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Troppo antico e troppo giovane, troppo arrabbiato e troppo gentile, col tempo che per te non appare ancora diviso in un ‘prima’ e un ‘dopo’ come da una parete di macigni, t’inoltri al di là degli orizzonti della tua Isola assediata dal mare, cercando, mai turista e sempre viaggiatore, approdi nuovi per un altro vivere: a caccia di esperienze, visioni, emozioni, carico di gioia e di dolore per il mistero del mondo, pieno di magnanimi proponimenti e di romantico spleen, di ottimismo della volontà e d’un pessimismo della ragione esorcizzato da un’impertinente ironia.

Eterno precario, avverso alla pazzia del reale e ben presto cosciente della verità ultima, quella della vita che immancabilmente finisce in sconfitta, lo sguardo rivolto a lontananze irraggiungibili e con i sensi all’erta, incurante del male e aperto alla bellezza, navighi per mari furibondi e percorri sentieri dissestati, abiti lo spaesamento delle cosmopoli, sosti in remote stazioni di posta assediati dalla bufera e, ogni volta, torni a inoltrarti nelle profondità del mondo rimasto, per la tua sete di conoscenza, infinito.

Straniero in ogni dove, interroghi con distacco il tuo destino mentre percorri spazi aperti o asfittici, amene piazze metafisiche e labirinti metropolitani, confondendoti nell’andirivieni di moltitudini di persone fatte, tutte, e tu con loro, per nascere, vivere, finire umilmente sepolte.

È nel momento in cui t’avvedi di non avere mai cercato di ‘mettere radici’ che ti rendi conto d’esserti spinto più lontano di dove avevi creduto d’andare.

Tuttavia, al contrario del caro ‘Ndrja del darrighiano Horcynus Orca (1975), non pensi di tornare: perché – dopo avere imparato come il viaggio dell’esistenza sia riducibile all’ulissica odissea vissuta, come nell’umbratile metafora joyciana, in una sola giornata (cfr. Ulysses, 1922) – sai che l’ultima tappa di chi ha tanto viaggiato è il non ritorno.

Nessuna nostalgia, perciò, e nessun rimpianto; ma i giusti rimorsi dopo il weekend nel flusso dolceamaro dell’esistenza.

Altro ritorno non c’è se non verso te stesso, serenamente abbandonato a quel ciclo eracliteo (“Immortali mortali, mortali immortali, della morte degli altri viventi, della vita degli altri morenti”) dove non c’è posto che ti preservi né amico che t’accolga o ti riconosca.

Firenze, 31.III.2012
 
 
 
 
 
 
 

BERLINGUER FOR EVER

La questione morale è il centro del problema italiano.
E. Berlinguer

 

 
 
 

