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La fortuna critica dei Mimi siciliani di Francesco Lanza è stata quella di un’opera di cui tutti vogliono conoscere la ricetta.
Tutti i riferimenti a generi letterari supposément presi a riferimento dall’autore, nelle pagine dei critici che si sono cimentati nell’esercizio, ubbidiscono a questa ricerca: della ricetta per la realizzazione di un’opera che non è classica, sebbene nel titolo evochi un modello classico (quello dei Mimiambi di Eroda), che non è verista, sebbene impasti a piene mani la materia verista (quella di Capuana forse più che quella di Verga), non è neppure rondista o espressionista o surrealista, né frammentista, seppure caratterizzata dall’impiego di una lingua, italiana, magari spesse volte insapidita da ingredienti dialettali, a livello di parola usata o anche soltanto di frase costruita, condensata in una scrittura, breve e raffinata, tendente al paradosso e all’irreale.
In questo panorama critico, nel quale ciascuno è stato soprattutto persuasivo nella dimostrazione di come l’opera non possa essere ridotta entro lo schema del genere letterario indicato da qualcun altro – di grande efficacia le parole di Leonardo Sciascia in merito al fatto che Lanza non è scrittore regionalistico, né i Mimi un’opera regionale, a meno che non si vogliano prender per tali le opere di Verga, di De Roberto, e di Pirandello, tanto per citarne alcuni -, in questo panorama critico, si diceva, forse Italo Calvino (nella sua introduzione del 1971 ai Mimi siciliani editi da Sellerio) è colui che più di tutti ha tentato di comprendere in positivo, senza schemi, né schermi, la ricetta dei Mimi di Lanza, e più vi si è avvicinato nel momento in cui ha suggerito, come chiave critica, quella della ‘mancanza’: la ‘mancanza’ come chiave del segreto per cui in non uno dei Mimi l’ironia dell’autore corre il rischio di rovesciarsi in riprovazione, in cui il sarcasmo, la parola anche sferzante, lo scherno, corrono il rischio di risuonare con un timbro di censura morale. Tutto questo è frutto – dice Calvino – della ‘mancanza’, la ‘mancanza’ intesa come meccanismo che fa girare la scena: la ‘mancanza’ di pudore o di valentìa sessuale, intorno alle quali girano i mimi a sfondo erotico sessuale, ad esempio, o la mancanza di fede certa intorno alla quale girano i mimi a sfondo religioso, o la mancanza di risorse materiali intorno alla quale girano i mimi che descrivono il resto del contesto vitale dei protagonisti. Mancanza di pudore, di valentia sessuale, di fede certa, di mezzi materiali, che non si offrono mai a essere prese per depravazione dei costumi o per morbosità, per vizio, per malattia, o per blasfemia, o per miseria.
Non sapremmo dire se veramente il segreto dei Mimi siciliani di Francesco Lanza stia nella ‘mancanza’ di cui parla Calvino.
Certo è però che, al lettore di oggi, le parole di Calvino su questa chiave critica della ‘mancanza’, in rapporto all’opera di Lanza, evocano immediatamente altra chiave critica, di Calvino ancora, seppure da Calvino espressa non in rapporto ai Mimi: la chiave della ‘leggerezza’; quella delle Lezioni americane, naturalmente, quella che non si pone, insegna Calvino, in opposizione alla pesantezza, così come la velocità non si oppone alla lentezza, la ‘leggerezza’ come scelta di scrittura.
Nella ricetta dei Mimi, se di ricetta si vuol continuare a parlare, se una ricetta si vuol continuare a cercare, la ‘leggerezza’ ha parte essenziale.
Più che la ‘mancanza’, la ‘leggerezza’ è ciò che fa stare in piedi, come opera originale e felice, la narrazione dei Mimi.
L’idea che viene fuori navigando tra le pagine dei Mimi – opera che si offre alla rilettura più che alla lettura, e a una rilettura non necessariamente lineare – è che tutta la loro scrittura nasca da quest’esercizio, per altro anche sommamente divertente, per l’autore ed effettualmente per il lettore, di prendere la materia verista e di farne oggetto di una raffinata, letterariamente raffinata, operazione di alleggerimento; di alleggerimento nel senso per cui, ad un certo punto delle Lezioni Americane, Calvino dice: “Nel momento in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro …”.

