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“Credo che il maggior merito di questo libro sia quello di anticipare le reazioni psicologiche che il recente sviluppo della fisica dovrà fatalmente produrre quando sarà generalmente compreso che la scienza ha cessato di essere una giustificazione per il volgare materialismo”

Ettore Majorana,
Lettera a Giovanni Gentile Jr. del 27 luglio 1934.

“Dice Montesquieu che ‘un’opera originale ne fa quasi sempre nascere cinque o seicento, queste servendosi della prima all’incirca come i geometri si servono delle loro formule’. Non so se il Candide sia servito da formula a cinque o seicento altri libri. Credo di no, purtroppo: chè ci saremmo annoiati di meno, su tanta letteratura. Comunque, che questo mio racconto sia il primo o il seicentesimo, di quella formula ho tentato di servirmi …”.

Leonardo Sciascia,
Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia.

 

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I

Appunta l’abate Francesco Ferrara (Trecastagni, 2 aprile 1767 – Catania, 12 febbraio 1850), nella sua Storia di Catania sino alla fine del Secolo XVIII (Catania, 1829), che dal 1759 sino al 1761 “si osservò … che in Catania sei persone si uccisero da loro stesse”. In rapporto alla popolazione di allora, al numero, o anche soltanto alla consuetudine, furono suicidi allarmanti, lo si deduce da come l’abate Ferrara li riferisce e ne tratta: e perché “negli stessi anni si osservarono molti pazzi, e fra essi un gran numero del ceto nobile”, e per il dubbio, dall’abate subito rovesciato sul lettore, che “il suicidio sarebbe un male contagioso” (poiché, soggiunge l’abate, “in qualunque maniera è cosa certa che per arrivare al suicidio bisogna passare per la follia che offusca qualunque altro pensiere e ogni dovere”). Par di capire, da quel che poi l’abate scrive a chiusura di questa parte del paragrafo più ampiamente dedicato alle fortune della città nel primo trentennio della seconda metà del secolo Settecento, che la progressione dei suicidi (se non quella delle follie) si sia arrestata con il sesto morto, ma non con esso il senso d’allarme destato dai suicidi: per questo l’abate Ferrara vuol rassicurare il lettore rievocando una antica storia di “influenza” di suicidi e il modo con cui vi si pose rimedio: “scrive Plutarco nelle Donne Illustri che a Mileto nella Caria venne nell’aria una tale influenza che tutte le fanciulle si uccidevano da loro stesse. Ne perirono molte. Una legge ordinò di esporre nudo nella piazza il corpo della suicida. La vergogna anche dopo la morte estinse il loro furore”.
Ora, un tale sentimento di vergogna, per l’esposizione del proprio corpo di suicida dopo la morte, non pare abbia toccato, giusto due secoli dopo i suicidi catanesi, il napoletano Renato Caccioppoli – il Grande Renato Caccioppoli, l’indimenticato matematico e accademico napoletano, morto, appunto, suicida l’8 maggio del 1959 – nel momento in cui, presa la decisione, egli pose fine alla propria esistenza tirandosi un semplice colpo di pistola alla tempia. E se non fosse che stiamo scrivendo di Ettore Majorana, con ancora in mente le parole scritte da Ettore Majorana contro le simmetrie artificiosamente imposte[1], verrebbe voglia di continuare a parlare di Caccioppoli in antitesi a Majorana (particella e antiparticella, con al lettore, ovviamente, la libertà di decidere chi sia l’una e chi sia l’altra), partendo da questa evidente constatazione: che, invece, il sentimento di vergogna per l’esposizione di sé dopo la propria scomparsa pare aver toccato Ettore Majorana. Ma, messa da canto la tentazione di imporre una simmetria tra le due figure di geni matematici precoci, di docenti impegnati contemporaneamente nello stesso ateneo (Majorana alla cattedra di Fisica teorica, Caccioppoli a quelle di Teoria dei gruppi e di Analisi superiore, e alcuni anni prima Majorana aveva scritto a Giovanni Gentile Jr.: “… quanto a me non faccio nulla di sensato, studio cioè la teoria dei gruppi con la ferma intenzione di impararla, simile in questo a quell’eroe di Dostoievski che un bel giorno cominciò a mettere da parte qualche spicciolo, con la persuasione di diventare presto ricco quanto Rothschild”), messa pure da canto la più semplice tentazione di scorrere la biografia dell’uno in parallelo con la biografia dell’altro (esercizio che, ad ogni buon conto, raccomandiamo al lettore di fare da sé), e prima di parlare di come Ettore Majorana abbia agito nell’imminenza della propria scomparsa, dobbiamo riportare, di Renato Caccioppoli, il seguente aneddoto.
Si è già nel secondo dopoguerra, un’aula affollatissima aspetta il Professore; Caccioppoli entra in scena, elegante e trasandato, si rivolge a uno studente e gli chiede:

