1.
Avviò il motore e si diresse verso il centro. Non ci voleva molto. Breve la distanza dal quartiere di periferia in cui abitava. Stefano, però, doveva fare i conti con il traffico che su quella strada era intenso in entrambi i sensi di marcia. A ogni accelerazione l’auto avanzava di pochi metri per subito fermarsi e poi ripartire procedendo a strattoni. Lui non imprecava, cercava di temperare l’ansia della guida con un sovrappiù di concentrazione, soprattutto avvertendo di avere, da qualche tempo, i riflessi un po’ allentati. Il traffico non dava tregua, non si arrestava durante tutto il giorno. Nelle ore di punta diventava frenetico, addirittura caotico, tanto da accrescere il rischio d’incidenti. Solo durante le ore notturne il flusso delle auto diminuiva consentendo di procedere senza lunghe code e insopportabili rallentamenti. Ma, neanche a dirlo, di notte, in centro, cosa ci sarebbe andato a fare lui, soprattutto abitando in una città che, superata l’ora di chiusura dei centri commerciali, dei negozi e dei vari uffici, sembrava cessare di “vivere”. La vita certo continuava altrove, lontano dalle vie e dalle piazze, quando la gente si rintanava in casa o si rifugiava al chiuso nei vari luoghi di ritrovo, di spettacolo o divertimento. Lui, però, di sera non aveva nessuna voglia di uscire. Da un po’ di tempo, forse troppo, non gli andava di cenare al ristorante, di godersi uno spettacolo cinematografico o teatrale, men che meno d’immergersi in un’affollata e assordante discoteca. Il pensiero di affrontare tutto ciò che comportava movimento, rapporto con cose e persone, in una parola “vita sociale” nel bene o nel male, più che infastidirlo lo scoraggiava.
Guidava, anche questa volta, al ritmo lento imposto dal traffico dell’ora. Ma all’ansia della guida si aggiungeva, come sempre, la preoccupazione del parcheggio. La città non offriva un numero sufficiente di posteggi e, durante il tragitto, Stefano si proiettava con il pensiero al momento in cui, giunto faticosamente a destinazione, si sarebbe trovato davanti alle innumerevoli file di macchine già piazzate in tutti gli spazi delle aree di sosta. E a quel punto sarebbe cominciata per lui la ricerca affannosa di uno spazio libero. Avrebbe trovato parcheggio in città? Due, al solito, sarebbero state le scelte: aspettare pazientemente che si liberasse qualche posto oppure rimettersi in marcia in cerca di una nuova area.
Arrivato finalmente in centro, si mise alla ricerca di un posto libero. Gli pareva, come aveva ironizzato amaramente anche in precedenti trasferte, che si fosse dato convegno il popolo degli automobilisti di tutta la provincia. Gira e rigira, niente da fare. Nessun posteggio libero in nessuna delle aree disponibili che andava visitando con progressiva impazienza. Spesso, appena abbandonata un’area, si accorgeva dallo specchietto retrovisore che alle sue spalle si era liberato un posto, subito occupato, come per beffa, da un automobilista più fortunato o più svelto. Al disappunto subentrava un’irritazione mista a irrequietezza. Il nervosismo saliva d’intensità. Perciò, dopo tanto girovagare a vuoto, si sentì a tal punto prostrato e avvilito che desistette da qualsiasi ulteriore ricerca. La soluzione più ragionevole, con gran disagio fisico e mentale, gli parve una sola: rientrare a casa e parcheggiare nel posto macchina condominiale. Non era la prima e forse non sarebbe stata l’ultima volta.
2.
