Al momento stai visualizzando Itinerario cinematografico tra luoghi e solitudini. Da “Il deserto rosso” a “Le sorelle Macaluso” (3)

(… continua dal numero precedente – Lunarionuovo n.102)

Le case rifugio

LARS E UNA RAGAZZA TUTTA SUA (Gillespie, 2007)

Lars, 27 anni, vive una vita apparentemente normale in cui non trovano però spazio né affetti né legami. Ha perso la madre durante l’infanzia e del suo dolore non ha mai parlato. Vive in un piccolo paese, all’interno di una comunità molto unita e disponibile. La sua abitazione è indipendente rispetto a quella in cui vivono il fratello Gus e la cognata. Si tratta di un vecchio garage, appositamente trasformato in dependance dal colore bianco predominante, un po’ trasandato all’esterno ma molto ordinato, pulito e curato internamente. Una sorta di fortezza impenetrabile in cui Lars ha deciso di vivere, mantenendo le distanze da qualsiasi relazione sociale soddisfacente. Il distacco dalla casa e dagli affetti, in questo caso, può essere considerato l’esito di un patteggiamento con la rabbia, con la sensazione di vuoto e perdita per la morte prima della madre e poi del padre.

Lars è solito osservare dalla finestra ciò che accade fuori, nascosto dietro le tende, timoroso di ricevere uno degli innumerevoli inviti a pranzo della cognata. Questa abita insieme al marito nella casa familiare dei genitori di Lars e Gus, luogo di gioia e di dolce attesa per l’imminente nascita del primogenito. Il ventisettenne Lars ha sviluppato negli anni una vera e propria sociofobia che lo porta a vivere la solita routine tra casa, lavoro e chiesa: non c’è spazio per far tappa in luoghi di svago e di scambio sociale.

La sua abitazione prende le sembianze di un vero e proprio rifugio a difesa dall’altro. Solo a Bianca è permesso l’accesso, una bambola ordinata per corrispondenza, dalle verosimili dimensioni, che tratterà come la sua compagna, vera. Con lei al fianco, Lars trova il coraggio di prendere diverse iniziative e frequentare la comunità che accoglie la strana coppia e le bizzarrie del ragazzo nel tentativo di offrirgli una possibilità di elaborazione del suo disagio, riuscendoci.

PARASITE (Joon-ho, 2019)

Attraverso una serie di stratagemmi, un intero nucleo familiare di umili condizioni riesce ad insediarsi, anche se solo temporaneamente e in assenza dei proprietari, in una villa ampia e comoda. Lì, di fronte alla possibilità di cogliere (o meglio approfittare) della bontà della casa, ogni membro del nucleo prende tutto quanto può: la figlia si avventa sull’alcol e i genitori sul cibo, nel tentativo di saturare una fame antica che poco ha a che vedere con gli autentici significati di quella percezione di fame. I due nuclei familiari avvieranno una breve convivenza che esiterà in un violento acting out finale in cui il padre della famiglia umile, Ki-taek, rivolgerà al padre della famiglia agiata una carica aggressiva feroce, in risposta a tutta una serie di umiliazioni precedentemente subite.

Travolto dalla colpa e dalla vergogna, trascorrerà il resto dei suoi giorni in una sorta di scantinato (o forse rifugio antiatomico della grande casa), nascosto da tutti e dal mondo, scontando, a modo suo, la pena per il danno ma sottraendosi alla giustizia.

PASTORALE AMERICANA (McGregor, 2016)

Il film ambientato negli anni ‘60 narra delle vicende di un agiato nucleo familiare americano di origine ebrea, la cui vita scorre sui binari di una sana tranquillità e forse normalità, fintanto che le vicende dell’unica figlia adolescente non ne scuotono le fondamenta. Merry, questo il nome della giovane ragazza, fin da piccola si era mostrata un po’ diversa dalle altre bimbe e non solo perché balbettava. Da adolescente si unisce a gruppi militanti estremisti, compie diversi attentati e tra questi quello in cui il benzinaio vicino di casa perde la vita. Per tali motivi inizia una latitanza dalla famiglia e dalla legge che dura tanti anni quanti ne bastano alla famiglia per dilaniarsi in conflitti e malattie. Sarà ritrovata dal padre, che aveva sempre continuato a cercarla, in un quartiere malfamato, all’interno di una casa fatiscente. Esile e in precarie condizioni di salute, parla di sé stessa come fosse un automa: nel suo racconto non vi è nessun eco che possa ricondurre a una risonanza interna, come se la Merry dei tuguri fosse un’altra dalla Merry che il padre cercava, dalla figlia che il padre avrebbe voluto ritrovare.

