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Johann Heinric Fussli, Incubo, 1781
Carrozza al Teatro Massimo

Niente dovremmo mettere da parte. Ma fare come gli uccelli non se lo ricorda nessuno e anzi vai a ricordarglielo che gli uccelli non seminano eppure raccolgono. La cocchiera della nostra storia in tal caso ti risponderebbe con una particolare preoccupazione, assegnando al marito il compito di mantenerle il frigo al colmo delle proprie possibilità ricettive. Un diario culinario non di poco conto, quello della cocchiera, prevedendo per la domenica la teglia degli anelletti a forno, possibilmente alternando durante la settimana la pasta con le sarde e il nero di seppia, la milanisa con i broccoli e la mollica tostata. Mentre la carrettiera avrebbe completato gli improvvisi sfizi, né sarebbe mancato il pasticcio di lasagne nelle feste comandate, per il quale il forno cominciava a scaldarsi già di prima mattina, ad evitare gli inconvenienti delle cose fatte di corsa. La pasta per non parlare di tutto il resto… poiché su questi indifferibili impegni la intratteneva la cocchiera, ogni volta che s’incontravano. E solo a Jeanne veniva in mente il dovere costante di un marito che correva a più non posso, frustando il suo ronzinante e moltiplicando le galoppate, per mostrare il cassero agli stranieri e ai palermitani in vocazione di gita per la città. Allora infatti la sua frusta schioccava scintille nell’aria mentre, come un fulmine, si abbatteva a sferzare la groppa indolente dell’animale rassegnato.

Negli anni ‘70 Jeanne camminava senza meta, attaccando discorso con chiunque il destino le presentasse. La città la rianimava diceva e ritornava a casa solo a sera. Non si era sposata e non aveva figli. Il papà e la mamma già morti. Un sussidio solo le restava e quelle continue passeggiate col sole o con la pioggia. Ancora poteva camminare, ma sarebbe durata poco.  Avvenne infatti che, in una giornata di sole, improvvisamente si accorse di un rigagnolo che cominciava a scorrerle tra le gambe, fino a bagnarle i piedi. La caduta a terra di quella volta aveva fatto il resto, consegnandola di lì a poco alla sedia a rotelle e nemmeno la barbona avrebbe potuto fare. Rimasta sola a sfogliare l’album di famiglia ricordava, quando venivano a trovarla, che da piccola era un’altra cosa conoscere la città che si svegliava, tra uno sferragliare di rotaie e un rassegnato viavai di operai alle fermate dei tram. Sembrava a volte che un profumo di forno addomesticasse il freddo dell’inverno, mentre i piccioni svegliavano con un frullo d’ali il viale di via Libertà e i giardini scioglievano le ombre ai passi frettolosi di scolari o a qualche coppia, che aveva deciso una intrepida passeggiata sotto la pioggia. Suo padre infatti la svegliava alle cinque e Jeanne velocemente si lavava, calzava le sue scarpe invernali, faceva colazione. Raccoglieva infine i suoi libri nella cartella, mentre suo padre il colonnello era già sotto, col giornale tra le mani sconvolto da una mattutina frenesia di notizie. Poi il colonnello voleva il resoconto dei compiti e se c’era qualche poesia da mandare a memoria, voleva sentirla dalla figlia. Messosi l’animo in pace, le comprava dall’ambulante la treccia spolverata di zucchero. La salutava infine con un bacio e correva nella direzione opposta, cercando la carrozza col cocchiere …
-Corso Calatafimi grazie.
-Col ritmo vostro o col mio?
Se allora il colonnello aveva fretta, il vetturino sapeva come destreggiarsi a trovare, lungo il cassero, il vicolo che più faceva al caso loro.
-A domani Sasà… e fatevi trovare al solito posto, ma un’ora più tardi.
-Come vossignoria comanda- rispondeva Sasà frustando il cavallo baio, imperioso come il cavallo di Garibaldi al Giardino Inglese.
La madre invece si occupava della casa ed era sempre impegnata in nuove pulizie e in periodici ricevimenti, quando il marito ritornava dalla caserma e non aveva impegni che lo distogliessero. Ma era il padre che si occupava della educazione della figlia. La rimproverava rude, anche se poi l’abbracciava. Spesso la voleva vestita da maschietto. L’aspetto rude del padre, rigido nel suo stinto cappello da militare, ancora oggi la teneva sott’occhio, dalla propria cornice d’edera intarsiata, sospesa ad un chiodo del soggiorno. Guardava quell’uomo e tutto le girava intorno, tutte le cose buone o tragiche che le erano accadute, ma soprattutto ricordava di non averlo corrisposto come lo stesso desiderava. Forse perché i sogni di suo padre peccavano di presunzione o di rigida preoccupazione. Lei invece aveva un temperamento da artista e fin da piccola si immergeva nella lettura dei suoi poeti preferiti ed erano Carducci, ma anche De Vigny, Lamartine, Mallarmé. A quindici anni aveva composto la sua prima poesia…

