Al momento stai visualizzando Sciùmmula

– I –

Su un acrocoro che prima veniva chiamato Corconiana, si adagiava Canicattì, già culla dei Normanni e degli Arabi. Nel millenovecentoquarantasei vi abitava una bambina che chiamavano Sciummula perché appena poggiata dal lettino a terra non faceva che girare, girare a casa, girare per le vie, girare per le campagne. Abitava all’interno di un cancello da cui sistematicamente tentava di scappare appena lo vedeva spalancato. Faceva capire di volere andare a cercare suo padre che nella tenuta della periferia del paese, ci viveva e ci lavorava. Inoltre si spostava continuamente in un altro possedimento in cui erano cresciuti da secoli anche monache e preti dalla parte della famiglia della nonna materna Carolina composta da Sandrina, una sorella regolarmente sposata, da Giuggia che aveva preso i voti col nome di madre Bartolomea. Discendeva da una famiglia devota e pia. Nonna Carolina aveva anche quattro fratelli, uno aveva studiato da dottore, uno si era impiegato alla banca, uno che era morto in guerra, uno che era andato in America e non aveva dato più notizie di sé. Il filone nobile e santo dei genitori di Sciummula proveniva da lei che si faceva guardare per bellezza e onestà. Erano pochi nel millenovecentoquaranta quelli che potevano beneficiare anche della cultura della scuola. La mamma di Sciummula si chiamava Marinella. Purtroppo per lei successe che più la tenevano protetta in casa, più si sentiva pronta al matrimonio ma non le cercavano un marito. Come si dice, l’amore è cieco. La forza della natura l’allontanò da Dio perché peccò. Si concesse carnalmente di pomeriggio tra erba fresca e fiori. Ebbe la caparbietà di schierarsi tutti contro. Si fece viziare là, proprio in una campagna che distava un chilometro e mezzo, all’aria aperta e profumata. Quella mancanza di riserbo fece indignare la nonna Carolina. Non volle più saperne di lei dopo il matrimonio anche perché Marinella era andata a vivere con suo marito, in campagna. Non era stata capace di restare pura come lo era stata lei e si vantava: “Tutto oro era quello che brillava in me!”
Infatti era convolata a nozze con Bibì, impiegato alla ferrovia statale. Si era sposata come Cristo comanda ammantata dal colore del giglio per convalidare i titoli onorifici della sua razza. Il padre di Sciummula, Antonio, era un benestante campagnolo, una specie di spagnolo per portata e andamento. Lui mancava di titoli onorifici però possedeva titoli di proprietà e lo chiamavano col Voscenza e col Don. In quella stessa campagna infatti volle possederla per la prima volta. Lì, teneva delle vacche, dei cavalli, dei tori, dei maiali, dei conigli e ben altro. Aveva ereditato a sua volta dalla bisnonna paterna Agatina che essendo figlia unica alla morte dei genitori si era seduta veramente comoda in ricchezza. Così di generazione in generazione sfruttavano la campagna. Il marito Calogero non era figlio l’unico, aveva sei sorelle. Dalla loro unione erano nati cinque figli tre maschi e due femmine. Diego che si guadagnava il pane come guardia forestale, Salvatore che rigirava la terra con suo padre e lui, Antonio il papà di Sciummula. La mamma di Sciummula restò a vivere e convivere con la suocera quando lui era partito per fare il militare. Aspettava la licenza che le permetteva di riabbracciare suo marito che era andato a scuola fino alla quinta elementare, per riuscire a capire soltanto che non aveva amore per il lavoro e che lo aveva riversato nel gioco delle carte. Il titolo di quinta elementare gli permise nondimeno di farsi assumere per fare il servizio militare nella marina. Quando ritornava a Canicattì sempre per pochi giorni lui era il sogno proibito di ogni fanciulla, perché traspirava il moderno, il nuovo, la capacità di paragonare ed era un bel giovine. Durante i due anni di licenza nacquero Dedè e Beber, un dietro l’altro, seguiti da Sciummula. In quel periodo abitavano dalla nonna materna, alcuni abitavano a piano