L’adolescenza, che è crisi dell’identità, caos di emozioni sanguigne, fame di esistere nell’hic et nunc senza sapere niente del destino, per il rammemorante Luigi Fontanella non è ‘il tempo perduto’ bensì quello, inobliato, dell’innocente gioia di vivere: della pura esistenza da lui declinata nella fluida trama di versi narrativo-riflessivi, concepiti come un sistema di analogie e votati a disadorna chiarezza e immediata leggibilità, di L’adolescenza e la notte (Firenze, Passigli, 2015, pp. 90, € 12,50), opera dalla pressoché unitaria complessione poematica.
Non vuole, il poeta, dimidiarsi; né si rassegna a veder svanire la ridda di turbamenti di un’età mitica di cui vuol continuare ad essere commosso visitatore: “[…] mi commuovo / per un nonnulla, l’adolescenza è assoluta ed eterna”. Essa, indefinita sospensione tra le irrequietezze dell’infanzia e i pragmatismi dell’adultità, relitto d’un tempo che, fuggito rapido, permane simile a un assillo, “è l’unica cosa che resta” a chi, agitato dalla stessa parola “adolescenza”, ne trattiene, con l’amoroso suono, il sangue violento e dolce che vi fluisce.
Lui, percependosi privo di vere appartenenze, perplesso solipsista che, a un tratto, si sentirebbe di non essere “mai entrato nella vita”, ora evoca l’odore domestico di una stanza (“La stanza è bianchissima… / non so quale della mia vecchia casa”), certe domeniche in provincia “lente e lunghe”, lo splendore del sole fastoso del Sud, un pallone da calcio che “gira impazzito”, un cortile fatto “campo di battaglia”, una compagna di scuola che “saliva le scale danzando” con al seguito ragazzi che più tardi, trascorrendo nell’età, “non sapranno più riconoscersi”.
Finita l’adolescenza, perduto regno della luce, ecco, tra erranze, implacati viaggi anche intercontinentali e intrecci d’incontri, l’irruzione della notte, barbara epifania prima invocata (“Morte Notte, cancella ogni rumore / e dalla mente ogni dolore”) e subito blandita: “Notte catabasi, / Notte, / vieni, / rovinami addosso. / […] / Sorella Notte, / Madre Notte: / Notte mente e niente / di tutti i miei pensieri”. Notte simile, forse, alla notte sorella e madre di Baudelaire che scrive alla tenue luce d’un paralume nero, la notte in cui Maupassant vede nella lampada rossa che lo illumina il colore della follia, o la notte di reverberi nebbiosi dei Rimbaud, Dostoevskij, Oscar Wilde… Notte “che assorbe tutto, che custodisce / o rinnova il silenzio […]” e addita un infinito fuggente come un metafisico treno dechirichiano dove – scrive l’autore, anche studioso del Surrealismo italiano – sfilano volti, nomi, maschere, e “appaiono tutti quelli che ho amato”, “spettri dei corpi che fummo / […] / creature appiattite / su cui, a tratti, scivolano / fasci di luce balenanti”; con “fumi e nebbie” da cui, uscito dal racconto Settimana di sole di Landolfi, occhieggia “bianco in viso, elegantemente vestito / nero il suo cappello” un inquietante Dissipatore, dandy dedito a ogni gioco a perdere e fratello delle Parche roditrici del filo della vita.
Permane, riflessa nello specchio buio della notte annunciata da un tramonto autunnale, la sembianza del poeta evocante l’intatto sorriso del ragazzo che è stato, fin troppo convinto di dovere “sbrigarsi a crescere”.
Adesso, invece, anelando a un ‘eterno ritorno’, al pari dell’Angelo di Klee e Benjamin, egli non cessa di volgere lo sguardo verso il passato e alla sua mai smaterializzata adolescenza; mentre la tempesta della vita (e della Storia) lo spinge verso un futuro che lo concilia con la notte. Allora l’Angelo simbolo della benjaminiana filosofia della Storia identificherebbe, nelle umbratili strofe di Fontanella che sembrerebbe voler riaprire la stagione di un verso tutto ‘comunicativo’, anche un Angelo redentore della poesia.