UN SEGNALE DI NUOVA AVANGUARDIA LETTERARIA
NEI CONTENUTI NARRATIVI DI EDEN, ROMANZO DI PAOLO ANILE
Paolo Anile psicologo e psicoterapeuta è passato dalla eccelsa prova d’esordio con la saggistica scientifica avvenirista di “Come sopra così sotto” (Prova d’Autore, 2016), alla narrativa con un romanzo dal titolo di per sé polisemico e un sottotitolo che sembra alludere a qualcosa di già esitato o di diverso: Un’altra storia (Algra editore). Poiché riteniamo che il nostro amico, immerso negli studi e nella professione che abbiamo citato, non abbia pretese di farsi riconoscere come letterato, perché ha fatto seguire a un poderoso saggio di carattere scientifico-filosofico da nuove frontiere della mente, un suo lavoro che ha definito romanzo, pretenda titoli di letterato, noi dobbiamo scrivere questa nostra valutazione critica, mettendo le mani avanti. Cioè supponendo che Paolo Anile da palombaro (diciamo da sub, rende meglio) di stati subliminali umani, non debba vantare molte nozioni tra storia e aneddotica della letteratura italiana, e segnatamente di quel genere di letteratura italiana “nuova” alla quale ci sembra appartenere il suo sorprendente romanzo.
La nostra vuole essere un pretestuosa via che aiuti a far intendere meglio cosa pensiamo di Eden e del suo autore scienziato. E allora poiché di narrativa si dovrà pur dire, cominciamo con le due porte del romanzo moderno, che sono già piuttosto antiche, dal momento che ci riferiamo a Svevo e a Joyce. È un salto in lungo, il nostro, un volo di caprimulgo lungo un intero secolo. Quando ancora non c’era internet e la voce “globalizzazione” (è un esempio) non era stata accolta nei vocabolari dell’italiano, dove la troveremo a partire del 1956, e olismo e olistico (dal greco olos = tutto, intero) nei vocabolari dal 1963. Ma non facciamoci distrarre dalla globalizzazione e dall’olismo e torniamo a quella che abbiamo definito “porta” del romanzo moderno: Svevo e Joyce, primo ventennio del 1900.
Diremo dell’irlandese di passaggio a Trieste che frequenta e lezioni private d’italiano presso Svevo. Ma intanto diciamo subito di quest’ultimo scrittore e del suo La coscienza di Zeno. Ebbene? Il romanzo di Anile non c’entra in questo discorso in quanto opera letteraria, c’entra in quanto udienza che ne accolga in pieno il significato e il valore di romanzo dai contenuti avveniristici. Infatti il nostro divagare fino a Svevo vuole spiegare a noi stessi che solo dopo qualche tempo dalla pubblicazione in Italia Valery Larbaud, direttore della rivista letteraria francese Le Navir, avendo per caso avuto e letto La coscienza di Zeno, scrisse una lettera di rampogne all’amico Eugenio Montale, avvertendolo che in Italia nessuno si era accorto che c’era in giro uno scrittore che aveva fatto tesoro di quanto accadeva in uno studio medico di Vienna a opera di un certo Sigmund Freud.
Ebbene? Senza quella segnalazione, che fece scrivere subito a Montale un articolo sul Corriere della Sera a recensione del La coscienza di Zeno, questo sarebbe passato sotto quel silenzio che lo stesso Svevo anni dopo definirà, nella propria prefazione a “Senilità”, “Non c’è unanimità più autentica del silenzio.” Tutto qui la mia segnalazione della novità che ha dato in pasto al pubblico Paolo Anile. Eppure la fortuna di Eden è tra le stesse pagine del romanzo, sia nell’epilogo che a mo’ didascalico (che, mi perdoneranno l’Autore e l’Editore, mi sembra fuori posto in quanto un romanzo non dovrebbe essere corredato da interventi parenetici o didascalici redatti dallo stesso autore) sia nella centratissima sinossi magistrale della sua novità che ne dimostra con singolare chiarezza la nota a post-fazione della acuta e puntuale Daniela Marra.
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Peccato veniale quanto spiegato nell’epilogo (ed ecco già la consapevolezza dell’autore) intervento magistrale quello non più dell’Autore ma di Daniela Marra che illumina in poche righe natura e portata del romanzo. Che a nostro parere è una novità che inaugura un invito ad altri contenuti avveniristici. Per un momento che sia tale non sfuggirà al lettore la mano di uno scrittore che somiglia da vicino a uno Spinoza del Duemila e passa, ma non per un banale e deviante giudizio che si appigli al Nihil sub sole novum. Tutt’altro. Anile pensatore che tende allo scienziato in tuta nobile di umile operaio, è un precursore, anche se, purtroppo, non sono più tempi di Valery Larbaud, né di chi è disposto a raccogliere certo tipo di messaggi, specialmente se capita di confrontarci (noi tutti) con la fatalità della provincia, che non è tanto fatalità quanto mancanza di confronti ad alta voce. Ma anche stavolta non facciamoci deviare dalla segnalazione libraria che azzardiamo dalla nostra finestra.
Cosa abbiamo cercato di saper dire su Eden, romanzo d’avanguardia? Nient’altro che quanto ha scritto la suddetta Marra nella post-fazione e quanto ha dichiarato nell’epilogo l’Autore. Scrive la prima: “(…) La capacità di Paolo Anile di utilizzare il mito e al contempo di personalizzarlo, semplificarlo e trascenderlo, servendosene come di uno specchio riflettente del mondo interno, rende perfettamente la dimensione atemporale dell’esplorazione umana, sempre diversa seppur sempre uguale a sé stessa (…)”.