Quello, per Stefano, era un periodo alquanto strano. Non stava male, ma nemmeno bene. Avvertiva un forte senso d’inutilità cui si accompagnava una costante svogliatezza. C’era qualcosa che lo rendeva abulico, privo di forze e volontà. Senza dire della memoria. Fino a un mese addietro Stefano era brillante, registrava tutto, vigilava su ogni minuzia. Adesso dimenticava o smarriva sempre qualcosa. Un attimo prima aveva le chiavi di casa o dell’automobile in mano e un attimo dopo non ricordava dove le avesse messe. Non si spiegava come potesse accadere e si metteva a cercarle imprecando, in preda a un crescente nervosismo. Si accorgeva con grave ritardo di non aver pagato qualche bolletta, trascurava gli impegni presi con i colleghi di lavoro, spesso rinunciava al cibo non essendosi preoccupato di fare la spesa; d’altra parte non sentiva come prima il desiderio di mangiare o quanto meno di rifocillarsi sia pure frugalmente. Anche l’appetito sessuale gli si era indebolito liberandolo dalle abituali fantasie erotiche e dai rapporti con l’amica alla quale era legato in quel periodo. Avvertiva un certo dimagramento corporeo: i vestiti gli andavano più larghi, l’orologio gli ballava intorno al polso. Soffriva d’insonnia e quando, di solito poco prima dell’alba, gli riusciva di dormire, al risveglio si sentiva oppresso da un’ansia di cui non capiva il motivo. In effetti, un sogno ricorrente lo assillava. Un sogno che lui stesso non sapeva se vivere come un incubo o un conforto.
Sognava di fumare.
Tutto accadeva come in un film dai colori sfumati, evanescenti. La location: il Camposanto monumentale di Pisa (visitato anni prima, durante un breve soggiorno in Toscana, e poi del tutto dimenticato). Il protagonista: lui stesso; unico personaggio di una sequenza in cui procedeva a passo lento lungo i sarcofaghi e le cappelle funebri fumando voluttuosamente non una ma, una dopo l’altra, un numero infinito di sigarette, le cui volute di fumo s’ingigantivano fino a diventare enormi nuvole che lo avvolgevano interamente e lo nascondevano alla sua stessa vista.
Al risveglio non sapeva se ridere o piangere. Il piacere del fumo, appagato nel sogno, ricompensava inconsciamente la decisione presa, da un mese ormai, di non accendere più una sigaretta. E sì che lui era, come suol dirsi, un fumatore accanito. Ma lo era ancora? – avrebbe potuto chiedersi. Aveva fumato per anni (una ventina almeno) provando di tutto: sigarette nazionali ed estere, forti o leggere, con o senza filtro; sigari e sigaretti d’ogni marca e tipo; tabacchi semplici o aromatizzati. In certi periodi aveva adottato la pipa, in altri i sigari, ma da ultimo era tornato alle sigarette. Il suo primo amore. In effetti, la sua prima sigaretta non l’aveva mai scordata. L’aveva fumata sui sedici anni insieme alla sua prima ragazza, con la leggera ebbrezza del fumo e gli aspri baci al sapore di nicotina, come per una sfida, quasi un addio all’adolescenza e l’ingresso nel mondo emancipato degli adulti, sia per lui che per lei. Da allora non aveva più smesso, aumentando la quantità durante gli studi universitari, quando, tra una boccata di fumo e un sorso di caffè, preparava le materie d’esame. Era arrivato a fumarne due pacchetti da venti al dì. Come si trattasse di una posologia farmacologica. E se andava a dormire più tardi del solito, inaugurava anche il terzo pacchetto. Quaranta e più sigarette. Quaranta e più momenti di spensierata goduria, tra una boccata e l’altra, abbandonandosi alle lievi, ondeggianti, odorose nuvolette soffiate dalle narici con quel pizzicore che lo inebriava.
Spensierata, sì, quella goduria; ma anche sconsiderata. A pensarci bene con il senno di poi, ne aveva pagato le conseguenze registrando ben tre improvvise perdite di coscienza in tre situazioni diverse, in tre periodi diversi e in tre città diverse. L’ultimo episodio, nella città in cui viveva. Erano stati momenti di spavento per chi era prontamente intervenuto e d’imbarazzo per lui che, al risveglio, si rendeva conto dello scompiglio provocato.
