatti, dell’ambiente e dei personaggi del capolavoro I Malavoglia“, p. 44. Ma anche la distanza da un realismo, da un fonografismo di parlata, anche se poi la lingua del Verga rappresenta, a sua volta, una reinvenzione del dialetto, proprio per non scrivere in dialetto, così come D’Arrigo non intende utilizzare la lingua del Verga per non rischiare di cadere nel sottobosco degli ismi e dei minori.

La questione incipitaria, dunque, ha a che fare con la lingua. A Stefano Lanuzza D’Arrigo dichiarerà: “avendo io sempre pensato che con l’italiano avevo poco a vedere, il problema, per me, non fu tanto quello di raccontare certi fatti ma del come raccontarli, e, di conseguenza, di quale  linguaggio dovevo adoperare”, p. 65.

Il significato dell’operazione di  D’Arrigo, quindi, è da inquadrarsi nella sfera delle grandi operazioni linguistiche autonome, della creazione di mondi perfettamente autosignificanti, maturati tuttavia in un  contesto di cernita delle stimolazioni circostanti, da vagliare sulla base delle proprie cause interne.

Molte domande poste da Cangelosi, a tal proposito, riguardano gli eventuali influssi di altri autori appartenenti a una intellettualità raffinata di stampo europeo –  Joyce, Musil, Proust, Mann, Melville… –  scrittori accomunati sì dalla concezione di un’opera bulimica che tutto il mondo vuole  raccogliere e rappresentare, ma assai diversi tra di loro per concezione e forma. In particolare Grasso nega l’affiliazione dell’ Horcynus   all’Ulisse di Joyce, paragone utilizzato da qualcuno per mimetizzare una scarsa conoscenza del romanzo di D’Arrigo, tenendosi sul dato superficiale della difficoltà di lettura causa la mole, la quantità di pagine.

Così Carlo Bo, di cui Mario Grasso riporta indirettamente le parole: “Nessuno può dire  che non si tratti di un capolavoro e di un libro straordinario – mi disse – straordinario anche per le sue dimensioni che scoraggiano qualsiasi lettore. Io lo ho fiutato. Lo ho sfogliato e ne ho letto brani. E’ un libro che esige tempo – non solo per leggerlo -, questo è evidente, ma per essere digerito nella sua parte che riguarda il vocabolario…“, p.100.

E’ un fatto, poi, rileva Grasso che, mentre nella Recherche prustiana si trova “un po’ di tutto”, inducendo il lettore a una lentezza e al quale si chiede una notevole propensione a lasciarsi andare perdendosi nel labirinto narrativo del grande romanzo, nel caso di D’Arrigo il lettore è coinvolto in una ragnatela che, malgrado la sua complessità, mai perde di vista il racconto, il procedere verso un compimento della trama.

Romanzo ottocentesco, dunque, che non può rinunciare al procedere dei fatti, a una “cronologia”, seppur in un contesto mitizzato, di spazio e di  tempo sospesi?

A proposito dei possibili prestiti da un contesto di romanzo ottocentesco – ma sembrano più le diversità che le concordanze –  Grasso aggiunge anche il nome di Alessandro Manzoni, a segnalare le “divagazioni” dalla struttura, i “medaglioni”/ ritratti di personaggi indimenticabili; non per interruzione scenica del teatro del racconto ma per consapevole tecnica espositiva.

Personalmente concordo con Grasso nel mettere in luce il nome di Melville, e in particolare il suo Moby Dick –  romanzo, tra l’altro, appartenente alla biblioteca di D’Arrigo e assai consultato –  non solo per il tema marinaresco e della consonanza tra il significato simbolico dell’Orca con quello della Balena Bianca, ma soprattutto per l’elaborazione e l’utilizzo di una lingua specificatamente dipendente dal contesto. Nel caso particolare di D’Arrigo, in effetti, la sua lingua orcinusa s’incrocia con lo studio scientifico del “duemari”, (Stretto di Messina), lavoro che portò alla proposta di una laurea honoris causa in Oceanografia, negata per l’opposizione di un solo componente  del senato accademico  peloritano; chimismo linguistico, dunque, e linguaggio settoriale.   Stefano Lanuzza, dopo aver letto il libro, si mette in contatto con D’Arrigo prospettandogli “l’idea di una ‘campionatura’ ragionata – un parziale o scelto ‘glossario’ – delle neoformazioni lessicali dell’Horcynus, lavoro poi approdato a una definitiva stesura pubblicata da Lunarionuovo.  

