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[continua dal numero precedente….]

– 8 –

Contro il muro con gli occhi sbarrati

Giordano

vide Cosma irrompere duro:

faida e rivalsa, atti allucinati,

risus sardonicus

(tetanicus)

e mani sangue rosso scuro.

Seguivano uomini abbacinati,

il grosso e l’altro,

pazzo di sicuro,

reggevano un giovine d’alta statura

con arti troppo sviluppati

per l’età che sfoggiava nella figura.

Quindici appena? Bene impostato!

Ma quanta premura

d’avere bei connotati, anche portati con cura,

magari gestire bravura

per poi rovinare nella congiura

schiacciato a brandelli dalla paura

della tortura.

Qua e là, scissa a strisce, la cute pendeva,

livore da rissa il volto ingrigiva

pallore glabro, stordito dal terrore,

ma non emetteva neanche un guaito.

Era Cosma a soffrire,

in moto perpetuo, avanti e indietro,

sfogava il bollore,

un po’ senza meta sbolliva furore,

un po’ da Giordano sfuriava fragore,

un po’ al suo delitto mirava l’orrore

e, come quei gesti, afflitte parole

uscivano a tratti, grippato motore.

«Roberto e Giacomo…

passavano insieme… le ore

compagni di basket… d’indubbio valore

correvano in campo al suon del clamore

un colpo di mano uniti al sapore

della vittoria…  oh! disonore!

quando il bruciore

della sconfitta ’neriva l’umore!»

Non s’intuiva da segni esteriori

se visti li avesse fra gli spettatori

seduto a tributo da fan sostenuto

o se solo adesso, più da sognautore

porgesse la mente e il batticuore

a un’illusione di antico stregone

e se in questo caso da vero sensore

oppure creatore del nulla interiore.

«Roberto e Giacomo, stessa avventura…

dalle elementari… addirittura!

Ma quale sciagura…

se Giacomo era Martino nella vestura!

Roberto… potresti negare?»

Scolpito che ebbe un altro gonfiore

sul labbro spaccato, infliggendo malore,

difficile per gli uomini d’onore

fu la postura mantenere

sotto il vigore

del pugno scagliato a propulsore.

«Io non c’entro niente…»

riuscì Roberto a farfugliare

sputando cocci di dente.

«Giacomo neanche fu peccatore

e il fatto non mente!»,

uscito dagli inferi e dal malumore,

Cosma sembrò d’improvviso danzare.

Chinò quasi stelo battuto dal vento,

porgendo d’incanto un viso migliore

al biondo suo uomo deciso, anche attento,

fra tutti il minore.

«Silvestro, le nostre proposte non sente,

non vuole per nulla farci il favore.

Silvestro, attendo consiglio inclemente

per dissuaderlo da questo rigore…»

Mutato la voce terrificante

aveva in canto musicale.

«Lo spezzettiamo a paziente senziente»,

rispose Silvestro immantinente,

ricciando quel volto dal tratto attraente,

«e ne organizziamo

mistura per ogni parente

non troppo salata

sarebbe un peccato

privarla della natura

all’assaggio col palato.

Poi gliela spediamo

con misura

oggi la lingua, domani l’occhio strappato,

dopodomani una tritura

della dentatura.»

«Ma io non sono informato!

Vi entri nella segatura

del vostro cranio sciagurato!

Dal dire a me la sua positura

mio zio si è ben guardato!»,

gridava Roberto sfinito e arrabbiato

ormai non più terrorizzato.

«È vero, sarà pure ordura,

ma il dado è ormai gettato

e tu non sei fortunato.

La nostra è dittatura

chiunque la sfugga è condannato»,

sorrise Cosma con quella fessura

che aveva la bocca inumidato.

«Roberto, sarai incaprettato,

poi con cura e attenzione affettato

per fare un articolo da macello

come carne di cavallo».

Roberto era inerme, esasperato,

guance cinte da qualche capello

nero e unto di linfa schizzato.

«Io non so un cavolo lessato,

ma questo non basta a offrire il bello:

se lo sapessi, disgraziato,

non dirlo comunque sarebbe uno sballo».

«Mi piace pensare che tu abbia sbagliato

a parlare! Non vuoi vendicare

il dolore che ti hanno insinuato?!

