Al momento stai visualizzando Corda tesa tra opposti desideri. Appunti per la poesia di S. Aglieco.

In una sua antica intervista con Maurizio Casagrande, Nel vuoto, dalla balaustra del campanile barocco (In un gorgo di fedeltà. Dialoghi con venti poeti italiani, Il ponte del sale, Rovigo 2004, pag. 23) Sebastiano Aglieco afferma testualmente: «Non c’è solitudine se si viene giudicati. C’è solitudine se non si viene giudicati». È presente e operativa in questa dichiarazione perentoria del poeta, in questo che si configura come un doppio speculare tutta la tensione di una corda tesa tra il desiderio assoluto ed eticamente esigente a rimanere fedeli alla vita e la parallela necessità di costruire ponti per una stabile e significativa linea di comunicazione con gli altri. Possiamo dire con ragionevole certezza che, in Sebastiano Aglieco, nasce qui la costante ricerca del silenzio e del confronto con la pagina bianca, che è, poi, in definitiva, il luogo dove questa corda tesa tra opposti desideri può vibrare ed effettivamente vibra, in ogni singolo verso. Infanzia resa è perciò un macrotesto: un poema che tende alla narrazione, rimasto incompiuto (secondo la migliore accezione del termine) proprio perché il poeta e la sua poesia oscillano alla costante ricerca di un equilibrio fatalmente instabile: c’è la vita con le sue declinazioni e i suoi infiniti modi per nominarla; c’è il poeta interpellato dalla vita, tra impedimenti e percorsi alternativi.

E intanto che ci lasciamo affascinare dalle poesie che Aglieco ha opportunamente selezionate e raccolte, una dopo l’altra, in questo volume, una domanda incombe su tutte: Dove va la poesia italiana in questo primo scorcio del XXI secolo? Ora più che mai ci pare di poter dire che la poesia italiana vada dove ogni singolo poeta, passo dopo passo, la conduce, attraverso la propria visione poetica e, coerentemente, attraverso la propria produzione. In particolare, la poesia, attualmente, non sembra disdegnare, tra le altre, la strada tracciata dai cosiddetti “appartati”. Nel senso che poeti che vivono in disparte ve ne siano un buon drappello e nel senso, anche, che questa strada, o per meglio dire, questo dipanarsi di strade stia producendo risultati esemplari nel campo della letteratura. Esemplari e anche fecondi, a volerli comprendere fino in fondo; e che tuttavia sono difficili da valutare, proprio perché si tratta di investigazioni approntate da parte di personalità distanti dalla vita mondana e che rimangono perciò endemiche e poco note al pubblico già assai ristretto dei lettori di poesia. Se dunque esemplarità e fecondità caratterizzano questa schiera di poeti, ciò è possibile comprenderlo sempre che non si perda mai di vista quanta e quale differenza ci sia tra la poesia (quella concretamente vissuta e quella che viene più o meno abilmente trasfusa in versi) e i trionfi che da questa deriverebbero. Tanta coerenza si paga, però, con l’anonimato. E se è pur vero che non tutta la migliore produzione poetica sia per così dire marginale, è altrettanto vero che non sia possibile avere un’immagine veritiera della poesia contemporanea, in Italia, senza tenere conto del prezioso lavoro svolto da questi rigorosi cantori della vita.

Sebastiano Aglieco percorre una via tutta personale alla poesia e nondimeno conosce e trae ogni vantaggio dalla quotidiana frequenza con poeti di ogni sensibilità: dai poeti laureati, ai dimenticati, agli scomunicati e perciò banditi dal recinto sacro della letteratura, agli appartati. Egli non è fuori dal recinto sacro, ma dentro, e tuttavia non esclude alcuno che ritenga meritevole. A cominciare dai suoi giovanissimi allievi. Perché Sebastiano Aglieco è maestro alle elementari e poeta. E le due cose non sono affatto separate, ma piuttosto si cibano l’una dell’altra: esprimono, ciascuna, massima apertura al mistero e perciò anche massima apertura al sacro. Seguendo questa fondamentale ispirazione è stata concepita e quindi portata a compimento ogni poesia contenuta in Infanzia resa, che è la prova, nero su bianco — semmai ce ne fosse bisogno —, che insegnare sia una questione di comunione, per quanto sempre in fieri; che il poeta e la sua poesia siano anch’essi una questione di comunione. E tuttavia Infanzia resa è molto più che una semplice prova: nella scrittura poetica di Sebastiano Aglieco la parola e la realtà non si fondono e non si confondono: diventano piuttosto una cosa sola, pur se distinte. Unità e distinzione sono perciò le solide fondamenta sulle quali viene edificata l’arte poetica di Aglieco e ne garantiscono la sostanziale libertà; nel caso di specie, la libertà d’artista: «Liberate il vostro nome segreto / riconoscetelo dal nulla portato dalla / parola che nomina per la prima volta il fiore». C’è, come si comprende, un nulla che è pieno di disponibilità e di meraviglia, da cui zampilla sempre nuova e fresca poesia, dalla quale attingere. Ed ecco che Aglieco, altrove, può comandare ai poeti liberamente e in tutta franchezza di andare: «Andate, poeti / dove cresce la gramigna da estirpare»; ai fiori, contestualmente, può comandare di rimanere: «Restate in questa terra, purissimi e / poverissimi fiori, dove l’infanzia è resa e / non c’è tempo». Si dipana da qui quel formidabile intreccio che c’è tra la parola e la realtà: diviene evidente presenza, e il suo «[…] nome segreto — che — è “Amore”» può essere rivelato.