Là sulla più alta vetta
Spicca superbo il fiore
E al viaggiatore attratto
Segna difficil meta.
Ei s’arrampica lesto,
Aspre rupi supera,
Presso è alla cima
Desioso al fiore
La mano si tende
Ma questo appassito
Reclina e seco il vento
Le foglie smorte trascina.

L’aveva imparata a memoria e le era rimasta scolpita per tutta la vita. A volte inspiegabilmente la dimenticava. Ma poi, quando s’era rassegnata ad averla perduta per sempre, essa ritornava ed era una parola che la resuscitava tutta oppure il battere del vento alle imposte in una serata d’inverno. Non aveva voluto trascriverla, perché era anche indecisa se troncare quella ricchezza provvisoria, desiderosa più che altro che si spezzasse da sola. Ma quella poesia le faceva dimenticare il tempo trascorso e perfino se stessa ed aveva la forza inspiegabile di renderla felice… Una volta ci fu a Palermo una forte scossa di terremoto e il padre la chiamò. Lei non si mosse, immersa com’era nella sua occupazione preferita, tanto da non riuscire a decifrare la frenesia concitata del padre, che cercava di avvertirla del pericolo. S’era a quel tempo particolarmente entusiasmata alla lettura di Tagore e aveva deciso d’intonare la sua prosa a quel suo modo particolare di scrivere. Ma di contro c’era pure il canto, poiché aveva una bella voce da soprano. Quando la maestra di canto aveva insistito col colonnello, questi non aveva risposto nulla. Ma si capiva che la faccenda stava prendendo una brutta piega per il suo futuro artistico. Quando tornarono a casa la mamma in cucina stava preparando la cena, con quella sua maniera calma e inquieta allo stesso tempo. Se lui aveva deciso, Jeanne sapeva che non c’era più niente da aggiungere.
-Avete un’aria infreddolita! Jeanne accendi la stufa- disse sua madre.
-Ho portato i pasticcini di mandorla e i mustazzoli prima dei morti- disse il colonnello- Pensare ai morti in questo periodo mi mette una strana allegria. Col fuoco acceso, questa stanza è un’altra cosa, mi permette di entrare nelle condizioni migliori per dire le cose che non voglio come le voglio.
-Sarebbe a dire che ci sono novità?
-Non propriamente… ma si tratta sempre del futuro di nostra figlia e se non fa un buon matrimonio dovrà sbrigarsela da sola.
-E credi che non ne sarà capace?
-Non si tratta solo di questo. Ha tante buone qualità… ma rischia lo stesso, perché ho l’impressione che vada perdendo tempo.
-Mentre non bisognerebbe perderne! Questo è certamente vero, ma chi lo può dire che cosa è giusto e che cosa non è giusto?
-Appunto si tratta di dire quello che spetta soprattutto a noi genitori dire, nel nostro caso si tratta di allontanare Alice dal suo paese delle meraviglie, dalle sue bambole… che pettina pettina e non la finisce più di pettinare. Non credi che un punto fermo lo dobbiamo mettere noi?
-Ma è ancora una bambina!
– Una bambina che cresce e tu non te ne accorgi.
– E che vorresti fare?
-Svegliarla. Svegliare anche noi, per continuare a darle quello che finora le abbiamo donato, ma in maniera diversa. Pensi che sbaglio?
Jeanne allora scriveva il suo primo romanzo: profonde vicende umane, nel melanconico sfondo di un sogno d’amore. Così recitava la nota dell’editore. E non era solo questo che esprimeva, ma un insolito risveglio alla vita di una ragazza ventenne. C’era allora in Piazza Politeama la fiera del libro e la sua opera venne presentata lì, ma così male che lei stessa ne restò scioccata. Il suo libro non era una descrizione dei suoi amori, come le rimproveravano. E della critica in realtà se ne accorgeva, soprattutto, dal lampo sinistro con cui le vicine la squadravano sul pianerottolo di casa o quando alla solita pasticceria entrava per ordinare un cannolo.
-A questo siamo ridotti per colpa tua… che dobbiamo cambiare città! Tu naturalmente fai l’artista- disse suo padre che aveva visto lontano… Ora perfino il suo destino di cantante lirica era in forse.
-Jeanne lo avrà capito da sé, che non sono strade che spuntano – disse sua madre.
-Tua figlia non ha proprio capito nulla. E’ ora che si svegli, perché la forza del suo destino non sta solo nelle arie che quella maestra le impartisce, con l’intenzione di allontanarla dalla vita. Mia figlia non intraprenderà mai la strada dei palchi e delle canzonette. La strada di quelle strafalarie… sulla bocca di tutti!
Suo padre così tappò la bocca a tutti in famiglia, diede al suo umore un contegno tragico, da tenore che ha affondato l’ultimo acuto nei timpani golosi degli spettatori. Rimanendo alla fine inebetito, affogato in quel rituale di famiglia che conduceva con rispettabilità e decoro. Disse che aveva bisogno di aria e uscì. Poi l’Italia entrò in guerra e tutti si dimenticarono delle sue arie artistiche. Jeanne ricevette una cartolina verde, che era il precetto di mobilitazione. Anche suo fratello Adolfo fu mobilitato e prima di partire le raccomandò il suo futuro, che cominciasse a pensare più seriamente alla vita, poiché i loro genitori non sarebbero durati in eterno.
-E che vuoi che faccia?
-Quello che finora non hai fatto.
-Fare cioè quello che tutti si aspettano vuoi dire: un lavoro e una famiglia.
Nonostante il lavoro alla Storia Patria, Jeanne alla famiglia ancora non ci pensava. Aveva però incominciato a pensarci suo padre.  Allora Ninì era stato un amore difficile da definirsi, perché in dieci anni non s’era dichiarato nemmeno una volta. Ma ne avevano parlato i padri e deciso tutto per conto loro. La famiglia di Ninì aveva proprietà a S. Filippo Archi e il colonnello diceva che il vino che vi si produceva lì era il migliore di quanti finora ne avesse conosciuto. Ninì era un bel giovane: alto, gli occhi grandi e scuri da arabo, con le sopracciglia che si univano al centro della fronte. Un suo fratello soffriva di attacchi epilettici. Jeanne lo ricorda ancora quando venne per la prima volta a Palermo, a studiare al Garibaldi. La guardava timoroso, impacciato, perché lui sapeva mentre lei era all’oscuro di tutto.