Il corpo del romanzo, insomma, cresce per successive varianti, stesure parziali e correzioni dentro la culla di un ambiente famigliare protettivo; onnipresente è la figura della moglie Jutta senza la  quale la storia del romanzo sarebbe stata presumibilmente diversa.

Così Salvatore Cangelosi: ” E’ però innegabile  che senza il sostegno psicologico di Jutta non ci sarebbe mai stato Horcynus Orca. D’Arrigo, in diversi momenti della lunga gestazione del libro, fu sul punto di mollare l’impresa, mentre Jutta voleva che – l’Orca lasciasse definitivamente la nostra casa e che Stefano ritornasse a vivere e a stare con me –“, p. 122.

Ogni “contorno” biografico è, in fondo, consustanziale alla storia di un libro. Ne accompagna la stesura ma anche il dopo: la pubblicazione, il rapporto, non sempre limpido, con la critica, con gli amici, col desiderio, complice la coscienza della propria grandezza, di raggiungere una visibilità degna del risultato artistico ottenuto. Ciò spiega come quasi sempre, la fortuna di un libro non dipenda solo dalla sua bellezza intrinseca, ma dall’accoglienza che può o non può ricevere, dai suoi estimatori, da un lavoro continuo di presenza nel territorio, da una capacità di radicarsi nella dimensione fantasmatica del lettore. E questo, nel caso di D’Arrigo, la moglie/vestale/musa Jutta voleva che avvenisse, a costo di dolorose perdite e isolamenti; persino dell’alimentare il mito del carattere difficile del marito, questione che Mario Grasso, grazie alla sua conoscenza diretta dello scrittore, riesce a scalfire e a giustificare almeno in parte.

E’ chiaro che in questa testimonianza in forma di libro, il romanzo maggiore si prende gran parte della scena. Non bisogna dimenticare, tuttavia, di un prima, a partire da una lingua “altra”, la poesia, oggetto dell’unico testo in versi di D’Arrigo, “Codice siciliano“, ma anche di un dopo, l’altro romanzo, “Cima delle nobildonne“, un capolavoro sottovalutato dello scrittore di Alì Marina.

Per concludere questi appunti, una riflessione generale: scrittori grandi ha partorito l’Isola nel corso degli ultimi secoli, grandi per la Sicilia ma anche per l’Italia tutta. Strano che non sia ancora disponibile una omogenea storia della Letteratura Siciliana, in grado di fornire, anche alle generazioni future, un quadro di più vasto respiro di quanto sia stato prodotto. Molti libri non sono stati più ripubblicati, reperibili in internet spesso come oggetti d’arte, costosissimi, o messi a disposizione come vecchie copie su Ebay. In questo panorama, assai utile può essere la consultazione di un volume pubblicato da Prova d’Autore, “Volti e pagine di Sicilia – da Serafino Amabile Guastella a Lara Cardella, con ritratti di Tina Lo Re, a cura di Simona Noto”.

Se ne potrà apprezzare la varietà di voci, una cultura letteraria spesso imparentata con i grandi movimenti europei; la storia di un ambient culturale e sociale che quasi mai ha favorito lo sbocciare dell’arte letteraria dei singoli autori e il riconoscimento. Non per ultimo si potrà leggere di una coscienza antropologica motivata dalla complessa e ricca storia dell’Isola; fenomeno che mai si è esaurito fino alle fioriture dei nostri giorni in cui si nascondono grandi autori che nulla hanno da invidiare allo strapotere della imprenditoria editoriale del Nord e di una critica letteraria non sempre libera e generosa.

Sebastiano Aglieco