Al momento stai visualizzando Commento a “Oltre l’accaduto” di Vittorio Stringi

Nella sua riflessione che ormai dura da molti anni sulla dissoluzione della nostra identità antropologica il libro di Vittorio Stringi  “Oltre l’accaduto” (Prova d’Autore, 2014) si spinge ad un punto di non ritorno che ci impone ad una riflessione radicale su “chi siamo e come siamo” che spaventa ed affascina in modo totale. Testo complesso che si presta  a molte letture. Senza nessuna pretesa di un’analisi completa del testo voglio sviluppare tre filoni di riflessione a me molto cari.

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IL TEMA DEL DOPO
Oggi, conseguentemente, al compimento del nichilismo pare connettersi un pensiero che possiamo definire del “dopo”. Siamo, teoreticamente parlando, dopo la filosofia, dopo la virtù, dopo l’obiettività, dopo le ideologie. E nel crollo del modello di sapere che nella modernità aveva prevalso qualcosa di epocale effettivamente è accaduto. E’ venuta meno, infatti, non tanto, o soltanto, una singola visione ideologica, ma la stessa matrice ottimistica a fondamento di tutte le ideologie. Pertanto, nel ‘900 si è assistito alla crisi generalizzata non solo delle filosofie della storia, ma di tutti i progetti totali di emancipazione dell’umanità, di cui esempi classici erano appunto la filosofia hegeliana, il nazionalismo, il marxismo, il liberalismo economico e politico.
Ma non basta, perché il postmoderno, prima ancora di indicare la crisi di una visione della storia o di una visione del mondo, denuncia la crisi di una visione dell’uomo. Denuncia una perdita di fiducia nell’uomo e nelle sue capacità di comprendere e di agire. E’ incredulità verso tutti i progetti teorici, pratici o tecnici che si reggevano sulla fiducia pregiudiziale nelle opere dell’uomo.
Caduta quella fondamentale fiducia, si è determinata la crisi nei diversi ambiti: nella morale, nella politica, nelle istituzioni, nella storiografia. E non a caso si è parlato di crisi del soggetto e di crisi della ragione, e, in modo ancora più radicale, di crisi dell’uomo.
All’origine della modernità non c’è, in effetti, solo un modello di sapere o una visione progressiva della storia. All’origine della modernità c’è innanzitutto una certa idea di uomo, che comincia a delinearsi con l’Umanesimo e con il Rinascimento e che si afferma con l’Illuminismo. Un’antropologia della libertà e dell’autosufficienza della ragione, potremmo definirla, che s’impianta sull’uomo inteso come soggetto, come ragione, come libertà. La modernità è dominata dall’idea di un soggetto forte, portatore di una ragione forte e di istanze morali emancipatrici, che cioè si dilatano a trasformare il mondo civile.
L’epoca della crisi, la postmodernità, all’inverso, va incontro ad un soggettivismo relativistico, negante l’uomo che non è capace di dare ordine al mondo né di dirigere la storia. Il mondo è sempre più complesso e complicato, per certi versi incomprensibile e sfida l’uomo e la sua ragione, contraddicendo le sue sicurezze. I processi storici si accelerano e s’intrica. Il ritmo dell’esistenza si fa sempre più frenetico. Corre la storia. Corrono gli uomini. Corre il flusso di informazioni su internet. Ma il punto è che manca la direzione!
Postmoderno significa innanzitutto l’esperienza della perdita di un télos, di un senso, e, conseguentemente l’esperienza del decentramento dell’uomo. L’uomo del dopo vive spiazzato, convivendo con le angustie del presente e con le sue personali idiosincrasie. Vive in un’atmosfera di tramonto, senza entusiasmi e senza speranza. Non manca di nostalgia per il passato, che sente ancora prossimo, ma appare incapace di immaginare un futuro.
L’oltre di cui ci parla Vittorio Stringi ci restituisce in modo poetico e potente questa esperienza di perdita di senso e di spiazzamento a cui non c’è rimedio e non c’e consolazione, solo la consapevolezza, suggerisce indirettamente il poeta, che può darci il coraggio di vivere e convivere con questa verità.

