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Tra i “Maestri” c’è Bertolucci ma non ci sono Ungaretti, Montale, Quasimodo e Saba; né Covoni, Sbarbaro, Betocchi, Pavese, Cardarelli, Penna e Gatto. Di “Officina” ci sono le poesie alla Evtuscenko di Roversi, ma non c’è Leonetti; della “Quarta generazione” c’è Orelli, poeta svizzero di lingua italiana, e mancano Ripellino, Gramigna, Guidacci; dell’“Avanguardia” c’è Amelia Rosselli, ma non Emilio Villa; degli “Appartati” Ranchetti e non Edoardo Cacciatore, Gianni Toti, Mario Lunetta. Ci sono Bevilacqua e Orengo tra i “narratori poeti”, ma non Landolfi, Testori, D’Arrigo e Bufalino. Fra i dialettali c’è Guerra, ma non i Noventa, Marin, Dell’Arco, Buttitta, Delogu.

Chi c’è, chi non c’è: giochetto futile e poco interessante, come, per diverse ragioni, spesso futili e relativamente interessanti sono i florilegi, le crestomazie, le miscellanee, i centoni, le antologie (dal greco ànthos, fiore, e lègein, scegliere; da cui anthologìa, ‘scelta di fiori’). Nascono, soprattutto e per lo più, in laboratori dove s’antologizza legiferando e gli elenchi promozionali non sono meno aggiornati delle implicite liste di proscrizione e dei nemmeno tanto criptici registri del ‘dare e avere’.

Un pertinente interesse può comunque ricercarsi, oltre che nei pregi dell’informazione critica e delle poesie selezionate, nelle implicazioni egemoniche suggerite dalle antologie con la propria autovalorizzazione istituzionale. È il caso dell’oggi dimenticata antologia di Poeti italiani del secondo Novecento. 1945-1995 (1996), divisa in dodici sezioni tematiche e redatta da Maurizio Cucchi, antologizzatore di se stesso, e Stefano Giovanardi; che nell’occasione si spartiscono i ruoli di mediatore di charme e di poeta fatto e finito. Ruolo che, per esempio in Cucchi s’accorda con un edonismo capace di smentire la rinomata discrezione dei poeti, alfine stanchi – si direbbe – di testimoniare una riservatezza che ha reso alcuni fra loro dei negletti o, al massimo, degli ‘antologizzati postumi’ (si ricordi Campana, oppure si vedano nella citata antologia i suicidi ‘risarciti’ Calogero, Cesarano, Giuseppe Piccoli).

Ciò posto, tale antologia, che non implica una ‘storia’ né potrebbe arrogarsi l’ambizione di rappresentare nel suo insieme la maggiore poesia italiana di mezzo secolo, espone una campionatura dell’opera di sessanta autori, selezionandone i versi giudicati più degni di lettura. Di conseguenza, il criterio adottato nella cernita dei testi non può essere che arbitrario e provvisorio, al pari di quello seguito nella scelta dei poeti. Perché tutto, in un’antologia dell’attualità ufficiale, è fisiologicamente precario e incompiuto: sommario, inadeguato a resistere al tempo e, talvolta, mistificante. E anche perché, si sa, sussiste anche il problema per il quale la poesia non accoglie, a conti fatti, più di qualche poeta per generazione, al massimo una mezza dozzina per ogni secolo; e perché ogni autentico poeta riesce in tutta una vita a scrivere poche poesie importanti (si pensi a Leopardi); perché, infine, un’antologia non garantisce il valore ma resta un referto del risaputo: delineando, insomma, una seriale, indifferenziata orizzontalità.

