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Nel febbraio del 1970, quando uscì Dentro e fuori, un libro della collana RIS (Romanzi italiani e stranieri) della Rizzoli costava da 1600 a 2800 lire. Il romanzo di Nello Saito, che ne faceva parte, costava 2000 lire. Come la storia che racconta, anche il suo prezzo ci ricorda quel tempo: la scuola prima della contestazione studentesca, la discussione pubblica sulla Sicilia e sul suo essere mondo a sé, il tema del nostos elegiaco nell’Isola madre unito al mito della sua superiorità divina (vedi Il Gattopardo).

Chi ha letto Dentro e fuori sa che ha vinto il Premio Viareggio. Sa anche – e non solo perché Licata vi è nominata – delle ascendenze licatesi del suo autore il cui cognome d’altra parte richiama. E a chi fa subito pensare il cognome Saito se non a Giovanni, più volte sindaco della città? Che ci sia parentela tra lui e l’autore di questo romanzo su una scuola verso cui il suo protagonista più non crede e su un’idea di Sicilia letterariamente abusata?

Qualche dubbio viene in realtà sulla parentela, perché ci sono dei Saito anche nel ragusano. Ma sapere, attraverso la lettura di Dentro e fuori, che il padre dell’autore è di Licata li fuga in qualche modo. La sua ambientazione a Portopalo e nella città vicina nominata solo con l’iniziale L., può far pensare a una finzione per nascondere che proprio nella città del padre Nello Saito, o meglio il protagonista del suo romanzo, sia venuto come presidente di commissione per gli esami di maturità al liceo classico. E che il mare di Portopalo, il dialogo coi suoi pescatori preferito a quello con i colleghi professori, altro non siano che il mare e il mondo di Licata. Anche la visita alla necropoli di Pantalica, dove il silenzio seppellisce tutto, potrebbe configurare la visita ai Templi di Agrigento, considerata (nel romanzo) l’uguale distanza per arrivarci.

Può essere, dunque. Può essere che la città di L. e Portopalo siano una sola città e un’altra città: Licata per l’appunto. E può essere pure, dalla loro descrizione, che i professori siano quelli per così dire mitici del liceo licatese di quegli anni. Come niente potrebbe essere di tutto questo, e abbiamo voluto solamente far correre la fantasia.

Da Wikipedia si apprende che Nello Saito è nato a Roma, ha insegnato all’università, ha scritto altri libri. In Dentro e fuori ci dice che suo padre vive ad Anzio, dove passa lunghe ore a guardare il mare, che gli ricorda quello della città dove non è mai più tornato. Il mare da cui viene la vita. E tutto un dialogo con lui, lontano dalla Sicilia, è questo libro. Col padre parla dell’andamento degli esami, della diffidenza dei docenti del luogo; e delle sue impressioni sulla vita in Sicilia, accompagnate da considerazioni – storiche, sociali – che sono pure motivo di scontro politico con i colleghi della commissione esaminatrice. Coi quali non mancano neppure i contrasti sul modo d’intendere scuola e insegnamento.

È un dialogo immaginario: di domande senza risposte. In cui Nello Saito sembra muovere al padre il rimprovero maggiore: non avergli mai detto perché è andato via dalla Sicilia; perché non è più voluto tornarci. L’avrebbe aiutato la sua risposta a capire meglio quest’isola che molti esuli portano dentro, e per sempre, come “tabernacolo nel cuore”. E la sua smania a un certo punto, di rimanere in una terra da cui tutti invece emigrano (o scappano).

L’avrebbe aiutato a capire ciò che in fondo giustifica lo stesso titolo del suo romanzo Dentro e fuori. La diffidenza dei siciliani per l’ospite, lo “straniero” dietro a una apparente cortesia. Gli sguardi che sembrano spiarti, vedere l’invisibile. A scuola come al bar gustando una granita.

Saito parla, in sostanza e in definitiva, di tratti peculiari già conosciuti come sicilitudine. Che è, per i siciliani, tante cose: timidezza e temerarietà insieme, diffidenza verso il nuovo, insularità d’animo che il mare attorno accentua, credersi Dei senza esserlo, voglia o necessità di fuga cui segue – inevitabile – la nostalgia per l’isola lontana. L’hanno provata Pirandello, Quasimodo, Consolo (per citarne alcuni); e prima di loro, molto prima Ibn Hamdis. Costretto all’esilio, alla lontananza dalla Sicilia, il poeta arabo di Noto con questi versi manifestava la propria pena: “Vuote le mani, ma pieni gli occhi del ricordo di lei”.