Al momento stai visualizzando La conquista della casa

“Possiamo cavarcela” dice Michele a sua moglie Irene, “il nostro appartamento è di 120 metri quadrati, su misura per le nostre ciabatte”. Così il primo giorno del restate-a-casa.

Oggi il pianeta rosseggia come un gigantesco virus, ne assume in pieno la sagoma, dopo averla rielaborata con fantastica furia. Corone e rostri dettano profili inediti a montagne, vallate, zone urbane. Ridisegnano le onde marine, ne fanno tridenti allineati all’infinito.

Come miliardi di suoi simili, Michele scopre alla tv questo volto inusuale della terra. Lo riadatta alla sua città, al suo eremo domestico. A poco a poco introietta nella psiche quel logo fosforescente, jolly estetico insostituibile negli attuali eventi mediatici. Eventi che, per attrazione reciproca, vanno appunto a convergere nel Covid, declinandolo in cento salse: fisica e metafisica, psicosociologica ed economica e, con discreto cipiglio, virologica e infettivologica. Se lo ficca in se stesso come un vaccino sostitutivo, il quale, non appena riemerso negli occhi, li riempie di scorie, di fiacche.

“Bisognerebbe copiarlo a mano, inquadrarlo e recitarvi sotto, umilmente, le preghiere”.

La sua testa è tormentata da fiamme affioranti dai precordi, potenziate dal vino e dai grappini somministratigli da Irene per tenerlo tranquillo. Lei succhia zenzero, si riempie di banane e manghi, lambita dalle fiamme maritali. E se infiammassero anche l’arredamento? Ma sì, l’ekpìrosis, tanto un giorno o l’altro avverrà, come dicevano gli antichi saggi.

Entrambi mangiano e bevono camminando. Hanno deciso di inventariare i loro beni. Si soffermano davanti a ogni mobile o suppellettile con sguardi novelli e stupefatti. Il sofà li riconduce al tal negozio, la scrivania o le sedie al talaltro. Per non dimenticare i mercatini delle pulci. Perfino l’età degli oggetti, e le date d’acquisto e gli scontrini, vengono rimemorate e commentate con pignoleria.

“Sai qual è l’arnese più vecchio che abbiamo in casa?” dice lui, “è la vanga storta e arrugginita deposta in un angolo del balcone, ha duecento anni”.

“No”, replica lei, “è la cassapanca smangiata dalle crepe che mi regalò la bisnonna, di anni ne ha trecento e passa”.

A sentir evocare bisnonni, Michele scuote il capo. Ogni avo è amara genealogia, lascia colare sangue, e il tempo ormai non conta più. Suo nonno – ora solo un corpiciattolo nella memoria – era uscito mutilo dalla battaglia di Caporetto. Irene, invece, ha un sobbalzo udendo la parola vanga. Va con la mente e il cuore al vecchio orto dei genitori, nonché a se stessa nell’atto di cogliere insalate, strappare dalla terra carote e ravanelli. O, in primavera, catturare tra le dita la rugiada mattutina, lasciar scorrere languore di corolle sulle mani. Lacrime di cose di campagna, assurte ormai al paradiso degli esistenti. Quando le quattro parti che formano il mondo caste e monde apparivano ancora.

Il mondo, le cose. Bisogna soprattutto toccarle le cose, per capire se davvero esse occupano superfici e volumi, e in che maniera. La quarantena val bene una ricognizione tattile. Irene punta l’occhio sulle superfici di tavoli e armadi, così lisce e dolci al palpeggio. Ma è in particolare attratta da lampade e lampadari. Li paragona a deliziosi petali, come dire il tesoretto floreale di qualsiasi appartamento dignitoso. Basta una scaletta per raggiungere il soffitto. Oltre il soffitto e il tetto – metaforiche chiome della casa – pianta – si spalanca il grande universo abitato dal sole, dalle stelle e dalla luce. Immaginarlo non è la stessa cosa che sbirciarlo dalla finestra. Cosa significa tutti-a-casa? Significa gettare un ponte verso le lontananze, far capolino in quell’universo, intuirne con lo sguardo almeno soccorrevoli frange, decostruire il sentimento meschino del chez nous.