Da questo non deriva necessariamente che al lettore curioso e senza certezze il lavoro di Cucchi-Giovanardi non offra qualche spunto di riflessione. Particolare riguardo merita l’“Introduzione” di Giovanardi, che febbrilmente razionalizza e codifica una congerie, altrimenti sfocata, di retoriche, stilistiche, poetiche, percorsi e processi strutturali interagenti in dinamiche sconvolte da selvaggia entropia. Il critico muove dall’idea, non originale ma impressionante, che esista un “canone” poetico della durata di cento anni, filogeneticamente congiunto col secolo che l’ha preceduto. Accade tuttavia che a metà d’ogni secolo si verifichi una frattura che provocando la dissoluzione del canone prima vigente ne avvii uno nuovo, a sua volta destinato a farsi egemone per i cinquant’anni successivi: sino a finire soppiantato da un canone inedito, accompagnato “in altri campi” – scrive Giovanardi, echeggiando stilemi di Harold Bloom – “dall’elaborazione di un modello culturale ‘forte’”… Ma l’ipotesi – che delinea un agile profilo metastorico del linguaggio poetico secondonovecentesco laddove, sull’argomento, sarebbe anche proficua un’attenzione della ‘funzione linguaggio’ in poesia – pare pacificamente contraddetta da una verifica dei materiali antologizzati: nei quali i canoni sono molteplici ed eclettici, e non corroborano lo sforzo di rapsodica sistematizzazione che li introduce. Ne consegue, nell’assetto ideologico dell’antologia, la prevalenza di un criterio che, dopo essersi proposto d’evidenziare scelte di scrittura e orientamenti poetici fissati dall’influenza di “maestri” quali Bertolucci, Sereni, Caproni o Luzi, immette quasi surrettiziamente la centrale dominante di Giudici, un poeta egemone che, forse per il ‘potere’ attribuitogli da certa società letteraria, finisce per essere sopravvalutato. Distinto da ogni scuola come Zanzotto (ma questi sì, davvero un caso a parte; e lontano da catalogazioni ipostatiche un tale distruttore del significato e fabbro d’un significante assoluto e ineffabile), Giudici viene aureolato di un magistero irraggiante una costellazione di ‘allievi’, impegnati, dopo i soggettivistici moduli pascoliani, “a conferire al linguaggio una fondazione oggettiva […], esterna alla pura dimensione del soggetto”.

Dimensione epifenomenica, per la quale i poeti scontano una reiterata chiusura linguistico-lessicale e il ripudio della possibilità di sperimentare il nuovo. Così, chi accorderebbe ormai credito a un Ungaretti che trasvalutasse la langue e i codici vigenti per una parola originaria ‘trovata’ nel silenzio e nel distacco dal clamore dei media?

La novella oggettività della poesia è da Giovanardi traslata in una diffusa “inclinazione narrativa” che riduce l’Io lirico ad agente colloquiale emancipato dal poetico e prossimo alla prosa.

Certo, questo è uno schema che, partendo dall’angosciosa “nausea delle parole vane” lamentata da Saba e giungendo all’intimismo realistico di Sereni e Pasolini, assimilerebbe, con Giudici – e, si pensa, in modo non minoritario –, il discorso realistico-emblematico di Raboni, Majorino, Neri, Erba, Risi e altri, tra cui l’autoparafrasato Fortini; fino ai relativamente più giovani Cucchi, Zeichen, Frabotta, Ruffilli, D’Elia, Santagostini, tendenzialmente lirici ma programmaticamente discorsivi in nome dell’etica della ‘trasparenza’.

Che simile schema, la cui effettualità riposa sulla riattivazione di una norma linguistica non producente innovazione ma invarianze formalizzate e campi tematici privi di conoscenza fuori di sé, sia poi quello del canone egemone dell’espressione poetica secondonovecentesca può essere attendibile pensando che l’egemonia ha ragioni che la poesia non può – mai – avere. Peraltro, il connotato saliente della maggiore letteratura del Novecento resta, infine, l’estraneità a ogni convenzione egemonica.