In ogni modo, occorreva conoscere la causa di quei mancamenti.
I primi due episodi li aveva attribuiti a stanchezza o a cattiva digestione e non se ne era gran che curato, ma dopo il terzo aveva deciso di consultare il suo medico di fiducia.
3.
Il dottore era un uomo alto e robusto, completamente calvo. Il viso, incorniciato da una folta barba scura che contrastava, o compensava, la mancanza di capelli sul cranio lucidissimo, mostrava di essere ancora fresco, giovanile. Un pince-nez – piccolo vezzo che lo faceva apparire come un personaggio d’altri tempi – gli serrava l’esile setto nasale insidiato da un paio di baffi cespugliosi. In studio indossava abitualmente un camice bianco sotto il quale s’indovinavano abiti scuri, severi.
Si conoscevano da un paio di anni, ossia da quando Stefano si era trasferito in quel quartiere e l’azienda sanitaria locale glielo aveva assegnato come medico di base. L’ambulatorio medico distava poco dalla sua abitazione. Se accusava qualche malanno (influenze stagionali, disturbi fisici in genere), Stefano lo raggiungeva agevolmente a piedi, senza dover usare l’auto. Nei mesi precedenti vi si era recato di rado e, ogni volta, aveva potuto apprezzare la disponibilità e la professionalità del medico.
Il dottore lo accoglieva sempre con volto sorridente, seduto dietro la scrivania, in parte nascosto dallo schermo di un computer già in funzione. Lo ascoltava attentamente fissandolo in volto con evidente senso di partecipazione. Seguiva una sorta di protocollo e, ogni volta come fosse la prima, dopo le battute iniziali gli poneva una serie di domande alle quali Stefano rispondeva con rinnovata puntualità. Il dottore parlava cantilenando, quasi recitasse una filastrocca. Aspettava le risposte e prontamene le registrava sul computer oppure, come Stefano supponeva, le confrontava con quelle delle visite precedenti.
Anche quella volta lo aveva ricevuto con la consueta cordialità.
«Ebbene, come va?… Mi dica, mi dica…»
«Sono un po’ preoccupato» aveva esordito Stefano.
«Qualche disturbo particolare?»
«Credo di no. Solo che ieri sera, in casa di amici, dopo aver cenato, ho avvertito all’improvviso un senso di nausea e un aumento della salivazione; sudavo freddo, mi sono sentito mancare e ho perso conoscenza.»
«È caduto a terra? Si è fatto male?»
«No. Ho fatto in tempo ad accasciarmi su un divano.»
«È stato soccorso?»
«Sono rinvenuto dopo qualche istante. Gli amici volevano portarmi al pronto soccorso, ma io li ho tranquillizzati dicendo che già stavo bene e che comunque oggi mi sarei fatto visitare. Perciò eccomi qui.»
«Episodi del genere le erano accaduti altre volte?»
«Altre due volte.»
«Ricorda in quali occasioni?»
«Dopo aver pranzato o cenato. Ecco…» stava per raccontare Stefano.
«Aspetti un momento» lo aveva interrotto qui il dottore, «procediamo con ordine.»
L’ordine delle domande (ad eccezione dell’anamnesi famigliare e personale registrata al primissimo incontro) era il solito.
Il solito questionario sulle abitudini di vita.
Il dottore lo aveva fatto scorrere rapidamente notando che, rispetto all’ultima visita, non vi erano cambiamenti significativi. Giunto alle domande finali, però, vi si era soffermato con particolare riguardo.
«Fa uso di bevande alcoliche?»
«Un bicchiere di vino a pasto. Talvolta della birra. Fuori dai pasti, solo qualche aperitivo.»
«Stupefacenti?»
«Mai fatto uso.»
«Sostanze eccitanti?»
«Caffè. Non più di tre tazzine al giorno. Raramente del tè.»
«Fuma?»
«Sì.»
«Quanto?»
«Quaranta sigarette al giorno o poco più.»