Johann Heinrich Fussli, Incubo, 1790-1791

L’anno 1915 era cominciato con l’olio di fegato di merluzzo dissaporato. Una provvidenza o una iattura non saprei proprio dire, dato che in casa di zio Ernesto non si parlava d’altro. Sua moglie era del parere che i figli le crescessero a vista d’occhio, mentre vedevo i cugini arricciare il naso e divertirsi a scomparire nelle loro stanze e se chiamati facevano finta di non sentire.
-Capricci da adolescenti, che ne inventano sempre una per non seguire i grandi- diceva zia Evelina e si metteva le mani nei capelli per significare meglio che cosa le costasse quella terapia. Ma lo zio lasciava fare e i bambini crescevano, con o senza l’olio di merluzzo non conveniva indagare. Poi c’era stata la spesa per la casa di via Lattarini. Mamma non voleva comprarla per via di quell’esplosione che sette anni prima aveva distrutto i magazzini Aiello. Per via dei morti di cui ancora si parlava dopo tanti anni. Trattava tutti a muso duro e il colonnello cercava di prenderla in giro. Il 24 maggio veniva dichiarata la guerra e il colonnello, messi da parte i mugugni familiari e le spese per la casa di via Lattarini, ritornava dalla caserma appena per il pranzo. Cenava invece quasi sempre fuori e quando ritornava era talmente stanco che preferiva leggere il giornale in salotto e subito dopo andare a letto. La mamma gli portava il caffè e lui la ringraziava. Ninì si arruolò quasi subito insieme a suo fratello Gerardo. Con la lontananza però l’incomunicabilità che aveva mostrato durante il liceo si sciolse e divenne insolitamente loquace. Scriveva mensilmente e quando trovò il tempo venne con un permesso a Palermo. Portò in regalo a Jeanne una borsetta alla moda, che smentiva quell’aria di disinteresse che il giovane voleva mantenere. Jeanne comunque il regalo l’accettò, anzi fu talmente contenta da farglielo capire a Ninì, mentre forse non ce n’era di bisogno. Ma le sembrava che la freddezza non giovasse a chi era destinato forse a non ritornare più. Ninì le parlava di Garibaldi allora. Diceva che era un uomo di Plutarco e che i suoi detti avrebbero meritato tutto un volume, come quello che lo storico greco aveva scritto sugli eroi dell’antichità. S’infervorava allora, raccontandone qualche aneddoto. Uscito vinto da Roma, l’eroe aveva esclamato “Soldati! Ciò che offro a quanti vogliono seguirmi, eccolo: fame, freddo, sole. Non paga, non caserme, non munizioni, ma avvisaglie continue, marce forzate e azioni alla baionetta. Chi ama la patria e la gloria mi segua.” L’altra cosa che Ninì disse prima di partire è che si sarebbero rivisti. A Jeanne rimase dunque questa speranza e tre lettere, che non so come Ninì le fece pervenire, data la difficoltà delle comunicazioni.