Sei in cucina, devi cucinarti un paio di spaghetti. La pentola con l’acqua è sul tavolo da cucina. Il fornello è già acceso. Qual è la prima operazione che fai?”;
“Metto la pentola sul fornello
”, risponde lo studente;
“E se la pentola non si trova sul tavolo, ma sul piano della credenza?”;
“Fa lo stesso – risponde ancora lo studente – metto sempre la pentola sul fornello”;
“Non se sei un matematico – ribatte Caccioppoli – un matematico mette la pentola sul tavolo da cucina e si riporta al caso precedente!”.([2])

L’aneddoto dice di Caccioppoli, ma dice pure dei matematici, della forma mentis dei matematici, e serve a noi per dire di Majorana, della forma mentis di Majorana, che, da fisico teorico geniale, e geniale anche grazie alla grande abilità matematica, la stessa identica forma mentis dei matematici con i matematici evidentemente condivideva. Una forma mentis per cui anche l’azione di cucinarsi un paio di spaghetti può risolversi in una successione di operazioni e di casi, successivi, precedenti: figuriamoci, dunque, l’azione di far scomparire se stesso dal mondo.
Enrico Fermi, com’è noto, ebbe a dire che un uomo dell’intelligenza di Majorana, nel momento in cui avesse deciso di scomparire, certamente vi sarebbe riuscito. Ebbene, se abbiamo chiamato in causa le parole di Renato Caccioppoli in rapporto alla forma mentis di Ettore Majorana, non è per dar torto o ragione a Enrico Fermi (personalmente riteniamo che avesse torto), ma per un ordine di considerazione tutt’affatto diverso. Che Ettore Majorana avesse o meno l’intelligenza per riuscire a far perdere ogni traccia di sé è un discorso che non ci interessa (troppi anni sono passati dalla scomparsa, molte piste sono state esplorate[3], persino troppe sono le ipotesi intorno alla sua fine che appaiono in qualche modo fondate, una di queste è finanche avallata giudiziariamente[4]). Anche l’assunto, da cui muovono le parole di Fermi, che il far perdere le proprie tracce in modo efficiente costituisca una questione di intelligenza (nell’unica accezione di intelligenza che può ragionevolmente impiegarsi in rapporto a un uomo come Ettore Majorana, di pura intelligenza), piuttosto che di abilità pratica e scaltrezza (quelle che, tanto per dire, ci vogliono per procurarsi un passaporto falso[5]) o di sangue freddo (quello che, tanto ancora per dire, ci vuole per superare un controllo di frontiera) ci lascia alquanto dubbiosi.
No, l’aneddoto di Renato Caccioppoli, in rapporto alla forma mentis dei matematici, e, sillogisticamente, a quella di Ettore Majorana, ci serve per parlare d’altro, e ne abbiamo già fatto cenno poc’anzi: parlare di come Ettore Majorana abbia agito nell’imminenza della propria scomparsa.
Come stiamo per vedere, questo agire di cui parliamo è consistito essenzialmente nella scrittura di tre lettere e di due telegrammi, in una successione e concatenazione di eventi tali da poter far supporre, a certe condizioni, che essi (lettere e telegrammi) ubbidiscano a una determinata strategia. L’aneddoto di Caccioppoli ci serve dunque per parlare di questo, e solo di questo, vale a dire della successione e concatenazione di queste tre lettere e di questi due telegrammi, e della strategia che, a certe condizioni, si può celare dietro di essi. Nulla più di questo. D’altra parte, negli anni la scomparsa di Majorana è stata fatta oggetto di innumerevoli analisi e di svariate congetture, le stesse lettere di cui parliamo sono state a lungo lette e rilette, esaminate e riesaminate; l’esercizio che qui si suggerisce nulla vuole aggiungere a tutto questo.
Semmai esso corrisponde al tentativo opposto, quello di sottrarre, o, per meglio dire, di isolare la lettura delle ultime carte scritte da Majorana dal resto del contesto degli elementi che ne hanno caratterizzato la scomparsa (fatta salva, evidentemente, la scomparsa stessa). E di isolare la lettura di queste ultime carte a lume della constatazione che esse siano state scritte da una mente come quella che viene fuori dall’aneddoto di Renato Caccioppoli.
Si è detto ‘a certe condizioni’, poiché non è possibile escludere che, una volta tanto, le cose stiano come in effetti appaiono, vale a dire che la successione delle lettere e dei telegrammi sia semplicemente frutto di un ripensamento, e che, pertanto, dietro di esse non via sia alcuna strategia, alcuna premeditazione, alcun disegno, che, semplicemente, Majorana abbia preso la risoluzione di buttarsi in mare dalle murate del “postale” per Palermo e non vi sia riuscito (salvo poi a perdersi nel viaggio di ritorno per Napoli).

