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Ipotesi

Ci sono posizioni in poesia, non solo tra chi la scrive ma anche tra chi la legge: la poesia dovrebbe riuscire a esprimere la voce di un vasto gruppo; dovrebbe scavalcare il soggetto, impegnarsi a superare il frammentismo, se non addirittura il crepuscolarismo di una parte del Novecento. Ritornare ad essere la lingua che fu nelle origini, in grado di smuovere, di cambiare, addirittura, il mondo che ci circonda. Sporcarsi le mani, come si suol dire, attingere al contemporaneo, farsi musa delle contraddizioni del contemporaneo.

Oppure: andrebbe mantenuta una funzione dall’alto, in modo da congiungere mondi lontani e separare mondi vicini; sentire nella voce di un antico cantore un fratello vicino; sentire la voce universale del tempo e del destino che parla a tutti, onesti e disonesti, anime pie e anime nere; ora, come duemila anni fa.

E ancora: la poesia sarebbe qualcosa che deve ancora venire e che quindi è forma di se stessa: supporto, sagoma, sogno che non comunica, o comunica per segni astratti e che comunicherà, un giorno. Astratta il più possibile; oltre; in attesa di lettori che intanto, ora, sono visori, perché il canto neanche è possibile sentirlo. Questa poesia, ora, se c’è, si vede ma non si capisce. Come vedevamo noi, un secolo fa, gli antichi geroglifici senza capirne il significato, contemplando la bellezza della forma, nell’attesa che qualcosa un giorno, si svelasse.

Certo, ho estremizzato posizioni che non sempre sono totalmente disgiunte ma che possono prevalere l’una sull’altra, in varia misura. Oggi, forse più che mai, la poesia è scenario di lotte più o meno dichiarate perché la sua voce è una voce che rischia l’estinzione, che si appresta al grande sonno, malgrado tutti gli sforzi.

Oggi i poeti sono creature fragili, spesso vittime della loro stessa lingua, della loro stessa resistenza a sopravvivere. I poeti più sensibili lo sanno e non si trincerano dietro le certezze della lingua; dietro i grandi sermoni dei vati. Sanno che non si può essere puri; che quando si scrive, forza e concentrazione chiedono un luogo, convocano il presente e, nello stesso tempo, tutto il tempo.

La poesia, per me, rimane un pensiero del cuore. Comunicare è ancora un gesto che può essere fatto e avere senso a contatto con una comunità, altrimenti la scrittura si fa pittura. Al limite, la scrittura si può sporgere pericolosamente mostrando il suo scheletro, le sue spigolature; tutto questo va mostrato come gesto, come rischio dell’estinzione o dono di una sofferta visione inconciliata. Non come atto di forza, grido, affronto, ingiuria.

Qualche regola

Il poeta che scrive dovrebbe attenersi ad alcune regole etiche fondamentali: una specie di tavola dei comandamenti che acquista maggior valore in un tempo in cui internet favorisce lo schizzo rapido, lo sfogo giornaliero, l’agognata pubblicazione a costo zero e addirittura un pubblico di affezionati. Io, per quanto mi riguarda, cerco di attenermi a questi principi:

Leggere e scrivere quando necessità comanda;

Ricopiare infinite volte un verso, un testo. A mano. Non renderlo immediatamente pubblico;

Far leggere in bozza quando qualcosa non ci convince. Discutere, prima di giungere a una decisione finale, con persone che si stimano;

Pubblicare, situazione permettendo, anticipi di libro in spazi protetti;

Non pubblicare un libro prima di due anni;

Non accontentarsi di un giudizio estetico frettoloso o fittizio, ma, anzi, dubitare sempre del complimento;

Non elemosinare una recensione, una presentazione, una lettura pubblica ma far scaturire gli inviti, se scaturiranno, da una reale convinzione dell’organizzatore, dell’operatore culturale. Nel caso, evitare di protestare;

Non pretendere che tutti ci capiscano e abbiano stima di noi come persone e della nostra opera;

Dare stima piuttosto che chiederla; ciò che ci verrà in cambio sarà il frutto di una relazione vera e ci renderà più forti;

Leggere e recensire con la massima libertà possibile, attenendosi a un livello medio di qualità, rispettando una poetica, anche in fieri, ma che mostri possibilità, riflessione, futuro;

Non recensire aspettandosi recensioni in cambio;

Farsi stimolare dalle scoperte, dalle giovani scritture, dal confronto amicale e dalla sensibilità.

Dire sempre grazie.

 Sul post moderno

In Italia si pratica ancora una poesia che ha forti riferimenti alla tradizione delle forme e delle poetiche. Tutti questi modi sono preceduti dal prefisso “neo”, ad indicare le appartenenze; tutte, probabilmente, vanno collocate nel grande calderone del postmoderno che le legittimizza e le fa convivere.

Ogni poeta, oggi, può dirsi poeta non valutabile per la qualità della sua scrittura ma semplicemente perché è più o meno abile a manipolare le forme e le retoriche.

Se tutte le forme sono ammesse e se al critico è dato il compito di testimoniare queste scritture – il giudizio spetta ai posteri, e per ri/conoscenza – oggi, chi legge, si trova a dover fare due considerazioni inevitabili: il livello tecnico medio si è alzato, proprio perché abbiamo a disposizione tutti gli stili, li sappiamo riconoscere, sappiamo come funzionano, li possiamo riprodurre; così chi legge, opera, volendo o non volendo, una scelta di campo perché egli stesso è già iscritto dentro uno stile.

La lettura rimane dunque, per sua natura, un atto discriminatorio ma la scrittura lo è ancora di più. Una volta che si è formato uno stile, partendo, sia chiaro, dalla bottega imprescindibile della formazione, questo si ritrova a fare i conti con una sorta di negazione di se stesso, con un‘epurazione. È poeta, forse, chi, dopo la fase di rappresentazione delle proprie ossessioni, capisce che deve bruciarsi, non più attaccato alla parola ma consumato, distanziato. Consunto in una sorta di ascetismo etico più che estetico, che consideri la pochezza di tutte le cose che si affacciano nel teatro del mondo. Noi leggiamo una poesia transeunte che i posteri, forse, non leggeranno più perché non più necessaria. La parola è l’ultima foglia autunnale ancora attaccata al ramo che resiste alle intemperie e quando si sarà staccata contemplandola nel suo essere stata, noi vedremo finalmente noi stessi.

Forse la poesia va lasciata sola, fertile per chi la vorrà veramente ascoltare.

Sebastiano Aglieco