24 Gennaio 1916. Ricevi con questa mia gli auguri per il Natale che è già passato e per il Nuovo Anno che è appena cominciato e non si sa ancora cosa ci porterà. Forse cose buone. Anzi certamente, perché ne vedo la necessità. Qua abbiamo l’obbligo di resistere, per questo inseguiamo una mobilità che non ci porta in nessun posto e ci mantiene sull’orlo del precipizio. Quella che ci attende non è forse la gloria ma qualcosa di più, che ci affratella anche. Ho sentito anche i miei compagni cantare, perché per il resto non parlano. Non ci sono parole per una guerra, specialmente per chi passa qui dopo un’altra guerra quotidiana. Per questo ti trascrivo le parole che sono riuscito a capire o a tradurre alla meglio da dialetti intraducibili.

O Italia come la pensi
Te la credevi una passeggiata
O Italia fosti ingannata
Da quei vigliacchi di lor signor.

Dagli ufficiali siam maltrattati
Dal governo siam malnutriti
I quattro Stati si sono riuniti
Per distruggere la gioventù.

Per venirti a conquistare
Abbiamo perso molti compagni
Tutti giovani di vent’anni
La loro vita non torna più.

E tu continui le tue pubblicazioni con la Storia Patria? Sarei più contento se ci rivedessimo, ma per ora non è possibile. Hanno sospeso tutti i permessi e siamo in attesa del fronte al quale saremo destinati. Ma sappiamo che dappertutto si scaveranno trincee e che l’inverno rigido non ci fermerà di fronte a nulla. Ho una rosa da offrirti, spero che te ne arrivi il profumo. Tuo affez.mo Ninì.

Monte S. Michele 2 luglio 1916. Sul monte S. Michele ho ingaggiato le mie prime battaglie. E’ chiamato monte, ma non è granché elevato. Strisciando per terra col mio compagno Pietro facemmo ritorno alle nostre postazioni. Poi venimmo informati che gli austro-tedeschi avevano fatto uso del gas, ma allora pensavamo di averla scampata bella e quella polvere che respiravamo era tutto sommato un appiglio di speranza fino al camminamento, dove spuntavano i nostri. Ma fui colto di sorpresa, senza il tempo di evitare una baionetta abbandonata, mentre una gragnòla di proiettili nemici mi appiccicò al suolo e col ferro della baionetta nella gamba. Arrancando dunque mi misi in piedi davanti al capitano, che voleva notizie dei suoi bersaglieri. Risposi che erano tutti morti. Quello allora ordinò alla prima compagnia di rincalzare in prima linea e a me di farmi medicare. Mi accompagnò il suo attendente. Per strada un alpino ci sbarrava la strada, ma era troppo rigido per essere in vita. Sostai in un posto chiamato casello 45 perché c’era la ferrovia, ma quasi subito costretto a fuggire perché presi di mira dalla artiglieria aerea nemica. Si va avanti metro dopo metro, tra camminamenti e trincee di filo spinato. L’ultima è stata proprio questa notte. Il capitano che gridava avanti avanti bersaglieri e noi dietro ciclisti siamo nati per la guerra e passeremo i monti e le città. E invece avremmo dovuto pensare se passavamo quella nottata, tant’era buia. In quella avanzata notturna, ci impadronimmo di sette o otto chilometri di trincee nemiche, asserragliati anche con l’acqua che dovevamo pensare a svuotare con le gavette. Oggi invece c’e stato Pierino, un mulo del reggimento, che m’avevano prestato per il trasporto di alcune vettovaglie. Quando s’impuntò e non volle più andare avanti, presi a caricarlo di rimproveri e quello a correre. Nessun ostacolo lo fermava. Mi lasciò mezzo vivo e mezzo morto e mi portarono al vicino ospedale. Vi sono rimasto per quindici giorni e alla fine, dichiarato guarito, fui mandato al fronte. Prima di mandarci al fronte, ci dettero una gavetta di riso. E il tenente ci disse: calma non bruciatevi, che il tempo c’è. Certo la tua vita in questo tempo di guerra avrà pure le sue disavventure. Solo che tu non me ne parli e io non sono molto galante, se scendo continuamente dal mio cavallo di battaglia. Avete poi comprato la casa di via…Tua madre s’è convinta? Quando tornerò il primo pensiero sarà quello di venirti a trovare. Ma ti ricorderai ancora di me?

