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                  – 9 –

 Come vino d’antica botte

sulle rotte di risoluzione

pagine di nero a frotte

di fretta ingoiava con passione.

Era inchiostro, penna a sfera,

creazione di pensieri ghiotti

avvezzi a riavere ideazione

per generare amare terracotte

sommerse da mente leggera.

 

Scriveva scriveva Giordano

invero imparava coglieva

da un’inesauribile fonte

– un ponte – con mano

ferma viveva sul foglio

la vita di Cosma riunita

nel calice d’imbarbarita

distesa carta forbita.

 

Senza contesa…

concesse gli avevan senza riotte

(per Cosma le usasse! condizione)

agende in stracci ridotte

ma tese alla riflessione

e, ora riempite, pur dotte

così da incrociare nozioni

corrette e in sequenze condotte,

dirette alla via in remissione.

Dai memo sorgevan vignette

d’istanti le illustrazioni

lettere con silouette,

metafore per soluzione.

 

Eran, secondo Giordano,

l’ugual che seguiva il più e il meno,

diviso e moltiplicazione.

Se di chimica grezza come alcano

o isobutano essa-soluzione

non parlava, all’arcano

di biochimica, intenta in elaborazione

psichica, si rifaceva, forse invano.

 

Certo era duro il sentiero,

ma, nuda, la sua bandiera

scoperta alla fine ben chiara

oggi in agio vinceva,

perché nulla Giordano lasciava,

che significava,

oltre il muro del maniero.

 

Fuori da questo pensare

qualcosa d’inaspettato

mutò in ambiente solare

quell’anfratto disgraziato:

note di uno strimpellare

malamente rabberciato

quale in un ancestrale

pentagramma ricordato.

Erano corde nelle scale

di un pianoforte malandato;

era l’errore banale

di un principiante un po’ imbranato;

era stonatura gioviale

su tasti superscordati;

ma era, e questo vale,

musica, per un timpano disabituato,

era musica, con un colpo d’ale

indubbiamente, e, per quanto tarata,

musica, per l’amor dell’aere!

E se le porta non era sprangata,

la camera, era normale,

poteva essere lasciata;

se non sotto chiave,

la mosca fu catturata

verso il vetro delle ottave,

melodia raffazzonata,

pentagramma di sole,

sulla scia di quell’altalenata

rivelazione musicale.

E se la prima rata

offriva musicista eccezionale

l’istante dopo era schizofrenata;

qualche do-re sensazionale

e una pavarottiana steccata.

Da un Beethoven per nulla banale

un vortice in tempi disordinati,

senza diapason, infernale,

bemolli lenti o accelerati.

Tanta espressione confusionale

fino a delle Valkirye la cavalcata.

Era la mano diseguale

di un uomo spersonalizzato;

la furia quasi mortale

dopo calma esasperata;

era vita persa nel mare

del gioco disinteressato,

dove la casa fatta di sale

teneva radici ormai bruciate.

Era un giaciglio di nobil tare

fondamenta disgregate;

asservimento privo d’amore

per un affetto addormentato.

Se l’anima da un freddo cuore

alfine era scappata,

dal confine surreale,

dove giaceva la schiacciata

personalità superficiale,

allo strimpellista squilibrato

– andato –

al fine aveva approdato.

 

Fu una sorpresa parziale,

quando, dischiusa

la porta socchiusa,

la mosca bramosa

riuscì lo spiraglio a trovare

dal vetro decisa a cercare

l’amata corda di sole.

Occhiali scuri di faccia rifusa

sorriso ingiuria colto da musa

Turi Torre con dita confuse

si curvava su tastiera matusa.

Il sedile aveva sdegnato

con quei suoi modi agitati.

 

Era Salvatore Torre in nero, giacca e cravatta, cappello blues come a schernirsi da solo. Si tolse i guanti bianchi con l’eleganza d’altri tempi, prima di piegare e dirigere verso di lui il capo accorto, poi biascicare: «Credevi che non ti sapevo lì-ddietro, corvo cascettone?»