Il dottore, il cui volto era rimasto impassibile fino a quel momento, dopo quest’ultima risposta si era lasciato sfuggire una strana smorfia. Poi aveva chiesto a Stefano di distendersi sul lettino medico. Gli aveva misurato la pressione sanguigna, palpato l’addome, auscultato il cuore e in particolare i bronchi e i polmoni. Al termine della visita, seguita da Stefano con crescente apprensione, il dottore aveva espresso il suo parere.
«Penso si sia trattato di una sincope dovuta a intossicazione acuta da nicotina.»
Dopo un breve pausa, aveva proseguito: «L’unica terapia che posso prescriverle è questa: smettere di fumare. Anche i bronchi e i polmoni rivelano una qual certa sofferenza.»
Stefano lo aveva guardato perplesso: «Smettere del tutto?»
«Guardi,» aveva ripreso il dottore «possono bastare sessanta milligrammi di nicotina per uccidere un adulto. Pensi che ogni sigaretta ne contiene circa dieci milligrammi. Lei, come mi ha detto, ne fuma anche più di quaranta al giorno; faccia la somma. Certo, l’esito letale viene in qualche modo scongiurato dal grado di assuefazione personale, dalla quantità di nicotina eliminata durante la combustione del tabacco e dall’intensità con cui si inspira il fumo. Ma ci si deve convincere che il fumo, in ogni modo, è dannoso. Di fumo si può morire.»
Dopo questo discorso il dottore era rimasto alcun tempo in silenzio, come sovrappensiero, poi aveva detto quasi sussurrando: «Naturalmente, questo non è un discorso che vale solo per lei…»
«Non è sufficiente ridurre il numero delle sigarette?» aveva chiesto Stefano.
«Sarebbe già qualcosa! Ma il fumo, poco o molto, fa male, molto male.»
«Ci sono dei farmaci in grado di aiutare a smettere?»
«Palliativi. L’unico farmaco efficace è la forza di volontà. Conosce il motto dell’Alfieri? Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli!»
4.
Uscito dall’ambulatorio, Stefano aveva alzato lo sguardo al cielo e respirato profondamente. Con una mano si era accarezzato il torace come a rallegrarsi con se stesso: – sono ancora vivo! –, con l’altra, come a sfidare se stesso, aveva preso dalla tasca della giacca il pacchetto di sigarette, ne aveva sfilato una, l’aveva infilata fra le labbra, aveva fatto scattare l’accendino, l’aveva accesa aspirando una lunga boccata di fumo. Ma quella beatitudine era durata poco: Stefano si era sentito di colpo come in bilico fra la vita e la morte. E quella sigaretta gli era sembrata l’ultimo regalo fatto a un condannato alla decapitazione.
Un brivido gli era corso lungo la schiena.
Desiderava che alla sua morte qualcuno potesse dire: “Ha lasciato la vita dopo una lunga esistenza felice”. Aveva un mucchio di buoni propositi da mettere in pratica, ma da quel momento il pensiero della fine iniziò a seguirlo come un cagnolino affezionato. L’ombra che ogni sera si allungava ai suoi piedi, gli ricordava che le giornate non dovevano essere sprecate. Il tempo non passa, si ripeteva, arriva. Perciò occorreva spingere sempre lo sguardo in avanti e attendere l’alba di ogni giorno come una nuova promessa di felicità. Ciò che, però, Stefano desiderava come una promessa di felicità, finiva per diventare – ecco l’ombra ai suoi piedi – una minaccia di morte. Tentava di allontanarne il pensiero, ma quello scorreva come un rivo sotterraneo e, quando meno se lo aspettava, affiorava in superficie procurandogli un forte senso di repulsione.
Dopo quella sigaretta ne aveva acceso molte altre. Ogni volta si diceva: questa è l’ultima. Per qualche ora teneva fede all’impegno; poi, dimentico della promessa fatta a se stesso, tirava fuori dal pacchetto una nuova sigaretta, la accendeva e cominciava a fumarla beato. Poco dopo, però, punto dal dente del rimorso, la spegneva e la sbriciolava fra le dita.