terra, qualcuno al primo piano sotto il tetto morto. Praticamente in quella famiglia era consuetudine che quando qualcuno passava a miglior vita il suo appartamento, i suoi mobili restavano dove erano in attesa che qualcuno della prole si sposasse ed andasse ad occuparlo. Così la proprietà restava intatta ed i famiglia, i beni mobili erano antiquariato che si perpetuava. Nell’ala del palazzone secolare, c’erano due camere dai letti giganti per quando venivano a trovarli amici e parenti lontani. Nell’alcova ricavata nella camera da letto dei genitori c’era una culla di ferro per Sciummula, e poi anche un lettino di legno per il primogenito. Quello era l’angolo notte. Nell’angolo giorno sito al piano terra c’era un canterano di legno scuro, c’era un tavolino dai piedi un po’ rosi in cui estraendone il cassettone sottostante, impastavano e facevano lievitare la farina per farne il pane, la pasta, la pizza, i mastazzoli e gli ammiscati. C’era una cucina in fonte con la legna da caricare davanti e con i cerchietti estraibili per usare quello più adatto alla grandezza della pentola da integrare. C’era una cristalliera zeppa di tazze spizzicate come ricordo. Dentro la cristalliera si teneva custodito l’unico giocattolo che riceveva Sciummula cioè un pupo di zucchero bianco e velato da mangiare appena rotto per un urto, da rinnovare ad ogni festa dei morti. Le pareti erano tappezzate di quadri dei morti che vi avevano vissuto, vi avevano partorito e vi erano deceduti, usufruendo di una seconda vita più virtuale e senza corpo perché ne avevano diritto dato che di loro se ne discuteva fino ai pronipoti. Non vi era appeso alcun quadro artistico, perché suo padre Antonio essendo un comunista accanito, non sopportava quei segni esteriori di ricchezza, era restìo come lo era per i giocattoli da comprare a Sciummula. Ignorava però che lo facevano cornuto e bestemmiato, perché la piccolina era sommersa di giocattoli che alloggiavano sparpagliati nella casa dei vari parenti adiacenti, di nascosto per la precisione. Il padre di Sciummula sin dalla nascita di suo figlio Lillo aveva comprato un carrozzino di cinque posti, scoperto ma con un ombrellino fisso, da potere aprire in caso di sole. Ne era gelosissimo e lo teneva sotto il tetto in cui riparava la giumenta, in caso di pioggia. Quando doveva portarla dalla nonna materna la trasportava in carrozzino come una principessa. Anche in via Nazionale per andare al Teatro Sociale, al Mulino Santa Lucia si pavoneggiava. Dopo il congedo del servizio militare Antonio non volle saperne di rigirare le zolle come suo padre. Tramite lo zio Padre Levantino ela zia Madre Bartolomea, grazie a Dio, riuscirono con la buona parola e con le amicizie di spessore che avevano a farlo impiegare al municipio. Era addetto a stilare certificati di nascita e certificati di morte, in una parola non si stancava e non si sporcava. Anche se percepiva col posto fisso a fine mese non volle andare a vivere altrove. Restarono dalla nonna Maria in campagna. Sciummula era magrissima ma elegantissima, la madre comprava ritagli di stoffa e le cuciva i vestitini da cambiare due volte al giorno. Comprava matasse di lana in cui lasciava gli occhi lavorandola. Prima che compisse i tre anni fece la spola tra gli averi materni e quelli paterni. Così aveva scoperto quella favolosa sorgente che attraversava i campi di nonno Calì ed aveva assistito alla manifestazione della stizza di quest’ultimo nei confronti di nuovi vicini acquirenti: “Qui, in questo pezzo di mondo siamo come una stessa famiglia, voglio venirvi all’incontro dandovi il permesso di usufruirne per l’abbeverare di quest’acqua ma vi chiedo di non farmi calpestare il seminato dalle bestie, di guidarle con vero interesse. Io e i miei fratelli siamo abituati a mezza parola perché una è assai. Noi siamo dei conosciuti qui, siamo abituati a farci sentire abbastanza in paese. Voi siete dei fratelli sicuri e strafottenti a quanto mi hanno detto in giro appena fatto