Gli piacque spegnere la luce centrale, annebbiando di oscurità la camera, dove alloggiava e che probabilmente era la sua unica vera casa. Gli piacque accendere l’incenso che profumava di orientale, sprofondare in una poltrona accavallando le gambe e indicargli una sedia di fronte a sé, poi prendere le carte da poker e cominciare a mischiarle.

«Non conosco questo gioco», si difese Giordano, obbedendo comunque alla sua offerta.

«Perché? Io sì?», ribatté Torre. Infine si sporse in avanti per distribuire le carte con una precisione ossessiva sul tavolino di porpora vetrata che li separava. «Conosco solo briscola, scopa, l’asino e… che so altro?… solo le “siciliane” che poi sono macari le più belle. Ti accorgesti mai che il re di spade cc’ha ’na faccia perfetta? E l’asso… l’asso di spade!»

Secondo Freud, era simbolo fallico e Giordano non si stupì per quella scelta possente, malgrado forse avrebbe visto meglio un simile soggetto come fan sfegatato delle mazze. La spada era più elegante nella figura snella, con la guardia che proteggeva la mano e la lama che, quando rifletteva i raggi del sole, poteva ferire anche gli occhi. Attraverso il codolo per l’impugnatura, era uno spaventoso prolungamento del braccio che accresceva l’agilità, soprattutto se ben tagliente. Di una mazza o di un martello, più pesanti e meno rapidi, per quanto all’apparenza accogliessero maggior violenza, era molto più maneggevole, volendosi ottenere quelle stragi delle quali solo i samurai si erano fatti artefici. E in quest’arma bianca, qui pugnale maturato nei secoli, lì leggendaria creazione sotto l’egemonia dell’imperatore Mommu, quei combattenti estinti immedesimavano il proprio spirito, come se di punta o di taglio l’anima potesse trasferirsi, al momento del colpo, fin dentro il corpo nemico che da un avversario simile non sarebbe stato disprezzato. Una katana viva nella quale si rifletteva l’essenza stessa di colui che l’impugnava, una wakizashi che succhiava l’esistenza. E ogni uomo ucciso era un po’ d’anima volata via col sangue del nemico abbattuto, attraverso l’acciaio forgiato di un guerriero che non si dà tregua. A quel punto la morte poteva anche sopraggiungere, meglio se in battaglia, dove poche briciole del soffio spirituale rimanevano nelle membra del gentile assassino, meglio se in battaglia, ucciso dalla propria o altrui spada-anima. E chissà che la spada di Torre non fosse la pistola-katana tenuta nella fondina, la punta ogni proiettile, il quale scagliato a velocità invisibile si portava via, dal dito sul grilletto, per la canna un po’ d’anima… d’umanità!

«Ecco», spiegò Turi Torre, mentre un ciuffino dei capelli scuri scivolava giù dal cappello sulla fronte, «questo sei tu, prete». Indicava una figura che per Giordano non rappresentava nulla, ora che il suo unico interesse era rivolto al fattucchiere di turno. «E non vedo per te neppure un pizzico di allegria, in amore». Immerso nell’atmosfera fumosa, arricciò il naso sotto lo scherno che faceva da sovrano nel suo viso. «Poveraccio! Sempre all’asciutto!»

«E Lei, signor Salvatore?»

Turi Torre si irrigidì, ma il sorriso non scemò. «Non che con i soldi hai più culo! Scalognato anche in questo. Che schifo!»

«Perché non mi ha risposto? Questo argomento La inquieta?». Rifletteva che Torre dovesse covare in sé molta passionalità, prontamente soffocata da un’anelastica forza di volontà. Il tutto si mostrò in un guizzo del sopracciglio che solo per una frazione di secondo comparve da sopra gli occhiali neri.

«Tu devi giocare con lui, non con me. Manco questo ti ricordi?». Poi l’ennesima fuga: l’attenzione venne riportata in un batter d’occhio sul tavolo. «Salute? Robusta, pure se la morte ti chiama ogni giorno da dietro l’orecchio».

