Originaria di Taormina, Maria Bucolo esordisce nella narrativa contemporanea con Confini instabili (Prova d’Autore 2017), breve ma intensa e significativa silloge di racconti a testimonianza della solarità dei suoi natali tanto quanto della dinamicità della sua vita. Lo dimostrano l’atmosfera che permea ogni episodio – caratterizzata dalla freschezza dei colori e dei paesaggi, più o meno dichiaratamente della Sicilia marina, e dalla levità d’animo a fronte di contenuti consistenti – e i temi che vedono il viaggio, quando non è diretto bersaglio dell’attenzione, trasversale a ogni passaggio, legando tra loro, nella sua veste metaforizzata, tutti i racconti.
Pur nella consapevolezza dei limiti delle nostre capacità gnoseologiche e del fatto che il ricordo non ripesca il passato nella sua originaria manifestazione, Maria Bucolo compie un’indagine cui dà nome “Confini instabili”, come quelli delle cose, della memoria, delle persone. Tra postmodernismo e ricerca proustiana, l’Autrice stessa ci suggerisce un parallelismo col calviniano Palomar, che, nella ricerca del senso, circoscrive il campo esperienziale assistendo a una sua moltiplicazione infinita verso altre prospettive.
L’indagine si manifesta nell’operazione svelatamente categorizzante della carrellata di oggetti, quasi un inventario del conosciuto – suggestiva la suddivisione degli oggetti in “merci, “doni” e “beni inalienabili”, questi ultimi imperfetti e irripetibili, «meravigliosamente inutili (…) testimoni muti e non corruttibili del tempo che scorre (…) de-socializzati, svincolati dal rapporto con ciò che li circonda (…) eternamente validi» – per continuare, l’inventario, con il «documentario umano» delle tipologie di passeggeri che possiamo incontrare su un treno. Questa dimensione apre la grande parentesi della raffigurazione postmoderna delle più semplici e spontanee manifestazioni d’umanità, nel genuino della quotidianità di una «tovaglia scossa tra le foglie di nespolo e le piante di peperoncino», delle «secchiate d’acqua sul pavimento unto d’olio di frittura», i «resti dei pesci alla piastra, precipitati in sacchetti d’immondizia chiusi alla buona», «la fiamma di una candela alla citronella sistemata per terra». Ma lo scavo nell’umano emerge anche nella bella immagine del “pazzo del paese” che tutti respingiamo perché temiamo quella parte di noi che s’identifica in lui, nei suoi fallimenti, dove il “pazzo” è la condensazione di tutto ciò che è diverso, dunque capro espiatorio, e che potrebbe essere rappresentato anche da altri esempi. E assistiamo al contrasto tra l’ipocrita normalità e la difettosa autenticità, riverbero della scissione tra bene e male quale antidoto contro l’integrazione del negativo che ci appartiene. Negativo che qui non riceve alcuna condanna ma è valorizzato quale dignitosa componente della nostra interezza, della nostra mortalità, affinché sia pensabile ed esprimibile la liberatoria reazione del “lanciatore di pinguini” contro l’indifferenza, in primis quella di se stesso nel fingere ogni giorno che tutto vada bene. È forse, questo, uno dei racconti più “lievi”, stando alla particolare levità teorizzata da Calvino cui si è accennato in incipit.
La realtà nella stessa franchezza si esprime poi nella quasi-comicità di atteggiamenti in cui tutti possiamo riconoscerci, specialmente se siciliani, al momento di scendere dal treno, nella fretta di un timore indefinito: «Chi non era pratico del viaggio riceveva quel messaggio quasi come una sentenza senza possibilità di appello: o scendete ora, o non scenderete mai più. E correva, l’ignaro, ansimando, alla ricerca di quel numero di scale mal memorizzato oppure delegato al marito, al parente o a nessuno e, puntualmente, dimenticato». E apre, questa sosta sulla stazione, il capitolo delle differenze culturali che si riflettono in usanze, cerimoniali e sfumature comportamentali attorno all’evento partenza/arrivo, bagagli e “camicie a quadrettoni” nel passaggio dal sud al nord Italia e viceversa.