Michele preferisce urtare sporgenze e durezze, e lo fa con le nocche, i gomiti. Lo spigolo di un canterano, la spalliera di una sedia, la cornice di una specchiera, il coperchio di un baule di ferro sistemato nell’atrio solo per ornamento, fors’anche l’armatura di un cavaliere inesistente, alla Calvino. Ma quel giorno, caso strano, è come se ogni sporgenza pur minima, trasformatasi in artiglio, sperone o gancio, tentasse di afferrare le sue dita per tormentarle. Offrendosi in modo così marcato e diciamo pure furibondo, le cose testimoniano a chiare lettere la loro esuberanza vitale, un surplus di volere rispetto all’uomo. È ciò che egli pensa, mentre stringe una robusta impugnatura. Ovvia la conclusione: sono le impugnature a tenere stretti noi umani, quasi mai il contrario.  E se una vitalità del genere dipendesse da misteriose connessioni tra le cose in quanto tali e lontane galassie di micro organismi famelici e incontrollabili? Qui le idee si confondono, vanno a pezzi. Nel frattempo Michele osserva la moglie imbambolata davanti a una lampada a boccia.

“È il momento giusto, Irene, di sostituire tutte le lampadine, anche quelle sane”.

“Con altre molto più potenti, però. Vorrei togliermi lo sfizio di veder risplendere la stella Cassiopea nella camera da letto”.

“Non hai l’impressione che gli oggetti di casa nostra si stiano spostando?”

“A me invece sembrano perfettamente fissati nella loro porzione di spazio…”

“Euclideo?”

“Euclideo, proprio così”.

Mal’atto del toccare, per il nostro amico, è soltanto l’anticamera del contare. Contare i vani, innanzitutto. Quel mattino, con lo sguardo incollato al contapassi dello smartphone, Michele compie quattro giri completi dell’appartamento, ricapitolando ogni volta il numero dei locali. Quasi l’avesse dimenticato, quasi i locali fossero centinaia e non, banalmente, quattro e mezzo. Irene lo segue come un’ombra, annotando tutto. Poi è d’obbligo misurare.

“Adesso controlliamo di nuovo le misure. L’agenzia immobiliare, nell’atto d’acquisto, deve averle gonfiate un tantino”. “Vengo subito col metro snodabile”.

Cifre si accumulano, si rovesciano e contraddicono nella mente. Il metro e il taccuino di Irene, il primo interferendo di continuo nel secondo, creano subbuglio. Atmosfera che gronda di cifre, in una ridda di somme e sottrazioni. Occorre accertare l’altezza del vestiario, la larghezza di mensole e palchetti, l’area di un tappeto, la profondità di un vassoio o di una bacinella.  Occorre inoltre verificare la simmetria delle pareti, se ancora sussiste, riorientare i punti di vista, raccogliere le prospettive spaziali vagabonde in un’unica, inequivocabile prospettiva. È giusto che una coppia affiatata veda le cose allo stesso modo.

Il pomeriggio tocca alla libreria: si tratta a conti fatti di duecentododici unità, esclusi raccoglitori e riviste. Molto bene.  Ma i formati dei volumi, tra loro discordi, hanno sempre causato ai due personaggi grattacapi e malintesi. Tanto da far nascere una serie di domande. I libri vanno classificati in base alla loro dimensione oppure alloro valore culturale, ai temi trattati, alla tinta della costola, alle date di stampa? O non sarebbe meglio privilegiare l’ordine alfabetico degli autori? La coppia trascorre quelle ore tra assilli teorici, spostamenti e sostituzioni, convulsi svuotamenti di ripiani e vetrine, con la sensazione però, a meriggio avanzato, di non aver risolto nulla. Il riassetto generale, per certi versi elegante, risulterà alla fine caotico. E così i Vangeli andranno a incastrarsi tra un libro di ricette e I tre moschettieri. I tomi più sdruciti o mancanti di pagine, memoria di letture pregresse e già sepolte, saranno lasciati a poltrire sul parquet.

