I comportamenti stravaganti sono elementi che ci stupiscono e ci attraggono senza volerlo, ciò accade specialmente nelle piccole comunità, dove le persone si conoscono e le storie personali diventano patrimonio di tutti.
Fin da bambina venivo attratta da certi comportamenti inusuali e spesso restavo incantata a guardare le stranezze di alcuni personaggi che abitavano nel mio paese, e mi dispiacevo particolarmente, quando qualcuno li prendeva di mira, deridendoli, offendendoli e suscitando la loro conseguente ira.
Il paese, si sa, è una piccola aggregazione di persone che nei testi antichi si usa chiamare “anime”. Le anime che costituiscono un paese sono le più diverse, tra queste anime spiccano personaggi che per la loro tipicità e originalità nei comportamenti sono spesso additati come pazzi o quantomeno stravaganti.
La terza elementare la completai a “Villa Petrosa”, una piccola scuola rurale, le ultime due classi elementari, invece, le completai nella scuola comunale di Guardia, sita vicino la chiesa madre (Vedi foto). Da qui si poteva osservare un’altra realtà, altre anime e tra queste una figura di spicco era Padre De Rosario, prete in pensione, una figura certamente stravagante, che io conobbi quando era già molto vecchio, ma portava ancora la lunga tonaca, chiusa da una infinità di bottoncini. Si raccontava che questo prete, insegnasse alle elementari, ed era il terrore dei ragazzi per la sua severità e famoso per i suoi castighi e bacchettate che propinava ai suoi ragazzi. Aveva la cosiddetta”Virica” usata come mezzo educativo tra i più comuni ed efficaci del tempo. Anche il nonno dei miei figli ebbe costui come insegnante. I genitori di allora andavano fieri di questo insegnante, quando si demandava al maestro l’educazione dei propri figli e i metodi coercitivi erano adottati a larga maggioranza e ritenuti infallibili.
Padre De Rosario, era un uomo alto, con i capelli bianchi e ondulati che manteneva lunghi e che gli conferivano un’aria da “Guru”; si raccontavano le sue gesta e che, per la sua severità e dirittura morale, aveva diseredato un nipote perché aveva avuto un figlio fuori dal matrimonio e in seguito, aveva sposato un’altra donna, motivo per il quale tutti i suoi beni lo zio li donò ad un solo nipote.
Un paio di volte, quando già era da tanto tempo in pensione, ci venne a trovare in classe, abitava vicino la chiesa e vicino le scuole, sicuramente si sentiva solo, infatti non aveva più nessuno da castigare o a cui dare gli insegnamenti propri di quell’epoca. Per fortuna i tempi erano cambiati e la mia maestra, Maria Gambino, donna single, ci parlava con dolcezza e benevolenza e la” virica” (o bacchetta) la teneva per puntarla sulla lavagna e mostrarci le operazioni.
Ma i personaggi che più mi incuriosivano erano “Santa a pazza”, una donna molto alta, un viso rugoso e scuro che portava in testa un fazzoletto, di colore grigio nelle varie gradazioni e sfumature annodato come le donne del deserto, vestito lungo fino ai piedi, sandali consumati dal tempo e quello che più era insolito e attirava lo sguardo, era la compagnia di una bellissima capra di colore bianco e grigio, con due barbiglioni sotto il mento che si dondolavano camminando: aveva un campanaccio che avvertiva del loro arrivo e lei la teneva legata con una corda. Insieme percorrevano il paese, come chiacchierando tra di loro. Abitava in piazza Lo Presti, in fondo, verso la campagna. La sua casa non l’ho mai vista, non erano zone di passaggio e quindi non si era mai presentata l’occasione di vedere dove alloggiasse. Questo personaggio, sebbene conducesse una vita fuori dall’ordinario, apparteneva anche ad un certo ceto sociale, era cugina di padre Giuseppe Arcidiacono, il parroco di Guardia, detto “Scupetta a ‘na canna” per via della sua altezza e della sua magrezza.