Insomma, la parola e la realtà si possono incontrare e scontrare, se è necessario, ma solo nel tempo breve in cui l’infanzia è resa, e il luogo dove questo accade concretamente è la natura. Il tempo in cui avviene quest’incontro è breve e perciò insufficiente per stabilire «le cose da dire / le cose che dicono di noi»; le «parole che si vestono del lusso della / rosa, che della scorza dell’infanzia / non ricordano più niente». Occorre lasciare per così dire che l’infanzia faccia il proprio corso: «[…] la vita è questo stare / qui, lasciare che il giorno / tramonti senza nome […]». Nell’infanzia resa, restituita a se stessa, alla propria purezza originaria, c’è la fondata possibilità che i sentimenti più genuini vengano recuperati: vita autentica e poesia autenticamente vissuta. E d’altra parte il termine resa nella raccolta ricorre dodici volte, a significare l’accordo o il disaccordo tra le parti; l’arrendersi di fronte all’evidenza; l’esito di una qualche azione, la poesia che ritorna a ispirarsi a sentimenti autentici. Un ampio ventaglio di significati conduce lettore e scrittore fin nelle pieghe più nascoste della loro stessa esistenza. Protagonisti del viaggio al centro della poesia in Sebastiano Aglieco sono i suoi giovanissimi allievi, poiché quest’opera a loro si ispira, a loro è dedicata, dalla loro vibrante umanità trae sostanza, vita e vitalità. Scrive così uno degli “angeli custodi” del maestro Sebastiano: «L’aquila ha perduto la sua altezza e non trova il maestro che le dona la cosa più importante, la cosa che ti rende un bambino emozionato». Della medesima opinione è lo stesso Aglieco (in Gli alberi poeti/ci. Un’esperienza di poesia con i bambini, “Il Segnale”, Anno XXXIV, n° 102, ottobre 2015), che concordando sulla fondamentale emotività dei bambini, aggiunge: «[…] nessuna conoscenza è interessato a sviluppare il bambino, se non è “fare insieme”». A fare cioè comunione, che rimane la forma più concreta e profonda di fare insieme relazione. Scrive tra l’altro in Quinta B: «A mmanziòrnu, n / fila ma tà vasatu / l’ammi ciùciùliàvunu / i iammi s’abbrancicàvunu / supr’a mmia / nichitti sunu / i paròli ro chiantu. (A mezzogiorno, in / fila mi avete baciato / le anime sussurravano / le gambe si arrampicavano / sopra di me / piccole sono / le parole del pianto». A un dato momento il dialetto irrompe, ineludibile per quanto circoscritto a sole quattro poesie. Aglieco fa un uso peculiare del proprio dialetto, che non deriva specificatamente dalla parlata di Sortino, la cittadina in provincia di Siracusa dalla quale egli proviene, ma è il portato delle esperienze linguistiche della Sicilia sud-orientale; esperienze conosciute e introiettate dal poeta, prima del definitivo trasferimento a Milano. L’uso che Aglieco ne fa — benché sempre oculato e parsimonioso —, contribuisce a fare chiarezza sulla stessa personalità del poeta, che dalle proprie origini trae ispirazione e forza. La lingua delle madri e per una volta anche quella dei padri si effonde liricamente nei suoi versi, cosa questa che ci persuade a indugiare sul valore della sua peculiare diglossia. Nel senso che alla versione del dialetto custodito dalle madri, la cui esistenza si svolgeva quasi esclusivamente tra le mura domestiche, Aglieco associa la lingua delle relazioni esterne, che simbolicamente appartiene ai padri: alle fatiche dei campi e alla difficoltà di farsi comprendere dagli altri. Sembra un risultato davvero degno di nota.

(Prefazione a Infanzia resa, Il Leggio, Chioggia 2018)