Quel tira e molla con la volontà non riusciva a trovare una soluzione definitiva. Passavano i mesi ma non il desiderio del fumo, che diventava sempre più pressante, addolciva il dente del rimorso e cancellava ogni pensiero nefasto.
Tuttavia era necessario arrivare a una conclusione. Stefano se ne convinceva nei momenti in cui più avvertiva una certa difficoltà di respiro nel salire le scale, un persistente fastidio alla gola nei mesi freddi, un gusto amarognolo in bocca. Ma rimandava di continuo la decisione estrema – buttare nella spazzatura l’ultimo pacchetto, non comprare più sigarette – come aspettando un momento propizio che, però, non sembrava arrivare mai.
Invece il momento propizio si presentò a giugno, quando l’incipiente estate, meteorologicamente subdola, gli regalò un’influenza tanto fastidiosa quanto lunga da risolvere. Febbre alta, dolori articolari, mal di testa, mal di gola, tosse. Insomma, il trionfo dell’adenovirus, uno dei virus responsabili dell’affezione stagionale. Non gli occorse andare dal medico. Sapeva come curarsi. Riposo assoluto e assunzione di qualche farmaco già presente in casa.
Il malessere generale gli aveva tolto il desiderio di fumare. Il pensiero stesso di aspirare il fumo e di rilasciarlo attraverso le narici gli procurava nausea.
Stefano pensò di sfruttare quella circostanza. Era perfetta per mettersi alla prova e la decisione a lui per primo parve eroica.
Recuperò il pacchetto di sigarette ancora quasi intatto e lo posò in bella vista sul ripiano del comodino dicendosi: se non sarò capace di resistere, dovrò solo allungare la mano.
Intendeva rassicurare se stesso (il fumatore in preda al vizio) dall’“altro” (il vizioso da redimere), come per un congedo temporaneo. Come a dire: vado ma poi torno. Sperando, naturalmente, di non tornare.
Bastò una settimana per rimettersi in forze e, naturalmente, la voglia di accendere una sigaretta si rifece viva, prepotente.
Nostalgia del fumo? Impulso incontenibile?
La battaglia era cominciata. Doveva farsi forza. Occorreva resistere! Resistere! Resistere!
5.
Dopo aver parcheggiato l’auto nell’area condominiale, al ritorno dal centro città, Stefano si sentì avvilito. Così non poteva durare. Più i giorni passavano e più lui si sentiva disorientato, confuso, spesso triste e scoraggiato. Occorreva capire che diavolo gli stesse accadendo. L’indomani decise di recarsi all’ambulatorio medico.
Il dottore lo accolse con la consueta affabilità.
«Qualcosa non va?»
«Qualcosa che non riesco a spiegarmi.»
«Sentiamo un po’.»
«Avverto un certo malessere generale.»
«Mal di testa?»
«No. Piuttosto, mancanza di energia. Lavoro senza entusiasmo, senza interesse, per forza d’inerzia.»
«Dolori particolari?»
«Saltuariamente agli arti e alla schiena.»
«Mal di ventre?
«No.»
«Senso di nausea?»
«Talvolta.»
«Vomito?»
«No.»
«Senso di oppressione in petto?»
«Sì, costantemente.»
«La minzione è normale?»
«Sì.»
«Va regolarmente di corpo?»
«Non proprio. Soffro spesso di stitichezza.»
«Osserva una dieta particolare?»
«Negli ultimi tempi sono un po’ disappetente, mangio poco e male. Non provo gusto, non sento il sapore e l’odore del cibo.»
«Dorme bene?»
«Ho spesso sonni agitati, mi sveglio frequentemente e fatico a riprendere sonno.»
«Fa uso di bevande alcoliche?»
«Un sorso di vino ai pasti. Raramente alcolici forti, e sempre fuori dai pasti.»
«Fa uso di farmaci?»
«Attualmente no.»