Controparte all’esercizio di alleggerimento di cui ho detto ha però, nei Mimi, l’ironia.
Ironia nella scelta dei personaggi, anzitutto, ma in questo, deve pur dirsi, Lanza ha già trovato buona parte del lavoro svolto nell’aneddotica popolare (il marito cornuto, ingenuo o compiacente, e il suo compare, sempre malfidato, la moglie credulona o distratta, o troppo attenta, e furba, il monaco crapulone, il ladro o il cacciatore inconcludente), fino alla scelta di chiamare i protagonisti attraverso il solo toponimico (l’aidonese, il prizzitano, il licodiano, il pietraperzese, il catanese, l’acitano, il nicosiano, il barrafranchese, e così via, fino al più lontano e anonimo calabrese, in un giuoco che ricorda quello per cui i Francesi dicono “alla fiorentina” il bacio che da noi si dice “alla francese”, un giuoco giocato sul filo del luogo comune, della, voluta, banalizzazione di tipi e comportamenti umani, non localizzabili, se non, appunto, che per giuoco – ma attenzione: questo non vale per il piazzese, riguardo al quale Lanza da Valguarnera si concede un piacere un po’ più privato e muove parole di autentico caropipano), e l’ironia anche nella scelta della scena da rappresentare o anche soltanto del modo di rappresentare una certa scena in una data prospettiva (quella che più fa giuoco all’operazione di alleggerimento di cui si è detto, al cambio di prospettiva di cui dice Calvino).
L’ironia di Lanza, questa forse sì, può dirsi “siciliana”, seppure nell’accezione per cui l’aggettivo “siciliano” trascende i confini della regione e allude, come dice Sciascia, a una forma d’arte. Un’ironia che nasce dall’intelligenza di una realtà immota e rassegnata (quella del mondo contadino siciliano, la stessa cui Lanza aveva, prima dei Mimi, offerto l’utopia di un Almanacco), e si diverte.
Se mai Lanza abbia avuto il dubbio di allogare o meno i suoi Mimi in Sicilia, a toglierlo dall’imbarazzo sarebbe bastato fargli notare la circostanza che, per quanto io sappia, è alla Sicilia che si deve il copyright dell’impiego del diminutivo nella descrizione di eventi luttuosi di grave e più o meno vasta portata.
Nei miei ricordi giovanili della Catania di qualche anno fa, quella in cui le cronache registravano quasi un morto ammazzato al giorno, è rimasto indelebile lo scambio di battute tra due automobilisti sul perché una certa strada fosse stata chiusa al traffico, con tutto quello che ne veniva – “Ci fu un’ammazzatina …”.
Proviamo a immaginare la scena: un uomo camminava per strada ed è stato affiancato da due motociclisti, che hanno aperto il fuoco su di lui, l’uomo ha fatto a tempo a estrarre anche lui un’arma e a colpire taluno dei sicari, alcuni dei protagonisti sono rimasti a terra, altri sono riusciti a fuggire; sono sopraggiunte le forze dell’ordine, hanno delimitato la scena del crimine, per i rilievi, le fotografie e tutto il resto; fuori del perimetro interdetto una cerchia di curiosi fa ressa, la strada viene infine chiusa al traffico.
In una strada vicina, un automobilista chiede a un altro:

Che fu?

L’altro, con due parole rassegnate gli significa che faranno tardi per cena:

Niente … un’ammazzatina vi fu

E’ una scena già pronta per diventare mimo (dei giorni nostri, si intende).
Lanza vi avrebbe aggiunto di suo l’indicazione toponimica:

Due catanesi tornavano a casa …”

E forse lo avrebbe chiuso allo stesso modo che ne Il Pizzo di Pollina o ne Il calabrese e il giudice :

“… e i due sono ancora là che parlano”.