Passo di Monte Croce 20 febbraio 1917. Sono stato sul punto di venirti a trovare, ma qua le cose stanno sempre in bilico e contenti proprio non lo siamo mai. Tutte sospese le partenze, pure quelle premio. Qua è da mesi che non facciamo nessuna avanzata, ma resistiamo. Stando di vedetta ho avuto un miraggio, come se un gruppetto di divise cercasse rifugio tra quelle pietraie incolte. E allora come un forsennato ho richiamato l’attenzione dei miei compagni, ricevendone sberleffi e attestati di commiserazione. Tra le alture dei Pal piccolo e grande, appoggiamo gli alpini in una guerra di nervi tesi. In una radura abitiamo una capanna di legno e tre di noi stanno sempre di vedetta. Dentro c’era una stufa. Si dormiva per terra, su giacigli di paglia, avvoltolandoci in coperte di lana grigia. Ma per alimentare la stufa eravamo costretti a scendere in un valloncello sotto tiro austriaco. Andavamo a turno, prendendo per una viottola montana, attenti a non scivolare, saltando come capre tra pietroni scoscesi e con la paura di venire scoperti dal nemico. Si ritornava quasi sempre con gli scoppi della fucileria nemica. E’ da pochi giorni nella nostra baracca un prete cappellano. E’ reduce da altri fronti Don Sandrino. A differenza del diminuitivo tutto in lui è accresciuto e vigoroso. Ma ci raccontò la sua esperienza con un tantino di compiacimento, non riuscendo forse lui stesso a capacitarsi di come ne fosse uscito vivo, per raccontarla tutta. Allora decidemmo di dare la caccia ai topi, perché bisognava tentare di tutto. Ne prendemmo tre, malamente in carne, che cominciarono a squittire, sentendosi più in pericolo. Oggi a raccontarlo non ci credo neppure io, ma alla fine è stato il coraggio della disperazione. Li abbiamo scorticati, arrostiti sulla brace e, ringraziando Dio, li abbiamo divorati. Devo dire che mi sarei anche negato di assaggiarli, vedendo la magrezza e le bocche affamate dei miei compagni. Ma quasi mi costrinsero, perché altrimenti non ne avrebbero preso nemmeno loro. Era però quella carne veramente buona. Ma anche i topi scarseggiando, alla fine ripiegammo su qualche cavallo buono da macello. Lo so che non ci sono scuse, ma dobbiamo riflettere su che cosa può diventare l’uomo, se ci sono le circostanze. Al di là della morale di don Sandrino, te l’ho voluta raccontare, perché a volte le parole non bastano. La guerra trasforma i caratteri e le coscienze e gli uomini non cambiano certo in meglio. Pure nel fango delle trincee della Carnia, la vita ha gli sbocchi comuni di ogni vita umana. Ieri tra le rocce una volpe ha preso ad annusarci. Era pure lei affamata. Ma noi abbiamo riempito una gavetta di riso e gliela abbiamo lasciata.  Ci ha ringraziato, ingozzandosi frettolosa e sparendo subito dopo, tra le pietre da cui aveva fatto capolino. Questa volta penso proprio che ci vedremo di presenza, perché scuse non dovrebbero nemmeno averne i comandi superiori e le mie ferite, tutte guarite.