«Lei era bella, vero? Bellissima!»

«E che cazzo!», esclamò morbidamente Torre, ammucchiando le carte sul tavolino. «Mi hai già scocciato. Vattene dal mio territorio, sennò ti strappo i coglioni. Sempre se ce li hai, s’intende». C’era qualcosa di stridente fra le parole e il tono di voce tranquillo e suadente.

«Un uomo non dovrebbe aver paura, tantomeno del proprio trascorso che ormai, in teoria, oggi non dovrebbe poter nuocere, non crede?», osò Giordano attraverso la miopia generata dai fumi.

«Non me ne fotte ’na minchia del mio passato! Sono affari miei e tu adesso mi lasci nella santa pace!»

«Se non Le interessasse davvero, allora perché non vorrebbe parlarne? Sarà forse perché, invece, è fin troppo importante? Tanto importante da scottare ancora ferocemente, dopo tutto questo tempo…» Decise di cambiare atteggiamento e d’un tratto da sereno divenne serio. «Perché ha abbandonato la speranza di condurre una vita normale per chiudersi in un buco senza sole? Da dove sta fuggendo? Da chi

Parve all’improvviso che quell’uomo avrebbe fatto di Giordano un bersaglio d’addestramento, ma fu solo un istante: evidentemente l’autocontrollo non lo abbandonava e prova ne fu che Turi Torre si limitò a dire: «Mi scassai le chiappe per arrivare a questo punto. Che cosa credi? Io l’ho scelto. È una scelta e un onore guardare una persona altolocata. Io stesso fui scelto per questa cosa. È la prova che non sono uno qualsiasi!»

«Un numero qualsiasi», precisò Giordano.

«Se la vuoi mettere così, va bene. È vero che anche Cosa Nostra cambiò e ci fece diventare mezzi, non più uomini; ma ormai in questa epoca, dove dio è il capitalismo, è normale essere militari pure nella più romantica organizzazione clandestina del mondo!»

«Romantica?!»

«Romantica. Vuoi metterci il dubbio? C’è cosa più sentimentale di un giro basato sulle promesse, sulla fiducia, sulla lealtà e sullo scambio? Io sono qua perché ci credo. Mi farei tagliare la testa per Cosma, soltanto perché me lo ordina il capo».

«Meglio dare la vita per un sistema alternativo, che morire nel cuore per la società di tutti», osservò Giordano. «Ma io non sto a giocare, signor Torre. E se Lei afferma che sarebbe disposto addirittura a offrire per Cosma la cosa più preziosa che ha, Le sarà anche meno costoso, proprio per la stessa persona, rispondere alle mie domande».

«Ma che spacchio cc’entro io con Cosma?!»

«Ha mai sentito parlare di terapia familiare?»

Un’emozione affiorò alla gola di Torre, un deglutire, un esitare nel rispondere, un leggerissimo tremolio delle dita. «Saremmo noi la famiglia di Cosma, per te?»

«Perché no? La mafia si trincera dietro la filosofia della famiglia. Inoltre Cosma trascorre i giorni con voi e, per una persona labile, la prima struttura che bisogna riparare è l’ambiente in cui vive».

«Insomma, tu dici che siamo tutti scattiati e che dobbiamo essere curati…» ghignò Torre forse un po’ divertito.

«Sto solo precisando che, per migliorare le condizioni di uno psicopatico, necessitano ambienti sani e, soprattutto, umani».

Fu la prima volta che vide quel giovane senza una maschera spalmata sul volto. «E dovrebbe essere questo il motivo valido per parlarti di Agata?», mormorò accigliato.

Le pareti persero d’un tratto l’aria opprimente, l’odore d’incenso divenne profumo, mentre Giordano si rilassava sulla sedia. «Era bella, non è vero? Era bellissima!», sospirò.

Marcella Argento

[continua...]