“Santa a pazza” di mattina spesso percorreva la salita della chiesa, la strada ripida che dalla nazionale porta su un’altura dove si trova la chiesa dell’Immacolata, con accanto le scuole elementari, in compagnia della sua capra, credo che non andasse da nessuna parte, era come un percorso, il suo, di consuetudine igienica: la passeggiata in compagnia della capra. Poi per due volte la settimana andava a pranzo da mia nonna Santina, la quale accoglieva tutti nella sua casa, ma più che altro lei ci andava per farsi una chiacchierata con mia nonna, che la rispettava e ascoltava con attenzione i vari accadimenti avvenuti nel paese e quando andava via gli regalava qualche uovo e un po’ di frutta, come era solita fare.
Quando passava lei, noi bambini, da dentro l’aula, eravamo tutti con l’occhio puntato fuori dalla porta e si assisteva a questo suo teatrale passaggio, la maestra si infastidiva perché eravamo distratti da quella apparizione, che ci gustavamo ridendo, seduti nei nostri banchi di scuola.
Capitava per strada che qualche ragazzo non abituato alle buone maniere le gridasse: “Santa a pazza! Santa a pazza!” allora lei cominciava a gridare e a imprecare e se ne tornava a casa di gran corsa.
Un altro personaggio stravagante che colpiva le attenzioni dei ragazzi era “Lucia a pazza”, una donna anziana, che si truccava con uno spesso strato di cipria, le guance rosa acceso e un rossetto rosso vermiglio. Abitava sulla nazionale di Guardia vicino la pasticceria Russo, viveva da sola e stava quasi sempre affacciata ad una finestra senza vetro della sua porta di casa e lì passava le sue giornate, scandite dalla solitudine, osservando le auto che sfrecciavano sulla nazionale e i passanti che curiosi la guardavano, ma che gli tenevano compagnia.
Vestiva con una gonna a campana nera, un gilè e una camicia bianca ricamata a punto croce, qualche volta usciva sulla strada e si muoveva in modo tale che quella gonna quasi svolazzasse. La povera donna era diventata pazza in seguito alla morte in guerra dell’unico figlio, ed era rimasta sola, nessuno si occupava di lei e anche a lei certi ragazzacci non mancavano di insultarla e lei ne usciva con un bacile di smalto bianco dai bordi blu, pieno d’acqua e rincorreva chi la insultava, lanciando l’acqua che quasi mai centrava il destinatario, che si era burlato di lei.
A S. Maria degli Ammalati, paese limitrofo a Guardia, viveva un altro personaggio indimenticabile: ”Turi u Zzuniu” detto anche “A signa”, aveva gli occhi di uno splendido blu, che attiravano la mia attenzione, tra la sua barba incolta e lo sporco del suo viso e di tutto il suo corpo. Era vestito con abiti, quasi sempre lerci, appesi al suo corpo magro, abiti che cambiava quando gli cadevano a brandelli. Parlava sghignazzando e per vivere faceva lo spazzino. Alloggiava sulla via Nazionale, nella zona centrale di S. Maria degli Ammalati, in una stalla completamente aperta ed esposta alle intemperie e dormiva dentro la mangiatoia, accovacciato nella paglia, conduceva un’esistenza di tipo preistorico in quella sua stalla come una caverna. Non aveva nessun confort e neanche beni di prima necessità. Io, curiosa, osservavo i suoi movimenti dal balcone di casa di mia nonna Concetta che abitava di fronte a neanche cinquanta metri e rimanevo sorpresa da questa persona e dalla vita strana e stramba che conduceva.
La maggior parte delle persone si tenevano alla larga da questi individui, perché la diversità da un lato attrae dall’altro spaventa e perché ci mette davanti a qualcosa che sconosciamo, che non capiamo, in quanto fuori dagli schemi sociali a cui normalmente ci uniformiamo. Non oso immaginare che vita potessero fare, da soli, senza nessuno che si prendesse cura di loro e dei loro bisogni… A distanza di tanti anni ricordo con un velo di nostalgia tutti questi personaggi che vivevano nella nostra piccola comunità e come l’insensibilità comune non permetteva loro di condurre un’esistenza normale. La follia, o la stravaganza, molto spesso può essere una via di fuga dalla realtà, oppure una emarginazione dalla realtà, ma resta sempre e comunque un problema sociale di non facile soluzione.
Concetta Messina
07 aprile 2019