Al momento stai visualizzando Le contraddizioni di Sciascia

tratto da una conferenza tenutasi a Partinico il 2 ottobre con BCsicilia

La mia generazione pensa ancora Leonardo Sciascia come l’autore de’ Il giorno della civetta, che pure ha rappresentato un tassello importante della sua carriera, anche per la risonanza mediatica ottenuta, …ma, nel tempo, chi lo ha voluto conoscere, ha anche scoperto che il miglior Sciascia è in opere come Il consiglio d’Egitto o nella produzione saggistica e giornalistica.

Qualcuno lo considera il maestro del giallo italiano, qualcun altro non lo include nemmeno nelle antologie di letteratura italiana, come la critica e intellettuale Maria Corti che non riteneva che il genere giallo fosse Letteratura.

SCIASCIA E IL DIALOGO

Tuttavia, alla luce dell’opera omnia di Sciascia e a mezzo secolo di distanza, non gli può essere negato il titolo di moralista, sebbene lui criticasse il moralismo e tuttavia la forte critica sociale e politica dei suoi lavori è già un indirizzo stilistico ed esistenziale. Dunque forse il più grande moralista del ‘900, e al contempo maestro di scrittura. Mi è capitato di recente di chiamarlo in causa scrivendo di Giuseppe Pontiggia, il quale, nel corso di una delle sue lezioni di scrittura, diceva:

«il dialogo è tanto più efficace quanto più non ha bisogno di sottolineature didascaliche, (…) chiose psicologiche (…). Un dialogo felice è un dialogo in cui le battute hanno come incorporato il tono[1]».

Pontiggia, che si rifaceva a un repertorio letterario internazionale, citava l’esempio di Hemingway, particolarmente abile in questo campo. Io ho voluto aggiungere il nome di Sciascia, che potremmo definire “sceneggiatore”. Leggendo i suoi romanzi riesce a comunicare con poche parole una molteplicità di sfumature e riesce a rappresentare una scena in forma visiva, creandola quasi fisicamente sotto gli occhi del lettore. Non ci sorprende allora che fosse appassionato di arte né i frequenti riferimenti all’arte, specialmente alla pittura, in gran parte dei suoi libri, anche solo sotto forma di metafore. Per esempio in A ciascuno il suo paragona il coefficiente di impunità o di errore, nella risoluzione di un caso poliziesco, alla difficoltà di attribuzione della paternità di un quadro. In Todo modo il protagonista è un pittore e la riflessione teologica ha come cardine un dipinto.

SCIASCIA E LA RISOLUZIONE DI UN GIALLO

E poi c’è il tema dell’originalità del giallo poliziesco che, se non è invenzione di Sciascia, che da buon lettore conosceva Durrenmatt, è però, nella variante dello scrittore di Racalmuto, un tassello inedito nel panorama italiano e tutt’oggi di irripetibile esperienza. Pensiamo ai gialli usa-e-getta che ci vengono proposti dall’industria culturale contemporanea. Sembra che l’unico obiettivo di volta in volta sia la risoluzione di un problema matematico, come un logaritmo, dopo il quale si passa al successivo. La prova che l’intento di Sciascia fosse tutt’altro la troviamo nell’assenza del finale in Todo modo, conclusione che avrà lasciato insoddisfatti alcuni di noi. Da esseri umani, abbiamo bisogno di un finale, la nostra mente ha bisogno di inserire i significati in uno schema narrativo armonioso e l’armonia, secondo la psicologia della Gestalt, è data da una serie di fattori tra cui la legge della chiusura della figura: noi percepiamo la figura, distinguendola da uno sfondo, solo se le sue linee vanno a chiudere o accennano a farlo. Diversamente, si genera una disarmonia che dà fastidio al nostro cervello. Le storie in sospeso ci danno fastidio. Salvo mettere in campo il nostro pensiero creativo, la nostra immaginazione, intervenire come lettori attivi in un’indagine che è anche la nostra. Ma abbiamo tutti voglia di farlo? La mancanza di un finale ci costringe ad affrontare un problema in prima persona e dunque a confrontarci col dubbio, con l’incertezza.

È vero che in Todo modo Sciascia, che aveva letto anche La lettera rubata di Edgar Allan Poe, sostiene che la verità è sotto gli occhi di tutti ma proprio per questo nessuno la vede – ragione per cui la omette anche nella narrazione – ma è anche vero che Sciascia scrive per provocare. E non provocare gli uomini a cui si ispirano i suoi personaggi, ma il lettore che deve riflettere sui temi trattati. Così quel finale omesso si nasconde tra le pieghe degli indizi, nel chiaroscuro della capacità investigativa del lettore, che è attore ed educando, in una didattica per problem solving.

