Nel 1993 Alessandro Baricco vinceva il prestigioso premio Viareggio con “Oceano mare”, edito da Rizzoli. Un autore amato o odiato, entusiasmante o irritante – complice il particolarissimo stile – ma mai certamente banale né anonimo.
Perché “Oceano mare”? Perché è ormai un classico contemporaneo su cui tornare tanto più quanto complessa e inesauribile è ancora la sfida di comprenderlo appieno in tutte le molteplici sfaccettature. Il titolo stesso suggerisce un viaggio nelle profondità, ricordando, nell’intento, il leitmotiv del ferencziano “Thàlassa”. In secondo luogo, è un mirabile esempio di surrealismo in letteratura, oltre che un discorso filosofico travestito da romanzo.
La trama (che da un certo punto di vista è una non-trama) è stranota, ma ne delineiamo sinteticamente le direttive: diversi personaggi si presentano progressivamente al lettore, ognuno impegnato in una propria personale battaglia, finendo per incontrarsi e incrociare le proprie vite in un luogo sospeso a metà tra la realtà e il sogno, la locanda Almayer, in una località marina lontana da tutto. A emergere non è tuttavia il disegno generale ma i singoli tasselli del puzzle, tenuti insieme da un comune denominatore, il mare, chiave interpretativa delle allegorie.
CONSIDERAZIONI STILISTICHE: Emblematico è l’incipit, ricco di frasi nominali, ellittiche, paratattiche, dove comincia a emergere il primo personaggio – quello del pittore Plasson – insieme a un’atmosfera vagamente esistenzialista.
Appaiono presto i lunghi passi fatti solo di discorsi diretti, che si alternano a flussi di coscienza, a ripetizioni e a giochi narrativi per cui un incipit è costituito da un momento successivo, come se l’autore avesse operato un taglio e cucito a conferire circolarità all’episodio, come in un nastro di Moebius. Ci si chiede: è la fine di qualcosa che ci permette di dare un senso al suo inizio?
La focalizzazione del personaggio si sposta con fluidità in continuazione ed è subito riconoscibile dal caratteristico registro lessicale, dalle tipiche espressività che abilmente Baricco amministra. Lo spazio-tempo è arbitrario, spesso sospeso; a volte rallenta sino a fermarsi in sequenze che durano un attimo, per scendere nel profondo delle sue ragioni l’istante prima che il pensiero si traduca in azione. A volte un discorso diretto o una prosa seguono un corso delirante con cui facilmente si empatizza.
C’è una diffusa predilezione per il dettaglio, ogni sequenza è mostrata attraverso i dettagli: così, per esempio, non è la donna a camminare ma le sue scarpe; della stessa donna poi, più avanti, verrà raffigurato su tela solo il braccio. Si incontra un’ellissi marcata persino dallo spazio vuoto tra un pezzo e l’altro del periodo, come vi fosse stata un’autocensura a posteriori.
La prosa si fa spesso lirica (es. la mente viene paragonata a un periplo). A un tratto si incontra un passaggio in cui ogni periodo comincia ed è sospeso prima che finisca, separato da quelli successivi da uno slash, come quando si spaziano i versi di una poesia messi in successione orizzontale. Il risultato è un senso di ubriachezza.
Qualcuno ha paragonato la prosa di “Oceano mare” a un quadro preraffaellita, ma a noi vengono in mente i dipinti di Salvatore Fiume o i racconti di Dino Buzzati (come “Ombra del sud”).
Efficace un passaggio in cui un personaggio, coricato e in dormiveglia, cerca la forza di alzarsi dal letto e ripercorre mentalmente le sequenze da compiere, senza riuscirvi, per ripercorrerle ancora come se ogni sforzo, ogni sequenza ripercorsa – dunque ripetuta nella narrazione – potesse essere la volta buona. Un’esperienza che è capitato a tutti di vivere. Il cambiamento di stile non segna solo il passaggio da una focalizzazione su un personaggio all’altra, me si trova pure all’interno di una stessa: la scena viene esposta ora ricorrendo al flusso di coscienza ora alla veste del copione teatrale.
Nella seconda parte del romanzo, nel crudo e raccapricciante episodio della zattera, il ricapitolare ogni punto della propria situazione, da parte di un personaggio che cerca di non impazzire, di non perdere l’autocontrollo e mettere ordine nell’assurdo, fa sentire il lettore impegnato nello stesso sforzo, coinvolto nel momento di delirio e disperazione. Questa ricapitolazione diviene sempre più frammentata e sconnessa, farneticante, quanto più il personaggio si avvicina all’esasperazione, riflettendo bene lo stato di shock in cui è immerso. Più avanti la prosa si trasforma in versi che sembrano quelli di una canzone.
Nella terza parte, citiamo il canto del ritorno del pittore Plasson, che è costituito interamente dal catalogo delle sue opere (ed è da queste che si intuisce il seguito della sua storia).