Sono trascorsi alcuni decenni dalla nascita di Enrico Berlinguer (Sassari, 25 maggio 1922), entrato in contatto con l’antifascismo sardo già nel 1937. “Da ragazzo” rievoca Berlinguer “c’era in me un sentimento di ribellione. Contestavo […] tutto. La religione, lo Stato, le frasi fatte e le usanze sociali. Avevo letto Bakunin e mi sentivo un anarchico. Nella biblioteca di uno zio, socialista umanitario, trovai il Manifesto di Marx; poi conobbi degli operai, degli artigiani che avevano seguito Bordiga, e che anche con il fascismo conservavano i loro ideali. Esercitarono su di me un forte richiamo; c’era, nelle loro vicende, molta suggestione” (Tommaso Gurrieri, Berlinguer ti voglio bene. Le parole e le idee, Firenze, Barbès, 2012, pp. 80, € 6,90).
È un puro idealista il giovane Enrico che, nel 1943, aderisce al comunismo. Nel 1944 (17 gennaio) viene arrestato a Sassari per avere preso parte alla “rivolta del pane”. Prosciolto dopo cento giorni di carcere, alla fine dello stesso anno è a Roma per militare nel Movimento della gioventù comunista. Nel 1945 si sposta a Milano, impegnandosi nella federazione del Partito comunista italiano.
Tornato a Roma nel 1946, nel 1948 è chiamato a far parte della direzione del Partito e nel 1949 viene eletto segretario generale della Federazione giovanile, incarico lasciato nel 1956. Nel 1958 è tra i componenti della segreteria e dal 1960 al 1968 svolge diversi ruoli negli organismi dirigenti del Pci.
Nel 1966, all’11° Congresso del Pci, rifiuta di dare il proprio consenso alla proposta di epurazione di Pietro Ingrao e della sinistra, accusati di frazionismo. Nel 1968 (19 maggio) è parlamentare per la prima volta e nel 1969 (15 febbraio) diventa vicesegretario generale del Pci (segretario, all’epoca, è Luigi Longo).
I tempi sono quelli della Guerra Fredda tra le superpotenze mondiali, intanto che nell’Italia ciurmata da forze eversive, oscuri corpi di potere e piduisti ‘sottotraccia’ si vive, dopo le bombe di Piazza Fontana (12 dicembre 1969), nel rischio di un golpe di destra. Ed è due giorni prima del ritrovamento a Segrate del cadavere di Feltrinelli sotto un traliccio dell’alta tensione (14 marzo 1972) che Berlinguer viene eletto segretario generale del Pci (12 marzo 1972, 13° Congresso), carica confermatagli nel 1975, 1979, 1983.
Il 28 settembre e il 5 e 12 ottobre del 1973, dopo il sanguinoso golpe militare dell’undici settembre nel Cile socialista, Berlinguer, senza nascondere il fastidio per le masochistiche diatribe fra la destra e la sinistra del Partito, seppure orientato verso la sinistra, pubblica sul settimanale “Rinascita” i tre famosi articoli dove espone la strategia del compromesso storico che vorrebbe sperimentare una trasformazione socialista del sistema italiano senza rischiare contraccolpi autoritari… Ma perché ‘compromesso’? “Questa espressione” spiega Berlinguer “l’ho usata anche con un po’ d’intento provocatorio. Proprio perché questa parola si usa correntemente con un significato deteriore, scegliendola abbiamo destato attenzione”. Dopotutto si tratterebbe d’una ripresa, con qualche variabile, del programma togliattiano votato all’unitarismo nazional-popolare.
“In Italia,” continua Berlinguer “una prospettiva nuova può essere realizzata solo con la collaborazione tra le grandi correnti popolari: i comunisti, i socialisti, i cattolici. Di questa collaborazione l’unità della sinistra è condizione necessaria, ma non sufficiente”. Ciò perché la sinistra, anche conseguendo il 51% dei suffragi, in Italia non potrebbe governare: ne deriverebbe “una spaccatura verticale del Paese che porterebbe alla rovina un’esperienza di rinnovamento della società”.
Segue, il 29 febbraio 1976 aMosca (25° Congresso del Pcus), dinanzi a circa cinquemila delegati giunti da tutto il mondo, la dichiarazione di autonomia del Pci e l’accettazione del Patto atlantico. Berlinguer parla di “sistema pluralistico” allo scopo di realizzare “quel socialismo che noi riteniamo necessario e solamente possibile in Italia”. È l’antefatto del reciso “strappo” prossimo venturo: l’Unione sovietica non è più la guida dei comunisti europei.
“Il rosso italiano assume una linea indipendente” commenta subito il “New York Times” (30 febbraio 1976)…
“Mi sento più sicuro sotto l’ombrello della Nato che sotto quello del Patto di Varsavia” dichiara poi Berlinguer al “Corriere della sera” (giugno 1976).
Così, il 12 marzo 1977 aMadrid, il segretario annuncia con lo spagnolo Santiago Carrillo e il francese George Marchais il programma di base dell’eurocomunismo che si propone una via al socialismo distinta sia dalla linea sovietica, sia dalla socialdemocrazia. “Una fase si chiude. La spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre si è esaurita. Si è esaurita la capacità di rinnovamento dell’Est europeo” asserisce Berlinguer in televisione il 15 dicembre 1981: prima che, nel gennaio del 1982, il Comitato centrale del Pci, affermando la propria sfiducia verso i regimi dei Paesi dell’Est, sancisca il definitivo distacco dal Cremlino e dal fallimentare comunismo reale.
Critico verso la politica dell’Urss, la repressione di Praga (1968) e l’invasione nel 1980 dell’Afghanistan, sempre nel 1980 (27 novembre, svolta di Salerno), caduto all’inizio del 1979 il fronte della solidarietà nazionale (resosi necessario anche per il ricatto delle Brigate rosse che il 16 marzo 1978 sequestrano Moro e il 24 gennaio 1979 ammazzano l’operaio dell’Italsider di Genova Guido Rossa), Berlinguer rinuncia, per quanto riguarda la politica interna, anche all’idea del compromesso storico con la Dc; e lancia l’ipotesi, forse la ‘scommessa’, dell’alternativa democratica (comunque altro dall’esclusivistica ‘alternativa di sinistra’): alternativa intesa, alfine, come trasformazione sociale o rivoluzione nonviolenta, basata sulla ricerca del consenso e sul pluralismo.