Il padre, “lo svedese”, questo il suo soprannome al tempo del liceo, nello sconcerto del momento dell’incontro, scopre l’esistenza tra loro di una distanza incolmabile. La figlia non vuole e non può più tornare a casa: troppo pressante e soffocante il peso del passato dal quale ha già scelto di allontanarsi.  La fatiscente abitazione che le poche luci della notte ci fanno intravvedere è quanto possiamo definire tugurio: pochi vecchi, sporchi mobili in legno, una piccola brandina, non c’è luce, forse nemmeno l’acqua.  È lì che, scissa da tutto il resto del mondo e dai suoi ricordi, Merry decide di scontare i suoi peccati, espiare la colpa, giorno dopo giorno, fino al suo lento annientamento. Il tugurio è la sua punizione.

 

Se nel caso di Lars, Ki-taek e Merry abbiamo a che fare con case-rifugio funzionali al mantenimento di una distanza affettiva, a ben altra funzione assolve l’abitazione della famiglia descritta in DOGTOOTH (Lanthimos, 2009) gabbia o bunker separato dal resto del mondo, dove il padre minaccia con la violenza ogni possibilità di autonomia dei figli, ammaestrandoli come fossero animali, al fine di occultare il perverso inganno sottostante.

Il film catapulta lo spettatore nella perversione di un padre che sostituisce alla Legge morale del mondo quella della sua follia attraverso un violento disconoscimento delle regole della società, generando nella sua famiglia la falsa credenza che la casa coincida con il tutto e che lui sia la voce del tutto.

Un tutto che non lascia spazio alla soggettività, alle differenziazioni, all’estraneo sentito come nemico: pochi i libri, scarno e ridondante l’arredamento che si ripete in ogni stanza. La casa, rigorosamente separata dall’ambiente ha la duplice funzione di garantire la fusionalità tra il Sé Grandioso del padre e l’oggetto (la famiglia), e diventare condizione fondamentale per preservare il dominio sui figli.

La stessa sete di dominio la ritroviamo in Old Nick, il padre persecutore di ROOM (Abrahamson, 2015), che rinchiude in una asfittica stanza la giovane compagna, rapita all’età di 17 anni, insieme al piccolo figlio nato nel corso della segregazione.  Entrambi padri-persecutori hanno bisogno di affermare il piacere del dominio sulle persone in uno spazio angusto o grande che sia, che possa sostituirsi ad un tutto che viene ri-creato affinché si possa stabilire l’illusione nella mente psicotica e perversa, che quello spazio coincida con il tutto.

Sono ambienti unici che hanno l’obbligo di simulare il mondo affinché il mondo, quello vero, possa essere percepito piccolo e poco importante a dispetto di quello simulato dove ci si possa sentire grandi e dominanti anche, e soprattutto, nell’esercizio del controllo dell’altro.

Vi sono poi altri casi in cui l’ambiente, la casa, e il suo portato evocativo   devono essere allontanati dalla coscienza, come nel caso di Edie Sedgwick.

FACTORY GIRL (Hickenlooper, 2006)

Ispirato alla vita di Edie Sedgwick (1943-1971), bellissima icona fashion degli anni ‘70, appartenente all’alta borghesia wasp americana, morta all’età di 28 anni. Dedita ad ogni sorta di abuso, dopo una rapida ascesa nelle copertine più glamour del tempo, dopo i film con Andy Warhol, è vittima di una brusca caduta verso la solitudine, la dipendenza, il vuoto. Da piccola era stata ripetutamente abusata dal padre il quale, di fronte alla rivelazione del segreto   di Edie alla mamma, la fa ricoverare, ancora adolescente, in una clinica psichiatrica. Poco più che ventenne giunge a New York, conosce Andy Warhol con cui instaura una relazione fusiva, fortemente caratterizzata da un continuo fluire di identificazioni proiettive. Si appoggia a lui e alla Factory così come vorrebbe appoggiarsi al mondo intero, nel tentativo di trasformare quest’ultimo in un grande sogno, dove non esistano regole e ordine, avvalendosi anche di pesanti sostanze stupefacenti per rinforzarne la potenza illusoria. Edie, incapace di separarsi dalle sue dipendenze, sembra avere quasi paura di uscire dal sogno come se sapesse che svegliandosi potrebbe ritrovarsi al di là di quel solco che divide la vita vera dalla quella immaginata, l’attuale dal passato. Ha bisogno del sogno per allontanare il ricordo della perdita dei fratelli, per isolare il trauma dell’abuso infantile, e le sostanze la aiutano a sollecitare la mente per distanziare il ricordo traumatico, relegandolo in ambiti tanto isolati quanto lontani.