Quanto al surrealismo di Baricco, ci facciamo promotori del motto “letteratura come vita” (come scriveva Carlo Bo), ma la vita è sogno, e allora non possono che essere di casa le atmosfere oniriche di “Oceano mare”, evanescenti, che culminano nella rarefazione finale della locanda che si dissolve al vento dietro le spalle di chi che si allontana, ormai proiettato verso il presente per aver finalmente dato voce alle rivendicazioni dei mostri.
CARATTERIZZAZIONE DEI PERSONAGGI: Sembra che ciascun personaggio rappresenti un’angoscia dell’uomo moderno, o un suo modo di stare al mondo. Come accadeva nel teatro antico, dove le “maschere” erano “tipi” che emergevano monoliticamente attraverso una singola qualità, i clienti della locanda Almayer mostrano una prospettiva alla volta. Insieme rappresentano la complessità dell’essere umano.
Il primo in ordine di comparizione è Plasson, che non riesce a completare una frase che abbia più di sette, otto parole e per questo, in società, ricorre a frasi brevi, sintetiche. In ciò sembra riflettere i limiti del raggio visivo dell’essere umano che non può superare l’orizzonte, sul piano sensoriale, e i limiti della ragione, del pensiero, di un essere comunque finito, che conosce i propri “cominciamenti” ma non può altrettanto di quanto è a lunga gittata. Il progetto di Plasson è dipingere il mare partendo da dove esso inizia, cioè dagli occhi, ma non riesce nell’intento finché non li trova. Non si serve di colori ma di acqua salata, dipinge il mare col mare, e ogni tela è completamente bianca. L’unica raffigurante un paesaggio completo si rivela un falso.
Se il pittore studia dove inizia il mare, lo studioso Bartleboom, invece, impegnato nella redazione di una infinita enciclopedia dei limiti, ciò per cui in fondo la natura è perfetta (“perché il sistema funzioni, deve finire”), arriva alla locanda con l’intento di tracciare il punto esatto in cui il marefinisce. Nell’ultima parte della sua storia sarà poi protagonista di una vicenda al limite tra il comico e il grottesco, in cui il lettore non potrà non ridere a crepapelle per concludere con un sospiro amaro: le cose non vanno mai nell’esatto modo in cui le immaginiamo o le programmiamo.
Uno dei personaggi più lirici (divenuto popolare anche nella cultura di massa) è quello di Elisewin, giovane principessa le cui paure le impediscono di vivere e spingono il padre a rivolgersi a un esperto per “curarla”. Spiccano passi molto evocativi in cui le emozioni sono raccontate con precisione e forza. La parola chiave in questo caso è decisamente paura, le cui risposte sono evitamento o panico. A un tratto sembra che attraverso uno stesso discorso diretto a parlare siano più voci dentro la stessa Elisewin.
Ad accompagnare la ragazzina c’è il suo precettore, padre Pluche, autore di preghiere molto particolari che poco hanno a che fare con i rituali mantra condivisi, di cui l’ultima dall’emblematico titolo Preghiera per uno che si è perso, e dunque, a dirla tutta, preghiera per me.
C’è poi Anna Deverià, l’adultera, peccatrice per aver capito troppo tardi i propri veri desideri e per aver voluto “salvarsi”. Anticipa ciò che Bartleboom scoprirà solo alla fine: “Poi non è che la vita vada come tu la immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. E non sono la stessa strada. (…) e tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza farti del male”. Ciò dipende in parte dalle aspettative, dalle “grandi storie” che ci si costruisce, finché un meccanismo si rompe e la realtà arriva come uno schiaffo.
I più ambigui personaggi sono Savigny e Adams, di cui solo alla fine si scoprirà la vera identità. In particolare, un aspetto parecchio interessante di Adams lo abbiamo trovato nella prima fase del percorso di elaborazione del lutto che lo ha portato a perdere la propria identità, sino a perdere il linguaggio stesso: il silenzio come risposta al nonsense. Il viaggio verso il ritrovamento di sé lo porta poi a perdersi definitivamente.
Come le onde del mare, le vicende di tutti i personaggi seguono un movimento circolare, che parte e ritorna al punto di partenza. Tuttavia, non si tratta di un come volevasi dimostrare.
OPERA DI PENSIERO: Come si accennava sopra, “Oceano mare” è anche un’opera di filosofia travestita da romanzo. Spicca il tema dei rapporti umani, nel precario equilibrio tra la convivenza e la sopraffazione. La singolarità di ogni vita. L’irripetibilità di ogni momento. La finitudine dell’intelletto umano. Emerge la fallimentarericerca del senso, in primis del senso della vita, prima ancora che della morte. Oltre che al nonsense, il silenzio diviene anche – stando all’equazione – risposta alla stessa esistenza, dinnanzi alla quale la ragione ammutolisce.