Ritornò come aveva promesso, per pochi giorni, perché ad Ottobre di quell’ anno ci fu la disfatta di Caporetto e tutto il fronte carnico cedette. Caduto a Zagora nel novembre del 1915, Giosuè Borsi con le sue lettere dal fronte mi permetteva di affrontare una fitta corrispondenza di umori. Andare in guerra come volontario e morire con un sorriso di riconoscimento per me era impossibile. Ma altre cose mi conquistarono dell’uomo, non solo quel perdersi fatale, ma anche una prova di fede attiva, mai scontata. Anche quel sentirsi solo nell’immensa Roma, quel cercare la solitudine ma anche il suo cercare di colmarla, per fuggire dall’avvilimento. Mi rifulgeva allora la leggenda del capitano Solarino di Modica che, mostrando la mano destra sfracellata da una bomba, incitava i fanti a vincere per quel sangue versato. Anche Ninì, il mio eroe, proseguiva per la sua strada abbandonando la sua sposa. Ma non potevo fare a meno di perdonargli questo finale, in fondo scontato, col quale tuttavia dovevo scendere a patti. La notizia della morte di Ninì sul Montello venne improvvisamente. Ma nel suo giorno di gloria potevo non perdonargli quella promessa tradita? Venne decorato con la medaglia d’oro alla memoria. Subito dopo suo fratello… uscì pazzo.

Johann Heinric Fussli, Incubo, 1781

Sono andato a trovare Jeanne in una soleggiata mattina di dicembre, quando la città sembrava insolitamente rilassata tra i rumori del traffico e gli alberi del viale, con le ultime foglie ingiallite, parevano intenti a confabulare. Sul lato destro del viale, prima di piazza Croci, le vecchie case sembravano nascondersi tra i festoni dell’edera le palme e gli arbusti sempreverdi. C’era un odore di gelsomino che rinfrescava ancora di più l’aria.
-Le ho portato il caffè…
Lei, che ne era particolarmente golosa, sembrò gradire ringraziandomi con gli occhi e mi invitò a trovare posto. Ma tutto in quella casa aveva assunto l’aspetto di uno strano bazar e le stanze tutte aperte si susseguivano come insolite caverne. Una accozzaglia di oggetti è dappertutto: sui pochi mobili che stazionavano come lugubri sentinelle addossate alle pareti, ma anche sui massicci tavoli e pure per terra. E quei versi che parlavano di un fiore su di un’alta vetta e di un viaggiatore che vorrebbe conquistarlo? Forse non se ne ricordava più.
-Mio padre aveva tre fratelli. Questa proprio te la racconto, perché a qualcuno la devo raccontare. Uno si chiamava Salvatore o Giovanni, vattelo a ricordare. Ed era un gran giocatore e donnaiolo. Una volta si giocò tutti i suoi averi e perse. Allora andò dalla moglie, a dire che dovevano sgomberare il palazzo, perché ne aveva comprato uno più bello. In realtà aveva venduto tutto, lasciando la povera zia seduta in mezzo alla stanza, a cullare sulle ginocchia il suo servizio da toilette.  La povera zia andò allora ad abitare da suo padre a piazza Noce.
-E lei la vide spesso, quella zia?
-Quando andavo dal nonno, di solito nei giorni di festa o quando la mamma riteneva opportuno invitare tutti a casa nostra. Già da allora si faceva strada una lontananza inspiegabile e comprensibilissima nello stesso tempo. Qualcosa era mutato nei rapporti della famiglia e se ce ne facevamo meraviglia, ma non si cercava tuttavia di ovviare all’intoppo, quasi si fosse rotto un incantesimo…