Ma, procediamo con ordine, e ricapitoliamo i fatti.
La sera del 25 marzo 1938, Ettore Majorana si imbarca sul “postale” che collega Napoli con Palermo. Lascia dietro di sé due lettere, scritte, stando alla data, lo stesso giorno.
La prima è per la famiglia, e con questa intestazione nella busta – “Alla mia famiglia” – verrà trovata alcuni giorni dopo presso la camera dell’Albergo Bologna, ove Majorana aveva dimorato negli ultimi tempi; la seconda è per il Professore Carrelli, il Direttore dell’Istituto di Fisica Sperimentale nel quale Majorana aveva prestato docenza, chiamatovi per “chiara fama”, dall’inverno precedente; verrà recapitata al Professore Carrelli il giorno dopo, ed è stata spedita, per quanto di ragione, poco prima dell’imbarco.
Ecco i testi:

 

Napoli 25 marzo 1938 – XVI
 
Ho un solo desiderio, che non vi vestiate di nero. Se volete inchinarvi all’uso, portate pure, ma per non più di tre giorni qualche segno di lutto. Dopo ricordatemi, se potete, nei vostri cuori e perdonatemi
 
                   Aff.mo

                          Ettore

 

 

Napoli, 25 marzo 1938 – XVI

Caro Carrelli,
                       Ho preso una decisione che era ormai inevitabile. Non vi è in essa un solo granello di egoismo, ma mi rendo conto delle noie che la mia improvvisa scomparsa potrà procurare a te e agli studenti. Anche per questo ti prego di perdonarmi, ma sopra tutto per avere deluso la tua fiducia, la sincera amicizia e la simpatia che mi hai dimostrato in questi mesi. Ti prego anche di ricordarmi a coloro che ho imparato a conoscere e ad apprezzare nel tuo Istituto, particolarmente a Sciuti; dei quali tutti conserverò un caro ricordo almeno fino alle undici di questa sera, e possibilmente anche dopo.

                        E.  Majorana

 
 Il “postale” giunge a Palermo la mattina del 26 marzo, con Ettore Majorana, vivo, il quale, su “foglio” intestato Grand Hotel Sole[6], scrive e spedisce per espresso al Professore Carrelli un’altra lettera e un telegramma.
Il telegramma avverte il Professore Carrelli di non allarmarsi e che gli arriverà una (seconda) lettera (“non ti allarmare segue lettera”).
In quello stesso giorno, Majorana spedisce un altro telegramma, all’Albergo Bologna, per confermare la stanza, e perché non vi si frughi dentro (“tenere chiusa la mia stanza arriverò lunedì”).
La seconda lettera al Professore Carrelli viene recapitata il giorno dopo.
Ecco il testo di questa seconda lettera.
 