Quello era un tuo compare!

Le bande qui son cadute in fallo:

lo han condannato per un reato

commesso dal grande fratello».

Scandalo e offesa sembrò simulare

per la nefandezza più grave

che un savio possa inventare.

Girò su se stesso per un accesso

di rabbia protesa a guardare

l’uomo di chiesa, dal nero talare,

al pari d’intesa, o meglio d’amplesso

da tempo acceso ed impresso.

«Per partito preso, il fesso

si ostina a non realizzare

che, se denunciasse adesso,

la vita potrebbe risparmiare

nella difesa del nuovo alleato da salvare».

Al prete pareva

che guizzi d’angoscia ossessiva

fossero indizi d’artifizi.

Nascosti da furia esplosiva

due toni più dolci e ribelli

sembravan far leva

(«Perché non cambia e non guida

i nostri vizi da corrida

per contrapporci ai cancelli

che hanno aperto la sfida?

Ho sete e bisogna che beva

esizi è bene che schivi

trovare indirizzi propizi

per trarre da ingiuria omicida

la giovane pelle captiva

e immerita d’altri supplizi»)

«Non racconto storie agli assassini

per far scovare

assassini d’assassinare!»,

rispose Roberto agli aguzzini.

Ma agevole era indovinare:

l’ignorare proibiva alternativa…

due sole, entrambe non care

restavan le cose da fare

o da eroe moriva

o da vile. E per lasciare

memoria positiva

almeno ai boia, sfoggiare

preferiva quella un po’ più schiva.

Ancora Giordano capiva

cosa ducesse ad appassire

di Cosma il colore verso il patire:

con falso nemico la lotta era viva,

adesso convulso e vibrando moriva

un cuore da non aborrire.

Ingiurie e violenze sembravan pregare

di offrire

risposta effettiva,

ma non perché questa potesse importare

in sé come axiato,

bensì perché avrebbe salvato

il condannato.

Un taglio abusivo o insulto incisivo

parevano dunque invito al Signore

la grazia! del lume definitivo

da Dio al buon teen-ager… il nuovo sapere.

In somma era molto più sudato

Cosma dell’altro disperato

e pena di morte avrebbe salvato

almeno il legato

da strazio ulteriore senza fiato.

«Sarai tu, Sebastiano, il suo tutore,

con Giordano qui come visore

a cui toccherà presenziare

allo squallore di questa agonia,

di Roberto che muore…»,

la gola di Cosma cadde in afonia,

«… senza ragione!»

Tirannia dissolse nello splendore

dei passi gestiti con galanteria.

«Dispongo che il cadavere sia

rinvenuto dal nucleo familiare

o da chi altro in simpatia

coltivi un po’ per lui l’ardore.

Suo zio ne avrà diceria,

così capirà, s’immedesimerà

nel pavore, tremore, timore

e nella codardia

di chi si dispone al nostro rancore,

all’anarchia».

Immobile stette lungo la via

e ricercava il sacro tepore

dell’accettare tanta follia.

«Ora l’errore

che Giacomo ha ucciso (idiozia!)

ha la rivalsa nel vincitore

contro l’angheria.

Perdonami, Dio…

Occhio per occhio… è il nostro imperatore».

 

 Quando il santo si fu eclissato, il malavitoso più imponente, quello silenzioso, Sebastiano, lasciò il giovanotto sotto la stretta dell’altro e, senza dire una parola, raccolse la corda del drappo bruciato, la usò come cavo per legare prima i polsi e le caviglie, a leva il collo di un relitto a cui non si leggeva più espressività; infine lo lasciò così, aspettando. E non fu breve, perché, con ogni rimasuglio di forze, la vittima lottò per non distendere quelle gambe che avrebbero tirato il cappio al collo, soffocandolo progressivamente. Non fu breve e dette il tempo a padre Giordano di chiedergli una confessione e di poggiargli una mano sulla fronte per ungerlo. «Ego te absolvo».

Al gesto della croce sulla pelle martoriata qualcosa cedette in lui e sotto lo sguardo di Giordano e di due guardie come bronzi, Roberto roteò le iridi in alto, proiettando fuori la lingua viola intrisa di bava rosata.

Giordano non avrebbe immaginato di essere ancora capace di piangere.

 Marcella Argento

[continua…]