“Lo speed era carburante per missili. Era l’unico modo per stare al passo… era quella la grande tentazione della Factory… era una festa perpetua ed io ero felice di perdermici dentro”

 

Il grande salone della Factory anticipa, o forse, introduce il concetto di open space come soluzione architettonica dello spazio moderno privato in cui l’accesso alle case è organizzato da un grande salone che offre alla famiglia la possibilità di accogliere con agio gli eventuali ospiti. Se il grande open space della Factory ha avuto il grande merito di accogliere la pop art non possiamo attribuirgli quello d’aver accolto, parallelamente, movimenti espressivi   perversi, in qualche modo limitrofi all’arte, che hanno già reso ancor più confuso quanto di poco chiaro vi fosse dentro la fragile Edie. La Factory appariva agli occhi della giovane star come un luogo intrigante, sì grande e accogliente ma privo di organizzazione, di ordine: ogni persona che vi accedeva poteva fare arte, se vi riusciva o, altrimenti, fare tutto quanto gli passasse per la testa in nome di quel finto concetto di conquista della libertà, maldestramente fatto coincidere con quello di negazione della regola esperita   come limitazione di libertà. Era l’espressione della sua confusione interna, di una mente che ha bisogno di mischiare la memoria con le sostanze per non riconoscere il senso di un’emozione antica, il significato dell’ansia o il peso del vuoto interno.

 

Tutti e tre i film hanno la caratteristica comune di trasformare le case, o i contesti di vita (la Factory per Edie Sedgwick), in “grandi boli” ovvero impasti di relazioni, endopsichiche e non, che possano affermare la coesistenza di nuclei psicotici (lo spazio dentro la casa) e di nuclei maggiormente adattivi (lo spazio oltre la casa) a salvaguardia di uno pseudo-equilibrio maldestramente raggiunto.

Sono abitazioni caratterizzate “dalla necessità di essere rifugio” ovvero di luoghi dove depositare quote di “non vitalità” e controllare, al tempo stesso, aggressività personali non riconosciute per neutralizzarne il potenziale autodistruttivo.

 

Tra lo scrigno e il rifugio

LA MIGLIORE OFFERTA (Tornatore, 2013)

Virgil Oldman è un battitore d’asta sessantenne di fama internazionale. Vive in una bellissima e grande casa dove alla ricercatezza dell’arredamento classico, si affianca una cura ossessiva per il guardaroba: possiede un considerevole numero di guanti, che abbina sempre alla sua impeccabile mise, la cui funzione è quella di proteggerlo dal contatto diretto con l’altro. All’interno della casa si trova una grande stanza, il cui accesso è regolato da un codice segreto, interamente tappezzata di quadri raffiguranti volti di donne: una inestimabile collezione a cui il protagonista ha dedicato tutta la vita. Rigoroso con i suoi collaboratori, maniacale e ossessivo nel lavoro, sprezzante con i pochi amici, Virgil si impone nelle relazioni senza farsi mancare l’occasione per esprimere il suo sé grandioso. Ma tanto è esperto nel lavoro, quanto incerto con le donne al punto di rimanere vittima di un clamoroso raggiro. Un gruppetto di sedicenti amici, con a capo un pittore da sempre disprezzato da Virgil perché ritenuto poco talentuoso, mette a punto un riuscitissimo piano, tanto strategico quanto sofisticato, per rubargli la preziosa collezione. Fondamentale, nel colpo, il ruolo di una giovane donna che attira a sè lo sprovveduto Virgil Oldman facendogli perdere prima la testa e poi i quadri.

Come per caso, nel corso del film si viene a sapere dell’infanzia del protagonista trascorsa in orfanotrofio. Non é dato sapere come il piccolo Virgil ci sia arrivato, ma non ci sembra per niente casuale la scelta del grande Virgil di circondarsi di sguardi di donna. Al riparo da tutti, l’austero e freddo Mr Oldman si fa costruire dentro casa un rifugio, o scrigno, dove collezionare decine e decine di sguardi da cui farsi abbracciare, toccare. Sedersi al centro del suo scrigno è un momento di autentico godimento, è un’affermazione di potenza, è un riparo dove poter cedere ad antichi bisogni attraverso il quale sopperire a una mancanza sofferta nell’infanzia: quella di essere guardato, ammirato, essere oggetto d’amore. È il riaffacciarsi ad un sentimento di antica beanza di quel bimbo un tempo avvolto dall’amore dello sguardo materno.

La scoperta del furto e della stanza nuda è più di un colpo, è un crollo, un cadere a pezzi. Lo sconcerto provato nell’apprendere di essere stato raggirato dalla giovane donna amata e da quello sparuto gruppetto di persone, ritenute amiche, determina la caduta di Virgil in una condizione di profondo smarrimento, in una sorta di stato catatonico da cui lentamente, e solo parzialmente, si riprenderà, forse simile a quella condizione antica di smarrimento di bimbo piccolo abbandonato, davanti l’orfanotrofio.

Anna La Rosa, dirigente psicologa ASP CT3
Barbara Farina, tirocinante psicologa
Mattia Mammone, tirocinante psicologo

(…continua sul prossimo numero)