Quant’è bella giovinezza
Che si fugge tuttavia

Era il titolo di un tema di suo fratello Adolfo, che Jeanne aveva svolto, meritandogli la lode del professore. Ma era anche qualcosa che era venuto a cadere, nella sua vita e in quella dei suoi familiari. A proposito di componimenti, ne ricordava uno che alle elementari la maestra non si capacitava di credere che l’avesse svolto di suo pugno, trovandolo troppo intrigante. Tanto da commentare che i professori dovevano correggere i temi degli alunni, non quelli delle madri. Già… la sua passione per la scrittura! Ma anche questa era stata una vetta sublime alla quale aveva teso la mano. A dodici anni aveva scritto a Silvio Spaventa Filippi del Corriere dei Piccoli. Voleva dare la sua collaborazione a quel giornale, ma ne ricevette un cortese rifiuto. Si guarda in giro per la stanza e mi indica pacchi di cartone traboccanti di pubblicazioni: romanzetti, novelle, sue opere rimaste invendute e che lei, prima di muoversi sulla sedia a rotelle, aveva pubblicizzato tra piazza Politeama e piazza Verdi. Mi parla inoltre dell’autore del Gattopardo e mi sussurra che il Principe era stato dipendente di suo padre il colonnello. Mi mostra uno scrittoietto dallo stesso utilizzato. Poi divaga su argomenti che non riesce a concludere e rifiuta di definirsi una donna che vive di ricordi, perché non ama le acque morte.
-La donna di questi tempi è un’altra cosa. Oggi la donna non ha una fisionomia precisa. Non è madre, non è amante, né prostituta. Meglio le donne di una volta!
-Ma anche grazie alla donna siamo arrivati sulla luna.
-Ma avrebbe fatto meglio a restare coi piedi per terra, perché non c’è niente da cambiare in questa nostra terra o forse ce n’è anche troppo ma ci mancano le forze. E l’uomo ormai è troppo vecchio o forse è rimasto troppo bambino, a considerare la nostra terra come un balocco da rovinare. E la donna lo aiuta in questa missione. Meglio se la donna restava coi piedi per terra!
Continuava accalorandosi, quando entrò l’ex postino. Sembrava che avesse sbagliato porta, mezzo stralunato com’era. Si piantò in mezzo alla stanza chiedendo avete chiamato, avete chiamato… mentre sapeva benissimo che non l’aveva chiamato nessuno. Con gli occhi miopi, cerchiati da spesse lenti fissava un punto indistinto, avendo focalizzato secondo lui la signorina Jeanne.
-Ma che continuate a guardare? Se guardaste al soffitto, forse vi rendereste meglio conto delle ragnatele, dato che i ragni mi scendono fin sulla testa. Vanno su e giù… La discussione batté allora su un tasto diverso e si parlò degli sciacalli che erano scesi dai vicoli stretti del centro storico, ma anche dalle catapecchie abbandonate dopo l’ultimo conflitto. La sua casa era ospitale e inghiottiva questi bocconi amari uno dopo l’altro. E alla fine che cosa era rimasto? Polvere su polvere, le scatole della biancheria vuote, vuoti gli scomparti dove riposavano tutte le sue onorificenze: targhe, medaglie, attestati di lode e di merito. Tutte dapprima custodite sotto chiave e poi lasciate in balìa all’avidità di quelli che vedevano oro e denaro da spillare dai cassetti scardinati, dalle ante semiaperte degli armadi, perfino dai libri sfogliati sarcasticamente e rovinati nella svogliata avidità che faceva vedere tra le pagine buoni  del tesoro e cct o bigliettoni dimenticati che sempre potevano essere rivalutati alla Banca d’Italia.
-Sì quella lì che se le prenda pure, buona donna, e la catena d’oro la metta pure alla sua figliola come collare e gli altri ciondoli d’oro li gestisca come meglio crede. Così inghirlandata vada in giro a dare testimonianza e pubblicità al mio valore letterario!
Ridemmo e rise pure lei. Ma trovò sfogo nel caffè che le aveva portato l’ex postino e non aggiunse più nulla, se non un apprezzamento di meraviglia per il cornetto che fece scomparire dietro una pila di libri. Venne un ragazzino e le portò un nuovo caffè e se lo mise pure da parte. Poi squillò il telefono e mentre la signorina rispondeva, intavolando un’altra occasione per dibattere il problema del giorno, l’ex postino si rivolse a me…
-Io le dico di dare una sbarazzata a questa casa. Sbaglio? Sì la sua gloria al chilo quanto potrebbe venderla? Tutta carta straccia. E lei paga, affinché le mandino altra roba che non le serve e che non serve a nessuno. Sulla sedia a rotelle l’unica cosa che può fare è quella di stare a guardare quelli che chiama sciacalli, mentre vengono a derubarla.
-Ormai quello che hanno fatto hanno fatto. Il figlio del cocchiere è venuto perfino a puntarmi il coltello e io non ho parlato- intervenne la signorina Jeanne.
-E ha fatto male a fare finta di niente. Alla fine lamentarsene ora non serve. Non serve rimproverarsi della propria debolezza e nemmeno rimuginare su quello che andava fatto o non andava fatto. Hanno fatto a chi spoglia spoglia, signorina, ma lei non si fida di nessuno ovvero si fida solo di chi la può ingannare. Ha dato ad esempio cinquantamila lire ad uno che le pulisse il giardino e quello le ha lasciato tutta l’erbaccia di questo mondo. Non ha notato tutte le zanzare della bella stagione; io naturalmente, anche se lo volessi, una mano in quel giardino non gliela potrei mettere, perché il giardiniere me lo vieterebbe. E quello le ha puntato perfino il coltello? Non appartengo allo stesso quartiere di quello io! E non giro armato a spaventare le vecchiette con le pensioni.
-E intanto non tutti la pensano così. E non è nemmeno che sono troppo fiduciosa- disse Jeanne continuando con una pacatezza insolita…- Ma come vuole che non mi fidi di quella Pina? Quando caddi e gridai nessuno mi sentì. Lei la cocchiera però fu la prima a venirmi a dare soccorso e a portarmi in ospedale… Lo fece per approfittare della mia assenza, mi direte. Ma non posso dire se ne approfittò o non ne approfittò, non posso macchiarmi la coscienza. Nel bene come nel male se la vedrà con la giustizia divina, giacché quella terrena ha la vista troppo corta e le sfuggono le considerazioni di una povera vecchia. Mi sparì tutto quanto poteva avere un valore e di questo ne sono sicura. Ma che cosa vuole che me ne importi! Tanto eterni non siamo e tutto dobbiamo lasciare, pure la bellezza che abbiamo conosciuta e coltivato. La bellezza non salverà il mondo e la mia la venderanno a tanto al chilo o ci accenderanno i forni per preparare un pane insipido… Io ho i piedi nella fossa e quella me li tira di più. Ma ci sarà anche chi i piedi li tirerà pure a lei. La ruota gira per tutti!
-E intanto che cosa le resta signorina? Qualche quintale di carta che nessuno vuole comprare, manco buona per avvolgerci il pesce al mercato… una cassetta di sicurezza, che racchiude una qualche esigua sommetta, qualche medaglietta di similoro, una collana di perle che non si sa che perle siano. Non capendone nulla di queste cose non mi soffermo su nulla e vado avanti. E forse le fotografie di Vittorio Emanuele terzo? Non sono forse questi i suoi tesori?

