L’amicizia tra Nino Martoglio e Luigi Pirandello per quello che ci giunge a testimonianza dalle opere realizzate a quattro mani e dal loro carteggio affonda sicuramente le sue radici nella loro comunanza di attenzione e interesse per la terra di Sicilia, di cui ci regalano un ritratto storico, quello di un tempo che va raccontato e di cui bisogna farsi cultori e divulgatori.
Le pagine letterarie di Pirandello e Martoglio rappresentano una Sicilia divertente e drammatica, intrigante e popolare, il cui tratto più significativo e più precipuo è un certo fatalismo e una certa ciclicità, quasi da girone dantesco volto ad esasperare tutti i tratti caratteriali della loro Terra, non solo quelli folclorici, ma anche e soprattutto quelli linguistici. Lavorando su un dialetto inquietante e disperato che, come i personaggi delle loro opere teatrali, sembra voler affermare la propria indipendenza ed autonomia dal reale dialetto siciliano.
Un dialetto che in ‘ A Vilanza sembra tentare la scalata alla lingua italiana e non si rassegna alla classificazione di dialetti, quasi volesse divenire altro da sé.
Ma, il linguaggio dei siciliani, quello conosciuto e condiviso dai due artisti, si esprime anche senza che sia necessario l’uso della parola poiché da spazio a quello mimico- gestuale e a quello degli occhi.
Soprattutto quest’ultimo è indecifrabile all’estraneo, perché presuppone, tra chi si guarda, una conoscenza reciproca profonda, un’assoluta comunanza di pensieri.
Quella comunanza da cui non si può prescindere se si vuole comprendere l’amicizia fraterna che legava Martoglio e Pirandello.
Un’amicizia che, stando a quanto si legge nel loro carteggio, s’interrompe bruscamente perché Martoglio, secondo Pirandello, avrebbe detto una parola, una sola, quella che non doveva dire.
Sembra incredibile poter ricondurre la rottura di un’amicizia ad una parola di troppo, a qualcosa che non si doveva dire.
Eppure, spesso l’amicizia esige un prezioso silenzio, quel silenzio che è probabilmente una caratteristica dei Siciliani, per dirla con lo scrittore agrigentino Andrea Camilleri: è forse un culto[1], “il culto del silenzio”, con la precisazione che non ci si riferisce all’omertà, ma all’opportunità di aprire bocca solo per necessità, proprio quando non se ne può fare a meno.
Poiché i silenzi in fondo non sono altro che parole, ma parole senza suono, quello che a volte disturba e distrae.
Il silenzio, in verità, sembra contrastare con l’indole esuberante e teatrale dei siciliani, eppure mi trovo a condividere il pensiero dello scrittore appena citato quando afferma che i siciliani amano il silenzio del mare, amano il silenzio della campagna, amano il silenzio che in certe ore riesce persino ad averla vinta sui rumori delle città. Amano i rumori che da quel silenzio vengono come incastonati.
Allora mi chiedo come sia stato possibile che quell’amicizia profonda si sia potuta dissolvere in quel silenzio interrotto da una parola che non si doveva dire.
Ciò non dovrebbe sorprendermi, poiché noi siciliani lo sappiamo bene, a volte è meglio non parlare perché “a lingua unn’avi ossa ma rumpi l’ossa” [2]. Vuole dire che, in alcune occasioni, ciò che si dice è in grado di fare male più di qualsiasi altra cosa, incluso il male fisico.
Ebbene, una “semplice” parola, a volte, può rompere quei delicati equilibri su cui si regge un rapporto interpersonale, un’amicizia, anche la più consolidata.
Quell’equilibrio tra comicità martogliana e drammaticità prandelliana, quella tela intrecciata tra la dimensione della commedia e quella della tragedia, che hanno rivoluzionato la storia del teatro isolano e non solo, a distanza di oltre un secolo, aggi appaiono ancor più straordinari e incomprensibili.
Con un tono volutamente provocatorio mi interrogo su quel continuo sperimentalismo che conduce gli autori ad immedesimarsi nei loro personaggi e mi chiedo se anche questo possa aver contribuito a decretare la fine di quell’amicizia, apparentemente eterna e indissolubile.
Sul palcoscenico lo sappiamo si esagera, si esasperano le esistenze e si rischia di rimanere intrappolati in quegli alter ego creati per rappresentare realtà scomode, fastidiose e complicate.
“Persone si muore”, dirà Pirandello, ma “personaggi si vive sul palcoscenico” e personaggi si vive per sempre.
La vita dei personaggi non è affatto semplice da condurre perché a volte sono loro a imporci le regole da seguire, le maschere da indossare, a volte troppo scomode ed ingombranti.
Ebbene, la vita, quella reale, purtroppo esige anche approcci pragmatici, economici. Ed ecco che entra in scena anche il “vil “danaro, terzo incomodo personaggio di quella tragica commedia di cui ogni essere vivente è protagonista.
“E’ il 27 maggio 1913 “Mio caro Nino, avrei bisogno di almeno cinquecento lire”. Il mittente è Luigi Pirandello.
Da nove anni il regista catanese (nato a Belpasso nel 1870) si è trasferito a Roma, dove è diventato direttore artistico della Cines, la Casa cinematografica più importante d’Italia. Il drammaturgo agrigentino ha problemi molto seri dal punto di vista economico e si rivolge al “grande amico” affinché interceda presso i produttori cinematografici della Capitale per ottenere quei soldi, in cambio scrive “della mia intenzione di proporti alcuni temi di cinematografia, minutamente composte e sceneggiate”
Il danaro si insinua e semina zizzania tra i due amici; poi giunge anche la polemica sui diritti d’autore!
La polemica era stata forte e aveva coinvolto la Società degli autori. Riguardava la questione dei diritti. Martoglio e Pirandello sostenevano che la percentuale da corrispondere all’autore dovesse aumentare, e di conseguenza dovesse diminuire quella degli attori: il successo di un’opera, dicevano, dipende dal testo. Gli attori rispondevano: no, dipende dalla recitazione”.
Ma, la morte improvvisa e ancora dubbia di Martoglio mette a tacere ogni conflitto, lasciando spazio a quel silenzio eloquente e risolutivo che induce Pirandello, forse per estrema stima dell’amico, ad allontanarsi dal teatro dialettale che li aveva visti complici e protagonisti della grande scena teatrale siciliana e italiana.
Lo stesso Pirandello scrive in un articolo apparso sul Messaggero il giorno dopo la morte di Martoglio: ‘Tutti sanno che commediografo, che poeta, che giornalista, che cineasta è stato. Ma quello che non si sa è che Martoglio è il vero, l’unico creatore del teatro siciliano. E quante sofferenze e amarezze per questo teatro siciliano che vive per lui e di lui”.
Così la voce dell’amico, con nota polemica e sofferta, infrange il silenzio e rivendica giustizia!
Pavia, 5 marzo 2021
Fabiola Marsana
[1] http://www.vigata.org/bibliografia/silenzisicilia.shtml
[2] La lingua non ha ossa ma rompe le ossa