Affollata. Il sole acceca.
Granelli di sabbia tra le dita dei piedi, leggero l’orlo si frastaglia prima di ogni passo (mi cammini a fianco). Tornata da due giorni e orlata di pensieri stravaganti.
L’acqua risplende azzurrina. Le nostre ombre si confondono e intersecano uno strano animale tentacolare. Grumi di moscerini girano allegramente senza geometrie d’aria. Qua e là un legno fradicio soccombe al suo deterioramento.
Potrei rispondere ma lascio perdere, girandomi a sperare che nessuno ci segua.
Rientrando nella lontananza da cui mi avvicino.
Controluce il tuo volto mi appartiene. Esposto, sagomato.
Parli al telefono scalciando l’acqua. Come a sfilacciare, sottotono, un orlo di pensieri stravaganti, tirarli fuori filo, per filo, e rimandare a domani.
Quando passi da un punto all’altro smetto di vederti. Un momento d’ombra.
Sostieni di non avere remore né confini peninsulari. Di essere tornato qui, incosciente, come me come C., nella prepotenza sensuale dell’arsura. Una ragione occulta per isolare il presente, sedare il dondolio acquatico del tempo.
Mi chiedo se hai ragione. Se ha senso cercare una forma.
L’acqua viene e va, l’animale tentacolare placa la sua danza nel lento ritrarsi della luce. La stessa che l’azienda di tuo padre risucchia in uno specchio. Monocristallino.
Un’ossessione: gli occhiali a specchio mi quadruplicano. Due volte a vedere, due a essere vista (ma le bambole non capiscono gli sguardi – peraltro graduati e così simili alle mie mancanze che potremmo ipotizzare uno scambio. Di lenti, di bambole.
Accetti fingendoti un vampiro che può lasciarsi incenerire.
Come se già la tua voce avesse dirottato le ombre del suo percorrermi.)