«Integratori alimentari?»
«No.»
«Stupefacenti?»
«Assolutamente no.»
«Sostanze eccitanti?»
«Caffè, spesso durante la giornata; talvolta, tè.»
Il dottore tacque per un momento. Lasciata la postazione alla scrivania, gli fece i soliti controlli: pressione sanguigna, cuore, bronchi, polmoni, addome. Nel far ciò, la sua faccia non manifestava alcuna perplessità, la bocca nessuna smorfia di disappunto.
«Come va?» chiese Stefano al termine.
«Bene, bene» lo tranquillizzò il dottore. «Non riscontro nulla di preoccupante. È tutto nella norma.» Poi proseguì: «In ogni modo, bisogna indagare a fondo sulle cause del suo malessere generale. Perciò le farei ancora qualche domanda di carattere, diciamo così, intimo».
«L’ascolto» disse Stefano.
«Appetito sessuale?»
«Nell’ultimo periodo, zero!»
«Vale a dire?»
«Da un mese, pressappoco, niente sesso.»
«Ansia?»
«Ansia ma anche scoramento. Ho difficoltà a prendere decisioni.»
«Sensazione di vuoto?»
«Di vuoto e inutilità. Lascio scorrere il tempo come se io ne fossi fuori.»
«Memoria?»
«Dimentico facilmente, spesso mi distraggo, faccio fatica a concentrarmi. Perciò divento irrequieto, mi irrito facilmente prima di tutto con me stesso e poi con gli altri…»
Dopo quest’ultima risposta il dottore smise di fargli altre domande. Rimase in silenzio fissando un punto indefinito dello studio. La riflessione fu breve, quindi diresse lo sguardo su Stefano e con la consueta pacatezza formulò la sua diagnosi.
«A parer mio, si tratta semplicemente di depressione. È un tipo di prostrazione fisica e psichica chiamata “depressione agitata”. I sintomi classici ci sono quasi tutti.»
«È preoccupante?»
«La depressione non può essere presa sottogamba. Può portare a forme di agitazione incontrollate, capaci di danneggiare gli altri ma anche se stessi. Pensi che può spingere perfino al suicidio.»
«Che mi consiglia?»
«Direi un paio di settimane di riposo. Non si rechi al lavoro, ma non si chiuda in casa. Se può, si goda una bella vacanza. Cambi aria, si rinfranchi. Le farò la certificazione medica per il datore di lavoro e le prescriverò dei farmaci antidepressivi. Si attenga scrupolosamente alla posologia.»
«Farò così.»
«Vorrei farle un’ultima domanda.»
«Dica.»
«C’è un episodio, un fatto che lei ricordi, prima del quale lei non accusava i disturbi di cui abbiamo discusso oggi?»
«No che io ricordi.».
«Fuma ancora?»
«Non più.»
Il dottore sobbalzò sulla sedia.
«Non piùùù?»
Stefano sorrise.
«Me lo ha consigliato lei, dottore, ricorda?»
Il dottore si ricompose fra sorpreso e incredulo.
«E come diavolo ha fatto?» chiese.
Stefano lo mise a parte della strategia adottata, mentre l’altro lo guardava incuriosito e ammirato.
«Adesso si spiega tutto!» esclamò infine il dottore. «È la tipica sintomatologia da astinenza. Vedrà che presto lei recupererà in forma potenziata tutte le sue capacità fisiche, mentali e psichiche. Resista, resista ancora alla tentazione del fumo! Non si lasci prendere dalla nostalgia!».
Stefano lo ringraziò rinfrancato e, alzatosi in piedi, volle accomiatarsi con una calorosa stretta di mano, ma nel far ciò, qualcosa d’inaspettato gli fece strabuzzare gli occhi. Qualcosa che giaceva sulla scrivania, seminascosto dal computer. Rimase strabiliato, interdetto e nello stesso tempo divertito.
Era un pacchetto di sigarette.
Nazionali esportazione. Sigarette forti, senza filtro.