E lo scrittore, nell’epilogo che, come detto prima, noi non avremmo incorporato al romanzo in quanto didascalia del medesimo: “Quel Signore tanto cercato e atteso non esiste in questo mondo. Egli si nasconde in mezzo alle sue pieghe, o il mondo nasconde lui, il che fa lo stesso (…) Ma il distacco può creare un’illusione opposta, quella che ha fatto sì che gli esseri umani abbiano considerato Lui così irraggiungibile; se essi invece capissero quanto sia presente in ogni forma, in ogni sembianza, in ogni essere, in ogni goccia d’acqua, in ogni pietra, forse ne intuirebbero certamente non la limitatezza, quanto la sua naturale e immediata riconoscibilità, sia pur celata dietro le apparenze (…)”.
Ed ecco la conclusione del nostro punto di vista: Eden oltre a essere un’altra storia, come annuncia il sottotitolo, è una inaugurazione di romanzo moderno che va oltre le consuete codificazioni della narrativa di tutto l’arco che va da Joyce a Svevo o da Proust a Kafka per quanto attiene ai contenuti. È un segnale di nuova avanguardia che mira a una narrazione sostenuta e dal mito e dal Pensiero. La stagione delle ricerche filosofiche che dal Deus sive natura sono impegnate su nuove frontiere della ricerca e delle conclusioni. Un romanzo dove, per questa volta, non si dovrà chiedere di essere valutato sul solo piano letterario consueto che parte dal linguaggio, ma che come era stato un secolo fa con Svevo (restiamo in Italia e con gli scrittori italiani), tende ad aggiornare le proprie mire (il romanzo intendiamo), servendosi della leva che tra mito religioso e deduzioni scientifiche, gioca la parte del divertimento e della sorpresa con assoluta originalità di rilettura del mito stesso. Nonché a non cercare lontano ma a scavare vicino.
La storia della letteratura italiana non potrà che registrare questo segnale epocale, che intanto proviene da un “addetto ai lavori” in materia di ricerche scientifiche sul subliminale. Un “addetto” Anile, che in un momento del proprio relax ha voluto raccontare una sua prodigiosa storia dell’umanità per suo diletto e per divertimento dei lettori che sceglieranno tra il giallo poliziesco della moda effimera imposta dalle persuasioni occulte e quello che scommette con occhio, sapere e scrittura innaffiati di scienza moderna il “poliziesco” di chi indaga sul subliminale umano senza escludere quanto circonda di visibile e invisibile l’umanità stessa, un teorema a sfondo romanzesco che ci invita non tanto a stimolare conoscenza di cosa possa essere accaduto lungo il percorso che parte dalla vita microbica per arrivare alla coscienza, quanto e intanto a prendere atto proprio di quanto la coscienza abbia continuato a giocare a rimpiattino con sé stessa stando a cavallo e cercando, appunto, il cavallo su cui si trova in groppa e viaggia con Adamo ed Eva dall’Eden verso il futuro. Un futuro beffardo che sposta sempre in avanti il proprio traguardo che sarà meta, ma di volta in volta provvisoria.
ANNA MARIA SQUADRITO ARTISTA DEL SURRALE RESO IN FORMA REALISTICA
Ci siamo occupati più volte dell’artista Annamaria Squadrito disegnatrice e pittrice catanese, che dal un suo angolo di lavoro continua a produrre opere di complessa e gradevole originalità tematica. Questa volta però ci troviamo a commentare un altro tipo d’impegno di questa nostra operosa e geniale amica, quello della ritrattistica inventiva per un singolare caso di interpretare un’atmosfera umana, e descriverne l’essenza tra i percorsi della linea, i colori e persino le pieghe di un abito o la foggia di una pettinatura o di un copricapo o comunque della simbologia nell’uso inventivo delle colorazioni e delle stesse linee. Ci si consentirà di applaudire a queste doti di artista del figurativo e di evidenziarne il valore. Una evidenziazione che attinge al vivere e operare appartato della Squadrito e di non essersi legata a correnti o associazioni di categoria. Quasi la consapevolezza di come ogni manifestazione di arte scaturisca più dalla solitudine che dalla appartenenza a questa o quella corrente o gruppo costituito.
L’occasione che ci fa scrivere questa nota proviene dalla magica rappresentazione che la Squadrito ha realizzato per un libro di Annamaria Celi “La mia vita come missione” (Ed. Prova d’Autore, 2019). I contenuti svolti della scrittrice in forma strettamente autobiografica, come annuncia il titolo, si soffermano, a un certo momento, sulla descrizione di una visione mistico-religiosa-sacra che l’Autrice narra di aver vissuto realmente con altrettanti protagonisti, mentre era intenta a collocare serti di fiori freschi sulla tomba del proprio marito, nel cimitero di Catania. Orbene l’arte della Squadrito ha fissato in una rappresentazione realistica il racconto visionario della Celi creandone un resoconto che interpreta l’episodio fino ricrearne i particolari emblematici in un gioco luminoso che accoglie i protagonisti della visione della Celi fino a farne una rappresentazione scenica che dribbla la virtualità della creatività fino a dare al fruitore del quadro la sensazione netta di una resa da scatto fotografico nel quale c’è la testimonianza non più artistica ma tecnica dell’episodio a suo tempo vissuto dalla Celi. Né, come si accennava all’inizio, è solo il tocco magico del raffigurare volti abiti e gestualità ma è proprio l’insieme della colorazione suggestiva a dar corpo a una atmosfera surreale che pone a proprio significato il reale. Un ennesimo nostro augurio ad Annamaria Squadrito, questa volta da condividere lei con Annamaria Celi, nel nome della “spiritualità” dell’arte quando incontra il soggetto che fa empatizzare l’artista al momento di dare volto e gestualità alla resa visionaria.
Mario Grasso