 

Una messa in crisi della nozione di canone dominante, ossia del “polo monostilistico” rilevato da Giovanardi “nella produzione degli anni Settanta-Ottanta”, è designata dalla presenza, nella stessa antologia, di autori che – a dimostrazione che non sempre la poesia sia ascrivibile ad apparenze fisse od obiettive, ma si dislochi nell’“emanazione fantasmatica di una soggettività onnivora” – coniugano in moduli, a volte stagnanti (emanerà da ciò l’impressione d’un generale ‘monostilismo’?), orfismo ed ermetismo, psicanalisi e filosofia, gnomica e saggistica, lirica ed elegia, misticismo panico e mitografia; con – si pensi ai versi della Valduga – massicce restaurazioni metrico-ritmiche in forma chiusa e cospicuamente barocca.

Siffatto panorama indurrebbe a sospendere il giudizio su qualunque modello precostituito di poeticità e sollecitare la verifica del valore dei lacerti testuali antologizzati, che segnerebbero – ma c’è da giurarlo? – “le tracce del canone del Duemila”. Fuori di essi, nella genericità in cui fluttuano, ma anche in parte di essi, spicca piuttosto (si estrapoli da Giovanardi) “una devastante aridità, un deciso rigetto della comunicazione in versi” che altresì è il riflesso di una rottura insanabile fra poesia e vita: dopo che la poesia è stata subordinata, entro un linguaggio già dato e non da rifondare, alla ‘rappresentazione’ invece che alla ‘conoscenza’ della vita.

L’aridità e il rigetto affliggenti la poesia, nondimeno improbabili, risponderebbero alla logica del fatto che, al di fuori dei pochi libri di versi stampati dall’“editoria a diffusione nazionale” alla quale i curatori dell’antologia delegano un inopinato giudizio di valore, lo spazio per i poeti è, oggi più che mai, pressoché inesistente. Contraddittoriamente se ne ricerca la causa, a elaborare un lutto gratuito e non auspicabile, in “una stretta editoriale senza precedenti, che ha via via falcidiato le collane nazionali di poesia”, e in una “civiltà dell’immagine” che ha relegato “il fatto poetico in una zona di marginalità assoluta”.

Senonché c’è da credere – come del resto adombra lo stesso Giovanardi – che “tali condizioni non sarebbero sufficienti a motivare il fenomeno”… E qui si tende ad attribuire la crisi del poetico a “una disposizione soggettiva degli autori”, sempre compiacenti nell’assecondare le effimere “strategie commerciali dei grandi editori” dedicandosi pure alla narrativa di consumo.

Ma Giovanardi trascura di considerare l’ufficio di quanti, operando negli apparati dell’industria culturale che ha fatto della poesia una questione di conformistica tendenza, consolatoria benemerenza e muto potere, hanno responsabilità non secondarie nella progressiva sfiducia espiata in Italia dai poeti e nel discredito della stessa poesia.

Su simile motivo, che va di pari passo con la vicenda e le prospettive della letteratura degli anni più recenti, si dovrebbero innestare le problematiche intorno al destino di una poesia supposta ‘giovane’ che rappresentata, nelle ultime due parti dell’antologia, da un pianificato manipolo di ex giovani, si sospende in uno sconsolato horror vacui: “in un silenzio più di rinuncia che di attesa”… È il silenzio di un sistema senza più posto per una poesia che – dopo il ’45 gravato dalle distruzioni della guerra e fino ai nostri anni marcati dalla bassa politica ideologica e affaristica, dal terrorismo, dalla mafia, dal craxismo come arroganza del potere seguito dal berlusconismo, dal leghismo, dalla dissoluzione della sinistra, dalla progressiva smagliatura del tessuto e dell’identità sociale – sappia essere appieno contemporanea e, insieme, ontologicamente autonoma: libera perfino dalle sistemazioni storico-paragiornalistiche dell’immanenza aduse a consacrare, con privatistica solerzia e senza passione né dubbi, periclitanti valori ‘in tempo reale’.

Stefano Lanuzza

Stefano Lanuzza

Storico della letteratura, (Dante e gli altri, Stampa Alternativa, 2001) studioso di chiara fama, è una figura singolare di intellettuale e artista, svolge anche attività di pittore e grafico, ha pubblicato libri di poesia e un romanzo sperimentale. Le sue ricerche continuano a essere rivolte agli “esclusi”, e alle riscoperte e valorizzazioni.