“Non ci sono spiriti, qui”.

“No. Non ce ne sono, per fortuna”.

E tuttavia, forse a compensare tale mancanza, l’imprevisto è dietro l’angolo. Collocata nel bel mezzo della scaffalatura lignea, la vetrina che ospita i gadget e i souvenirs di viaggio produce all’improvviso insoliti riflessi. Nessuna fonte luminosa al suo interno, la luce proviene sicuramente da fuori, ma da dove? A poco a poco sul vetro si disegna un cerchio dalla circonferenza vibratile e approssimativa, come se a tracciarla fosse il compasso di   un geometra sonnambulo. Non può essere la proiezione del tempietto greco, goffo e ovviamente di tutt’altra forma, che impassibile giace alle sue spalle. E neppure il vago riverbero di una boccia da plafoniera, perché nessuna è accesa al momento. Il fenomeno deve avere altre cause. Sta di fatto che il cerchio si agita, lavora. Gradualmente mette pancia, si fa concavo, comincia a rotare su se stesso. Pare addirittura diffondere raggi intorno.

“Vòltati Michi, vòltati caro”.

I due scorgono, esterrefatti, quello che potremmo definire un oggetto dell’oblio, enigmatico nella sua presenza-assenza: un maestoso mappamondo sul suo treppiedi, dono nuziale dei genitori di lei, e da lei riposto in tutta fretta presso l’angoliera. Da anni mai consultato, mai fatto girare, mai passato con lo straccio. I figlioletti lo disdegnavano, gli preferivano la piattezza ortogonale degli atlanti scolastici.

La polvere sulla superficie è sparita d’incanto. Il corpo inerte ha iniziato d’un colpo a scintillare, indubbiamente con foga eccessiva. I colori di oceani e continenti, all’origine differenziati tra loro, appaiono ormai fusi in una specie di rosso cromo non privo di fascino. La perfetta sfericità, inoltre, si è caricata di spille, crocette, proglottidi, minuscole antenne. L’oggetto sprigiona energia e luce da ogni poro, la sua ostentata autosufficienza impressiona.

Michele non può trattenere uno scatto, spinto dal desiderio di osservarlo da vicino, ma Irene lo frena al momento giusto. Ossia allorché il globo, con lentezza e una certa grazia, si stacca dal supporto, lèvita circospetto, rimane sospeso a mezz’aria. E infine, tramite una brusca virata, dà inizio al suo volo circolare nel locale. Tendere le mani per bloccarlo? Sarebbe fatica inutile. A tratti sembra abbassarsi con studiata malizia sulle due teste, ma le sfiora soltanto. Un po’ del suo alito torrido vi resta comunque appiccicato, con effetti difficili da prevedere. Ha l’aria di voler aggirarsi per l’intero appartamento, sembra curioso e testardo. Trovando chiusa ogni porta, accelera il ritmo, accompagnato da borbottii intestini. Fiuta ogni angolo, tenta il soffitto, ma l’istinto lo porta là dove c’è luce.

“Dobbiamo lasciarlo passare, Irene”.

“Dobbiamo lasciarlo passare, Michi”.

“Ricordi quei palloncini di plastica che regalavamo ai nipotini?”

“Eccome no. Tutti scoppiati”.

“Tutti scoppiati. Ah, ah!”.

La creatura intuisce libera la via del balcone. Un balzo netto ed è già nell’etere. Qui la sua rubescenza si attenua, mescolandosi con la bruma verdognola in arrivo. Melone screziato dapprima, poi anonimo puntino nel firmamento, così allo sguardo della coppia. Forse andrà a raggiungere la sua creatura parallela, l’alter ego gravitante nello spazio infinito. Dove tutto transita o rimane. A seconda del destino che gli è stato assegnato.

Gilberto Isella