Ma non erano questi i suoi tesori. Jeanne ricordava che quando il colonnello suo padre cadde malato, per quindici anni lo aveva curato. Benché fosse ateo, non lo aveva mai sentito bestemmiare. A quel tempo suo padre lavorava a traforo un piccolo presepe, che la odiata cocchiera fece poi scomparire. Ormai è da un anno che Jeanne, in seguito a una frattura d’anca, vive la sua vita su una sedia rotelle. Ma non se ne lamenta, non sembra impedita dalla sua menomazione, anzi a volte fa girare così lestamente le ruote della sua sedia, che è abbastanza pericoloso starle vicino. Le portano spesso il caffè, ma accetta pure i liquori e quando non glieli regalano telefona lei stessa al bar. Nasconde poi la bottiglia tra quelle carte vecchie, che quel postino in pensione vorrebbe vedere bruciate. Ma che ne capiscono della cultura? Il postino è come i tedeschi del Reich che, immersi nell’euforia del malto di razza, bruciarono la cultura, facendo piombare la civile Europa in un tunnel di regressione. Anche lei avrebbero bruciato, se quella inciviltà fosse durata, perché su quella sedia disonorava la razza degli dei. Ma state certi che la inciviltà di oggi è la stessa di quella si ieri. Allora come ora, non avrebbero considerato che lei aveva inseguito un piccolo fiore. Pur sapendo che era difficile raggiungerlo e infatti non l’aveva raggiunto. Per conquistarlo tuttavia s’era arrampicata sulla cima più ardua. Solo che, a portata di mano, quello era appassito. Doveva per questo mortificarsi e definire inutile ogni suo sforzo? Ma exegi… exegi monumentum chi l’aveva scritto? Andava cercando una risposta che non trovava più.

Salvatore Bommarito