Molto spazio è dedicato al viaggio, soprattutto se nòstos, in cui il protagonista di turno è come un Ulisse che per tornare a casa deve attraversare rotte e tappe che hanno a che fare, però, con sé e col proprio passato, che fa coppia col futuro in un processo di significazione reciproca. Il mezzo predominante è il treno, che ora attraversa campi di papaveri, ora si intreccia al ricordo di un incontro rimasto impresso, ora alla ricerca, allegorizzata, di un proprio posto al mondo verso una traiettoria sempre in via di ridefinizione e mai davvero nitida. Il viaggio è il leitmotiv dal primo all’ultimo rigo, persino quando è viaggio mancato, quando ha a che vedere con l’incertezza, l’opacità della vision, le convinzioni errate, l’inconsapevolezza, la relatività percettiva degli obiettivi e della loro importanza, la fiducia nell’attesa, la permeabilità del passato nel presente, come il vecchio numero 8 nell’attuale binario 3; quando è omaggio alla lentezza, che ci permette di cogliere i particolari che altrove e altrimenti ci sfuggono.
Il viaggio, però, è anche e soprattutto quello della memoria che coglie gli spostamenti geografici come pretesto per spostamenti d’altro genere, innescati come con la madeleine di Proust nel tè. L’espediente dell’improvvisa irruzione del passato cambia, anche se in uno dei racconti dell’Autrice passa per la stessa via sensoriale protagonista nell’episodio della “Recherche”, quella olfattiva, la più antica nell’essere umano, fondamentale nel recupero dei ricordi, che insieme al gusto mette a dura prova le capacità significanti del linguaggio verbale, bypassandolo nel tragitto verso i nostri magazzini interiori. È per questo che solitamente gli odori, con immediatezza senza pari, ci riportano all’infanzia di ognuno di noi, oltre che all’infanzia dell’homo sapiens, ai primordi e al primordiale della nostra storia. Ma a ricucire i pezzi della vita sono soprattutto gli oggetti, dalle scatole riciclate di paste di mandorla ai manufatti fai-da-te della mamma, al decoupage e al riciclo come antidoti contro il conformismo e l’appiattimento umano del non-pensiero; dalle «spagnolette, gli aghi infilati in ogni lembo di tovaglia, gli scampoli sfilacciati dentro i cassetti della Singer, e quelle forbici dalle lame seghettate che le piacevano tanto per ritagliarci la carta» a tutti gli altri assaggi di dimensione domestica, dal sapore infantile, autobiografico, genuino, anche e soprattutto lì dove accostato a una contemporaneità che freneticamente corre e scorre. Così anche i tradizionali mezzi di trasporto, primo fra tutti il treno, sono inno a una diversa concezione del tempo e dei tempi, a fronte dell’aereo e di internet. Non è malinconismo – passatemi il neologismo – ma testimonianza di una continuità storica e umana di una società che non staziona mai, ma cambia, dinamica, a volte con la colpa di dimenticare se stessa, non meno grave colpa del restare sempre quella. Assistiamo piuttosto a un faccia a faccia tra presente e passato, l’uno di fronte all’altro come a uno specchio matto; e quando affiorano i ricordi, per timore che si smarriscano, si cerca di afferrarli, legarli a sé, legarseli al polso come fa un bambino col suo palloncino.
Ma il viaggio è anche quello dell’introspezione. E Maria Bucolo ci fa giustamente notare che raggiungere la Sicilia, sua terra d’origine, Sud d’Italia e Sud del mondo (come altrove è stata definita), implica uno “scendere” non solo geografico ma anche il «precipitare negli strati più profondi dell’animo umano, quello dell’infanzia e quello dell’umanità in genere. (…) Ed è incredibile come un movimento fisico possa corrispondere in maniera così precisa ad un ricordare e al riflettere sull’Uomo». Lo strumento d’indagine adottato, nella scelta dell’Autrice di scrivere questo libro d’esordio e nelle parole di uno dei suoi personaggi – quasi un alter ego – è la letteratura, filtro per leggere il mondo, decodificarlo nelle sue «epifanie», per «sopportare il peso di tutte le vite che non aveva ancora vissuto perché la vita pratica glielo impediva». Si tratta di una personale e continua ricerca del senso della vita, ricerca che ognuno di noi compie a proprio modo giorno dopo giorno, andando a cercarlo in luoghi sempre diversi, a seconda del nostro quadro di riferimento in termini di formazione, educazione, immaginario a cui aderiamo e di cui prendiamo parte. Come Palomar. Sino a raggiungere esiti umoristici che conferiscono ulteriore levità alla narrazione e al vissuto del lettore – anche perché «solo con l’umorismo e con l’assurdo si riesce a mantenere la giusta distanza dall’orrore» – specialmente nel conclusivo racconto, in cui il protagonista si avvale del diritto di voto e del suffragio universale, per istituire un nuovo sistema convenzionale in cui fosse possibile dire «Io voto contro la morte». E d’altronde scrivere è un po’ questo, votare contro la morte.