Tuttavia l’incontro-scontro fra Berlinguer e Craxi, con quest’ultimo nel ruolo di presidente del Consiglio e col segretario comunista emarginato in un’eterna opposizione, rivela l’impossibilità di attuare un qualsiasi progetto unitario. Non c’è dubbio: Craxi punta a logorare il Pci, affermare se stesso e prendersi il Paese. “La cosa che mi preoccupa in Bettino Craxi è che certe volte mi sembra che pensi soltanto al potere per il potere” considera Berlinguer. Allora comincia l’ostruzionismo comunista per il taglio della scala mobile, con le Camere bloccate come ai tempi della “Legge truffa” del 1953 proposta da Scelba e voluta da De Gasperi.
Ora, 7 giugno1984, inBerlinguer ritorna lo stesso timore espresso nei giorni del rapimento di Moro: la paventata crisi dello Stato democratico. Ed è altresì di questo che, in vista delle imminenti elezioni europee, sta parlando nel comizio dal palco di Piazza dei Frutti a Padova.
Le sue sono parole drammatiche, imperniate, tra l’altro, sulla critica della corruttela sempre più diffusa, degli intollerabili privilegi e dello strapotere dei partiti già stigmatizzato in un’intervista a Eugenio Scalfari (1981) dov’è descritta una situazione uguale a quella odierna: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università,la RaiTv, alcuni grandi giornali […]. Bisogna agire affinché la giusta rabbia dei cittadini verso tali degenerazioni non diventi un’avversione verso il movimento democratico dei partiti”.
Sono, quelle del comizio padovano, riflessioni cariche d’inquietudine anche per le minacce incombenti sulla stessa tenuta della democrazia italiana: condizionata, oltre che dagli opposti estremismi eversivi, dalle trame di apparati deviati dello Stato, dalla borghesia industriale e da gruppi sociali conservatori e ostili alla sinistra, da tempo decisi, tra attive complicità interne ed estere, a impedire a tutti i costi e con qualunque mezzo la partecipazione dei comunisti al governo del paese.
Dal palco di Padova, Berlinguer, realista politico e teorico del “partito di lotta e di governo”, distante da quello ‘snobismo di sinistra’ privo di conoscenza fuori di sé, scandisce ogni frase con quella sua voce particolare che è sempre stata – scrive Gurrieri – “una strana via di mezzo tra la voce di un ragazzo impaurito e quella di un uomo certo delle proprie idee”.
Ma presto, in quella sera d’incipiente estate, accade qualcosa di grave: il viso di Berlinguer si fa terreo e i suoi occhi sono gonfi di febbre. Leva e mette continuamente gli occhiali, parla con fatica, ha la gola secca e la lingua impastata. Deglutisce più volte, a brevi sorsi, l’acqua del bicchiere che ha davanti. Sta cercando di superare il malore da cui si sente pervadere. Sembra più esile, più fragile che mai mentre l’emorragia cerebrale avanza e gli imperla di sudore la fronte, facendolo vacillare. Lui si sforza di proseguire, argomenta con brevi pause: un modo per opporsi al crollo che sente prossimo.
Con tutta evidenza, il suo stato peggiora. Dapprima sconcerto e subito dopo sgomento tra la folla in ascolto, che vorrebbe incoraggiarlo e un po’ lo invoca (“Enrico, Enrico!…), un po’ lo esorta a fermarsi (“Enrico, basta!”).
Allora Berlinguer, pochi minuti prima di concludere e andare ad accasciarsi dietro il palco, non manca di congedarsi dalla sua gente con una frase come un lapidario testamento: “Vi invito a impegnarvi tutti…”.
Lo riportano in albergo e, nella sua camera, s’addormenta entrando in coma. Ricoverato in ospedale, muore tre giorni e mezzo dopo, alle ore 12:45 dell’11 giugno, per un ictus.
Non il milione riferito dalla questura, ma il doppio sono le persone che il 13 giugno 1984, aRoma, danno l’ultimo addio al segretario comunista. “Eravamo tantissimi a salutarlo” racconta Gurrieri. “Avevamo tutti l’Unità in mano, e sull’Unità c’era scritto ‘Addio’, e non piangevamo, perché c’era un orgoglio e una commozione adulta e forse anche un sentire che avevamo perso qualcuno che poteva aiutarci e accompagnarci in tutto quello che sarebbe venuto dopo. […] Era successo qualcosa, lo sentivamo tutti. Togliatti era morto da venti anni esatti, e l’Italia e il Pci erano diventati un’altra cosa. […] E la storia era andata avanti, e l’Italia anche se in mezzo a tentativi di colpi di Stato e in mezzo a tensioni continue era diventata una democrazia un po’ più robusta”.
Al punto che, per l’‘effetto-Berlinguer’, alle elezioni europee del 17 giugno dello stesso anno il Pci realizza il suo storico sorpasso sulla Democrazia Cristiana… Un vantaggio mai sfruttato dalla sinistra, sempre più disorientata davanti al craxismo, a tangentopoli, allo sciovinismo reazionario della Lega (altro che “costola della sinistra” – D’Alema dixit), al ritorno delle destre d’ogni tipo, alla quasi ventennale “puttanopoli” (cfr. Domenico Guarino, Puttanopoli, Firenze, Barbès, 2010) d’un apparato d’affari ancora duro a morire.


Stefano Lanuzza

Storico della letteratura, (Dante e gli altri, Stampa Alternativa, 2001) studioso di chiara fama, è una figura singolare di intellettuale e artista, svolge anche attività di pittore e grafico, ha pubblicato libri di poesia e un romanzo sperimentale. Le sue ricerche continuano a essere rivolte agli “esclusi”, e alle riscoperte e valorizzazioni.