 
Palermo, 26 marzo 1938 – XVI

Caro Carrelli,
                       spero che ti siano arrivati insieme il telegramma e la lettera. Il mare mi ha rifiutato e ritornerò domani all’albergo Bologna, viaggiando forse con questo stesso foglio. Ho però intenzione di rinunciare all’insegnamento. Non mi prendere per una ragazza ibseniana perché il caso è differente. Sono a tua disposizione per ulteriori dettagli.
 
                     Aff.mo E. Majorana

 
 
Tuttavia Majorana non tornerà più all’Albergo Bologna, né darà più alcuna altra notizia di sé.
 
 
(Continua nel prossimo numero di Lunarionuovo…)

 

Note

[1] “… Gli artifici per dare una forma simmetrica che si accordi con il suo contenuto, non sono del tutto soddisfacenti; sia perché si parte sempre da un’impostazione asimmetrica, sia perché la simmetrizzazione viene in seguito ottenuta mediante tali procedimenti …che possibilmente dovrebbero evitarsi”. E. Majorana, Teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone, in “Il Nuovo Cimento”, a. XIV, 1937, pp. 171–184.
[2] L’aneddoto è narrato da Luciano De Crescenzo, nella sua Storia della Filosofica Greca (in fine del vol. II, da Socrate in poi).
[3] Di queste, ricordiamo qui, per il nostro legame con quel luogo, quella cui fa cenno Erasmo Recami, Il caso Majorana, Di Renzo Editore, Roma, 2011, IV edizione riveduta e ampliata, a p. 101 e ss.. In questo luogo del libro, il quale costituisce tuttora il testo con il maggior approfondimento sulla scomparsa di Ettore Majorana, l’A. riporta una testimonianza di Ettore Majorana a Catania, presso i Padri Gesuiti di Villa San Saverio.
Un ulteriore panorama delle piste del caso Majorana è offerto da wikipedia.
[4] Con provvedimento del febbraio del 2015, la Procura della Repubblica di Roma ha disposto l’archiviazione di un procedimento riaperto sul caso Majorana alcuni anni prima in esito a una segnalazione fatta nel corso di una trasmissione televisiva. Il provvedimento esclude che, nel ’38, Majorana possa avere subito reati contro la sua integrità fisica o la libertà di autodeterminazione, o compiuto atti di autolesionismo, in quanto v’è da ritenere che, sul finire degli Anni Cinquanta, egli fosse in Venezuela, vivo e per libera scelta. A fondamento dell’archiviazione, il pubblico ministero pone i risultati dell’esame di una foto scattata in Venezuela da parte di un teste il quale afferma che l’uomo in foto è Majorana, nonché la circostanza che l’uomo della foto fosse in possesso, secondo il teste, di una cartolina che Quirino Majorana, fratello del padre di Ettore, spedì nel 1920 a un signore americano (W.G. Conklin).
Dal testo del provvedimento (riprodotto in fondo a Il caso Majorana – Risolto il giallo dopo ottant’anni?, Saverio D’Amelio, Ed. Sabinae, 2015), non è dato inferire se, secondo il P. M., l’esito degli esami sulla foto (consistenti in una comparazione con una foto del padre di Ettore Majorana) e la circostanza della cartolina costituiscano, ciascuno, una prova ovvero soltanto un indizio (ovvero ancora l’esito degli esami una prova e la circostanza della cartolina un indizio). Se, come pare più ragionevole, entrambi questi elementi sono considerati meri indizi, essi sono destinati a rimanere tali (poiché l’uno non ha alcun legame con l’altro), a non formare una prova. In particolare, la cartolina spedita nel 1920 dallo zio di Ettore Majorana a un signore americano, per quanto suggestiva, non pare di particolare valore, posto che essa collega il suo possessore non allo zio di Ettore (che la spedì) ma al signore americano (che la ricevette).
[5] Al momento della scomparsa, Ettore Majorana disponeva di un passaporto solo per l’Europa.
[6] Stando però alle ricerche effettuate a Palermo dalla Polizia, quel sabato Ettore Majorana non scese al Grand Hotel Sole. La sua presenza a Palermo è però resa certa dal telegramma inviato all’Albergo Bologna, scritto di pugno di Ettore Majorana, e di cui subito nel testo. Spiegazione plausibile è che Ettore Majorana, il quale non avrebbe passato la notte al Grand Hotel Sole, non fu registrato.