SCIASCIA E LA DONNA

Un altro argomento che non possiamo fare a meno di trattare e di cui non si parla quasi mai è quello della donna. Lo suggeriva già nel 1985 Gonzalo Álvarez García, in Le zie di Leonardo, quando scriveva che la donna nei libri di Sciascia era

«come se non esistesse. Il lettore non si accorge della sua presenza o della sua assenza. È lì per pura formalità, come un soprammobile letterario. Potrebbe benissimo non esserci.

Come è possibile scrivere dieci o quindici libri sulla Sicilia facendo finta che la donna non esista, salvo quando occorre piangere sui cadaveri dei morti ammazzati o quando bisogna fare le corna ai mariti? (…)

Sciascia sente verso la donna gli stessi sentimenti che nutre verso la Sicilia e verso il cattolicesimo. È insieme attratto e respinto, la ama e la disprezza allo stesso tempo. O la teme.» – che poi è, per inciso, la stessa accusa che fu mossa a Sigmund Freud – «Pensa, come la maggior parte dei maschi siciliani, che se un uomo va a letto con una donna che non è sua moglie non fa altro che fare i fatti suoi, ma se una donna va a letto con un uomo che non è suo marito non può essere che una puttana.

Questo non gli viene da Voltaire, ma dalle sue zie che rimangono nascoste tra le pieghe oscuramente cattoliche del suo animo complesso.

La Sicilia per Sciascia è come una donna».[2]

Fa sorridere che queste parole le abbia scritte un prete spogliato del secolo scorso. E verrebbe il sospetto che l’Autore parlasse da una prospettiva di amico abbandonato (stando alla storia dei due), se non soppesassimo le altrettante parole di elogio.

D’altra parte, rileggendo i romanzi, emerge spesso una donna personaggio di second’ordine, che, lì dove non è insignificante, ignorante e marginale, è oggetto del piacere o adescatrice, calcolatrice, traditrice. Anche quando è innocente, è comunque colpevole agli occhi della società – un po’ come quando si suole dire a una vittima di abuso o di essere bugiarda o di essersela cercata – senza che questo però venga raccontato sotto forma di denuncia. È solo un fatto di contorno. Non c’è posto per la donna nelle storie messe in scena da Sciascia, non c’è fiducia nel suo intervento positivo.

D’altra parte, invece, citiamo una testimonianza di tutt’altro orientamento, quella di Laura Rizzo che racconta le sue letture sciasciane giovanili, nella monografia dedicata allo scrittore pubblicata due anni fa da Prova d’Autore, Altro su Sciascia. Ebbene, Sciascia scriveva sull’Espresso di allora che la donna siciliana era “comandiera”, incline a comandare in casa, dunque non subalterna ma autorità. Quella lettura è rimasta così impressa in Laura bambina da farle maturare in età adulta il progetto di un’inchiesta sulle donne siciliane che stavano lasciando il segno nella nostra società, confluita nel volume Che donna la Sicilia[3].

Questo per citare una delle molteplici contraddizioni di Leonardo Sciascia, lui stesso forse un mistero in parte irrisolto.

SCIASCIA E LA RELIGIONE

La contraddizione delle contraddizioni è sicuramente il rapporto con la religione. Pubblicamente un anticlericale irremovibile, ogni personalità ecclesiastica dei suoi romanzi è raccontata con toni impietosi. I suoi preti sono impostori, machiavellici, collusi col potere politico e mafioso. I suoi ritratti compiono un affondo in un tessuto sociale corrotto, quello stesso che faceva cantare a Rosa Balistreri, su testo di Ignazio Buttita, «La mafia e li parrini si déttiru la manu, poviru cittadinu, poviru paisanu».

Un anticlericalismo giustificato dalle stesse ragioni che muovevano Nino Martoglio nelle sue invettive contro i gesuiti, molto presenti allora nel sistema scolastico-educativo, quando nel 1895 sul “d’Artagnan” scriveva: «ammettono una morale elastica: quando c’è la fede si può fare a meno di giudicare le opere; quando la intenzione manca, il peccato è assolto; per il bene ed il trionfo della religione si può commettere un delitto, anche il regicidio; il fine giustifica i mezzi[4]».

L’accusa di Sciascia è dunque contro quella parte del clero che pensa e agisce tradendo il messaggio cristiano. Di questo argomento mi sono già occupata due anni fa, partecipando anche io alla monografia Altro su Sciascia, per la quale scelsi di approfondire la commedia Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D., un inno alla laicità dello Stato, nonché alla libertà della Chiesa da faccende che ne corrompono la missione cristiana. Verso la conclusione, troviamo parole di speranza per bocca di un personaggio, che dice:

«Abbiamo tentato di inventare il cristianesimo in un paese che è cristiano solo di nome; e abbiamo dato alla vuota maestà del diritto un contenuto di umanità, di giustizia…»[5].