La frammentazione della narrazione rispecchia quella dell’esperienza, che si presenta a noi caotica, sfuggente. “Una nuvola. Zucchero. Cucchiaino. Cucchiaino che gira nella tazza. Cucchiaino che si ferma. Cucchiaino nel piattino”. I dialoghi a tratti divengono caotiche sovrapposizioni in cui non si capisce più chi dice cosa, sino a sembrare quasi che i personaggi divengano una sola entità: l’essere umano nel suo modo di essere al mondo, nella perenne ricerca di un significato che sfugge. Si intravede solo a un tratto una possibile risposta: che il significato, forse, bisogna inventarlo.
In virtù di tutte queste ragioni, che Baricco si sia fatto interprete dell’esistenzialismo sartriano?
Un tema emergente ora direttamente ora indirettamente è quello del rapporto tra uomo e Dio e della concezioni di quest’ultimo. Nel momento di maggior acme del racconto, quando denominatore è la disperazione dinnanzi al terribile sublime della natura, Savigny si rivolge all’Oceano Mare con “osanna”, “gloria” e “santo”, “inizio e fine, orizzonte e sorgente”, “signore del tempo e delle notti, l’unico e il solo”, “il segreto e la meta e la verità e la condanna e la salvezza e la strada sola per l’eternità”, “Amen”. Sembra quasi che nel mare si manifesti Dio o che Dio sia esso stesso, richiamando le teorie su come nascono le divinità nelle culture umane. E non importa se esista davvero o meno, il fatto stesso che l’uomo si ponga il problema e ci pensi, il fatto stesso che si comporti come se esistesse, lo fa esistere (come il misterioso inquilino della settima stanza). Anche questo appartiene al percorso di ricerca di senso, con la consapevolezza dei limiti connaturati alla ragione. “E com’è? … il mare, com’è?”, “Bellissimo”, “E poi?”, “A un certo punto, finisce”.
Ma il mare può rappresentare anche qualcos’altro. Che sia metafora della vita umana? Che sia raffigurazione delle profondità subliminali dell’animo? È spesso annoverato come archetipo, simbolo del primordiale, di quanto di più antico e insito ci sia nell’uomo, in virtù delle componenti biologiche e del liquido amniotico dal quale ciascuno proviene. Nella lingua francese è impercettibile la differenza di pronuncia tra le parole “mare” e “madre” (torna il “Thàlassa”). L’esperienza del mare è dunque un’esperienza di ricongiungimento(con qualcosa che ci è appartenuto e continua sotto forme diversead appartenerci). Tant’è che più avanti si parlerà di “ventre del mare”. Ed è in questo contesto che si può compiere un cammino verso la consapevolezza. “È uno specchio questo mare”.
Il mare è poi metafora antropologica, nel rapporto col quale si può scorgere il rapporto col mondo e con se stessi. “Ci sono tre tipi di uomini: quelli che vivono davanti al mare, quelli che si spingono dentro il mare, e quelli che dal mare riescono a tornare, vivi”.
Ma per comprendere ancora meglio questa valenza, tornano in aiuto le tele che si proponevano di ritrarlo. Quando Plasson dipinge insolitamente un quadro didascalico, dove emergono forme chiare e distinte, si giustifica con Bartleboom additando la stanchezza. La stanchezza lo portava al realismo, la lucidità mentale lo aiutava ad astrarre per giungere all’essenza delle cose, verso una loro progressiva dematerializzazione. Sino al nulla. Se si comincia con il guardare dove non si vede per conoscere la verità, si finisce nel nichilismo. Quest’ultimoè colto nella sua accezione positiva se il quadro successivo è la rappresentazione della propria mano che regge il pennello. (Ancora esistenzialismo). La lapide di Plasson sarà una semplice pietra bianca, nuda. Sul pelo dell’acqua, il sasso, per quanto tondo, comincerà a saltare, sempre più lontano, verso il largo, senza mai più fermarsi né affondare.
Se, da un lato, il pittore cerca di dipinge la vita, giungendo alla sua inafferrabilità, alla sua frammentaria epifania, dall’altro lato l’unica risposta è racchiusa nelle conclusive parole dell’ultimo personaggio, il misterioso inquilino della settima stanza, che esce finalmente allo scoperto dopo aver ultimato il grande sforzo di portare a termine i percorsi dei protagonisti. Nella settima stanza sembra proprio che ci stesse lo stesso Autore, oppure si potrebbe anche dire ogni Narratore, le cui conclusioni sono: “Se il mare non lo si può più benedire, forse lo si può ancora dire”, “perché davanti a lui, noi senza croci, senza vecchi, senza magia, dobbiamo pur averla un’arma, qualcosa, per non morire in silenzio”. È il dramma dell’uomo post-moderno che si trasforma in risorsa?
“E ci vogliono tutti quei fogli per dirlo [il mare]?”
“Be’, no. Se uno fosse davvero capace, gli basterebbero poche parole”.
È questa la sfida della letteratura.
Giulia Sottile