l’atto di compera. Non svegliate il cane che dorme, non facciamone una tragedia, non mi fate arrossire gli occhi, perché ogni pazienza ha un limite. Uomo avvisato mezzo salvato.” Come se fosse stato fatto di proposito, l’indomani aveva trovato uno scempio del suo lavoro svolto giorni prima, per prova c’erano i risultati di colpi di zoccoli della bestie messi dopo a fuggire all’impazzata, gli avevano azzerato la fatica fatta. Bastò tanto per far indiavolare, per sentirsi offeso e leso da quei sordi. Solo il fucile gli fu complice perché si scialò di fare un omicidio. Garbatamente aveva detto loro: “Attenzione perchè vi tolgo l’acqua, che sorge nella mia tenuta”. Invece tolse una vita. Il disastro era stato riportato a nonno a nonna materni che non pensarono all’assassino ma ai loro nipotini. Quando la polizia portò tutti in caserma, Antonio confessò:
“Sono stato io ad uccidere”. Infatti così si era convenuto tra fratelli e sorelle: “Papà è un vecchietto di grande nomina, si perderebbe la faccia della famiglia, non può finire in prigione. Sarebbe una vergogna per noi e per i nostri figli un omicidio. Così lui per la stima che ha del popolo, per le conoscenze che ha coltivato, per la saggezza che tiene saprà come difenderci, qualche annetto ma poi saremo liberi. Noi siamo sbarbatelli, non gli possiamo manco lucidare le scarpe a ora d’importanza. Sappiamo tutti che fra di noi c’è uno che è sempre disoccupato, che non porta introito in famiglia insomma uno che non conta e sfrutta la situazione. A lui spetta di portare sulle spalle l’eventuale condanna”. Antonio accettò di aiutare suo padre fino a ridursi un eroe agli occhi di chi conosceva la verità. La legge fu interpretata a tre anni di reclusione ed il cognome restava salvo. Nonna Carolina che non vedeva da anni sua figlia andò a cercarla perché le avevano riportato che non voleva abitare con la suocera, né in una famiglia di assassini. Raccolse anche i due nipotini onde assicurare loro un pezzo di pane. Se li portò a Canicattì. Non di meno glielo rinfacciava ogni giorno:
“Te lo avevo detto che era un serve a niente. Ti sei scelta uno che si sposta in carrozzino e sa giocare solo a carte i soldi del padre. Le bellezze riempiono gli occhi non la pancia. Perché hai screditato la mia razza facendoti impregnare fuori e prima del tempo? Mai, dico mai, ti avremmo permesso di farlo questo salto che ti ha rovinato l’avvenire. Cosa hai trovato in quella cocuzza? Come hai potuto innamorarti di lui?”. Marinella non le rispondeva, quasi offesa se ne usciva e ritornava ore dopo. Se ne andava a trovare i familiari, una volta una cugina, una volta uno zio, una volta la suocera. Nonna Carolina dinnanzi al popolino di Canicattì si sentiva declassata d’importanza, non usciva e si occupava soltanto dei nipotini. Come se le desse vitamine le ripeteva la stessa litania fin quando Marinella un mattino reagì: “Di che amore e dolore di pancia parli? Non fare l’indiana, lo sapevi di chi ero innamorata io. Non hai voluto. Mi dicevi che i matrimoni con la parentela fanno nascere figli mongoloidi o cose peggiori. Di che amore mi parli per Antonio? Fu il primo che me lo chiese e gli dissi di si, pur di fuggirmene da te. Il mio cuore batte sempre per quella stessa persona non è un matrimonio che può sregolarmelo. Fino alla morte l’amerò. Ora basta di offendermi, anzi mi dovresti ringraziare di averti lasciata contenta scappando con Antonio. Ora ce l’ho un marito e sei tu quella felice al posto mio”.

(*) Stralcio del primo capitolo di un nuovo racconto di Rosa Pedalino

Rosa Pedalino

Nata a Leonforte in provincia di Enna,dove ha trascorso l’adolescenza, si è trasferita a Parigi, ha insegnato alla Sorbona e ha, per anni, mantenuto rapporti di coordinamento con gli emigrati italiani. Adesso vive a Grenoble. Tra le sue pubblicazioni creative un libro di racconti Decamerone siciliano (Prova d’Autore 1989), e i recenti Agli àgli m'incipollo e Di me mi prendo e di me mi lascio (Prova d'Autore, 2011).