Inoltre, in “Una rosa per Matteo Lo Vecchio” (in La corda pazza), Sciascia precisa che, per come la vede lui, le parti in causa in quella disputa erano un clero che credeva in Dio propugnando al contempo il diritto dello Stato contro la temporalità della Chiesa, da un lato, e un clero sostanzialmente ateo, avido di benefici, intento a inventare e avallare prodigi e superstizioni, dall’altro[6].

Dunque, vi sono preti e preti.

Ma non è questo esercizio di pensiero critico che crea la contraddizione con lo Sciascia anticlericale, bensì lo Sciascia reduce da un’educazione rigidamente cattolica, che in età adulta conserva dentro di sé tracce di quell’imprinting. È il Leonardo che frequentava il catechismo e aveva madre e zie ferventi cattoliche. Il già citato ex-amico ex-prete Gonzalo Álvarez García, nel ricordarlo, scrive:

«Quando Leonardo s’accorse che quell’educazione non gli andava bene, era troppo tardi. Il catechismo dell’infanzia gli è rimasto attaccato al midollo delle ossa e nemmeno Voltaire è stato capace di estirparglielo.

Da quando Sciascia si allontanò dalla pratica religiosa, la principale occupazione delle sue zie è stata quella di pregare la Madonna per la sua conversione.

Quando sono andato a Racalmuto la prima volta, vedendo che un prete entrava nella casa di Nanà (in famiglia lo chiamavano sempre Nanà), mangiava alla sua tavola e dormiva sotto il suo tetto, sembrò alle zie di toccare con mano il miracolo. Credevano che il ritorno del loro nipote all’ovile, dopo tante preghiere, fosse cosa fatta.

Invece andò a finire diversamente. Non solo Sciascia non si è convertito, ma l’amico prete si è spretato.

(…) Erano ingiuste. Leonardo ebbe sempre grandissimo rispetto delle mie convinzioni. Evitò sempre di fare o di dire cose che potessero mettere in crisi la mia coscienza. (…)».

Ma, per comprendere ancora meglio quanto annidati in lui fossero i principi impartiti nell’infanzia e rinnegati probabilmente senza una piena integrazione critica, bisogna procedere nella lettura di questa testimonianza, sino alle conseguenze della rinuncia ai voti da parte dell’amico.

«Avrebbe preferito ch’io non mi spretassi. Desiderava l’amicizia di un prete, non di uno spretato.

C’era in fondo nella sua amicizia qualcosa di ambiguo che non sono mai riuscito a capire del tutto. Lo percepivo vagamente allora e me ne resi conto solo più tardi. Quando scomparve da me il prete, l’amicizia si spense.».

E ancora (sua ipotesi personale):

«A volte mi viene da pensare che in qualche anfratto della sua anima Sciascia nasconda il desiderio di essere prete. La sua coscienza non ha formulato mai questo desiderio, ma il suo inconscio sì. I preti dei suoi romanzi sono disegnati con un tale trasporto che è difficile evitare il sospetto che essi costituiscano il tipo umano che Sciascia vorrebbe essere.»

Arriva a paragonare Sciascia al prete di Candido, in perenne trasformazione perché perennemente scontento di se stesso e della realtà. Ma noi lettori pensiamo anche al don Gaetano di Todo modo, al parroco di sant’Anna e all’arciprete di A ciascuno il suo. Sono personaggi complessi, estranei a una logica manicheistica ma inseriti in una riflessione critica che diventa l’autocritica di Sciascia. Espressione dirompente di una parte di se stesso ritenuta inconciliabile con i suoi ideali illuministi e razionalisti. Fa dire a don Gaetano, rivolto al pittore alias di Sciascia:

«Ho l’impressione che lei ci creda più di me (…). E del resto credo che il laicismo, quello per cui vi dite laici, non sia che il rovescio di un eccesso di rispetto per la Chiesa, per noi preti. Applicate alla Chiesa, a noi, una specie di aspirazione perfezionistica: ma standone comodamente fuori. Noi non possiamo rispondervi che invitandovi a venir dentro e a provare, con noi, ad essere imperfetti[7]».

Un’imperfezione che diviene però giustificazione del peccato, per usare una parola cara alla religione cristiana, sino al delitto. Don Gaetano sostiene che la vera essenza è che tutto all’uomo è permesso, perché Dio ama e assolve, nella stessa misura in cui parroco e arciprete in A ciascuno il suo usano le parole di Cristo per legittimare la propria condotta anticristiana.

Esemplificativi dell’ipocrisia denunciata sono i titoli dei romanzi che ho citato. Todo modo è abbreviazione del motto di Sant’Ignazio di Loyola: “Todo modo para buscar la voluntad divina” (Ogni mezzo per cercare la volontà divina). Quel machiavellismo dell’ordine dei Gesuiti.

A ciascuno il suo traduce dal latino Unicuique suum, uno dei motti del quotidiano vaticano “L’osservatore romano”. Cos’è? Una versione dotta del proverbio siciliano “Lu pesci di lu mari è distinatu a cu si l’a mangiari”? Espressione di una visione finalista e giustizialista, una rivendicazione di esclusività in qualche materia, un avviso di ineluttabilità? Si ricorda con raccapriccio che lo stesso motto, tradotto in tedesco con Jedem das Seine, sormonta l’ingresso al campo di concentramento e sterminio nazista di Buchenwald in Germania. Questo ci suggerisce la duplice faccia e dunque la pericolosità di certi messaggi. Proprio sul retro di una prima pagina dell’“Osservatore romano”, infatti, sono state incollati i caratteri della lettera minatoria indirizzata alla prima vittima del romanzo.

E che dire quando il potere ecclesiastico opera a braccetto col potere politico, a sua volta interlocutore di prim’ordine per il potere della criminalità organizzata? Accade che, alla fine, per dirla con le parole di un personaggio-prete di Sciascia, chi parla «è un cretino[8]». All’insegna dell’omertà, anche la realtà resta senza finale.

Giulia Letizia Sottile

[1]Giuseppe Pontiggia, Dentro la sera, Belleville, Milano, 2016.

[2] Gonzalo Álvarez García, Le zie di Leonardo, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1985.

[3] AA.VV., Altro su Sciascia, Prova d’Autore, Catania, 2019.

[4] Italo, I Gesuiti, IV, 38 (22-9-1895), cit. da Lia BannaVentorino, Il D’Artagnan di Nino Martoglio: un capitolo del giornalismo militante catanese (1889-1904), Niccolò Giannotta Editore, Catania, 1974, p.57.

[5] Leonardo Sciascia, Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D., Einaudi, Torino, 1969.

[6] Leonardo Sciascia, La corda pazza, Einaudi, Torino, 1970.

[7] Leonardo Sciascia, Todo modo, Einaudi, Torino, 1974.

[8] Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966.

Giulia Letizia Sottile

Giulia Sottile è nata e vive a Catania, dove ha compiuto gli studi e ha conseguito la maturità classica. Laureata in Psicologia e abilitata alla professione di psicologo, non ha mai abbandonato l’impegno in ambito letterario. Ha esordito nella narrativa nel 2013 con la silloge di racconti intitolata “Albero di mele” (ed. Prova d'Autore, con prefazione di Mario Grasso). Seguono il racconto in formato mini “Xocò-atl”, in omaggio al cioccolato di Modica; il saggio di psicologia “Il fallimento adottivo: cause, conseguenze, prevenzione” (2014); le poesie di “Per non scavalcare il cielo” (2016, con prefazione di Laura Rizzo); il romanzo “Es-Glasnost” (2017, con prefazione di Angelo Maugeri). Sue poesie sono state accolte in antologie nazionali tra cui “PanePoesia” (2015, New Press Edizioni, a cura di V. Guarracino e M. Molteni) e “Il fiore della poesia italiana. Tomo II – I contemporanei” (2016, edizioni puntoacapo, a cura di M. Ferrari, V. Guarracino, E. Spano), oltre che nell’iniziativa tutta siciliana di “POETI IN e DI SICILIA. Crestomazia di opere letterarie edite e inedite tra fine secolo e primi decenni del terzo millennio” (2018, ed. Prova d’Autore). Recentissimo il saggio a orientamento psicoanalitico intitolato “Sul confine: il personaggio e la poesia di Alda Merini” (2018). Ha partecipato a diverse opere collettanee di saggistica con contributi critici, tra cui “Su Pietro Barcellona, ovvero Riverberi del meno” (2015) e, di recente, “Altro su Sciascia” (2019). Dal 2014 ricopre la carica elettiva di presidente coordinatore del gruppo C.I.A.I. (Convergenze Intellettuali e Artistiche Italiane); dal 2015 è condirettore, con Mario Grasso, della rivista di rassegna letteraria on-line Lunarionuovo. Collabora con la pagina culturale del quotidiano La Sicilia.