CONSUMATORI TRISTI
Il libro di Vittorio Stringi è attraversato dal sentimento della morte, ma non è solo la morte dei singoli uomini, fatto ineludibile nel ciclo biologico della specie, è la morte dell’uomo come identità antropologica ed esistenziale, così come l’abbiamo conosciuta fino ad ora.
E l’uomo muore proprio perché ha inseguito attraverso il consumo il mito dell’immortalità. Provando a capire come si è giunti a tutto questo,  ci accorgiamo che la rimozione della morte ha iniziato quando illusoriamente  a tutti è stata garantita la possibilità di scalare la gerarchia sociale sino ai suoi vertici. Se l’immortalità è a portata di tutti non c’è bisogno di tagliare la testa a nessuno, non esistono rivoluzioni da fare in un simile contesto. La democratizzazione del consumo è un passaggio necessario per liberare le capacità di crescita dell’uomo. Accumulare senza consumare non avrebbe senso. Non servirebbe a nulla. Perché l’accrescimento ed il consumo non abbiano mai fine, è necessario che allo schiavo siano dati gli strumenti affinché possa sentirsi padrone: non esiste vittima più contenta di quella che crede di brandire il coltello sacrificale.  Fino a quando può consumare, l’uomo non corre il rischio di tornare alla sua condizione di vittima. La morte deve essere un problema privato affinché il farsi consumatori possa funzionare. La massa degli uguali assume un carattere dispregiativo, troppo simile a tutti quegli oggetti pronti per essere consumati. La transizione della morte da una dimensione collettiva ad una individuale ha la funzione di affidare all’individuo la responsabilità del suo essere consumatore o oggetto di consumo.
Consumare più di quello che ci si può permettere non è un tabù, ma un vero e proprio dovere morale. Non esiste accesso al consumo senza contropartita, perché il dono, per quanto scintillante esso sia, è sempre il sostituto di qualcosa che non può essere detto, che non può essere palesato. Negli ipermercati osserviamo i creatori del dono cedere pezzi di vita per acquistare oggetti che sono fatti delle loro stesse vite. Tutti, senza distinzione di età, sesso o religione, incrementano il loro debito pur di non cedere alla tragica verità di non possedere nulla, ma di essere posseduti. Il segreto del consumare per non essere consumati è tutto qui. Sembra non essere cambiato nulla: se prima era il debito verso Dio ad ipotecare le vita dell’uomo, ora è il debito verso il consumare che determina una dipendenza che ha proprio nella spinta alla liberazione il motore della propria schiavitù. E la crisi economica non ha cambiato il meccanismo, non siamo più disperati perché come suggerisce Vittorio Stringi ci siamo allontananti dalla nostra anima, siamo disperati perché non possiamo più consumare come prima.

LA SOLITUDINE COME STANZA DELL’ANIMA
Non ci da speranza la poetica di “oltre l’accaduto”, ma ci indica la possibilità di  percorrere la strada della solitudine per assumere coraggiosamente su di sé la responsabilità di essere “uomo” e di non arretrare di fronte al proprio destino
Oggigiorno, la noia, il silenzio, il guardarsi intorno non programmato sono diventati dei tabù e vengono considerati anche come sintomi di disagio. L’esplorazione di un giardino e dei suoi segreti, per esempio, è accolta solo se diventa un’esperienza collettiva, didattica, con tanto di conduttore, orari… Siamo, cioè, immersi in un modello di cultura estroverso, rivolto al di fuori, all’attività, al fare, le cui conseguenze sono iperattività  e mancanza di capacità di concentrazione che educatori e genitori rimproverano ai bambini, intervenendo a volte anche con farmaci, ma che riguarda anche gli adulti, anzi è un tratto distintivo della nostra società.

Lo sviluppo continuo dell’estroversione e dei comportamenti organizzati emarginano l’introversione e la spontaneità e fanno crescere solo una parte della psiche, quella legata all’attività e alla socializzazione ed a rattrappire quella orientata all’ascolto e alla ricerca. E la paura della solitudine è uno dei risultati dello sviluppo di questo modello culturale. L’individuo, cui da piccolo è stata evitata l’esperienza della noia, rischia da adulto di essere una personalità più debole, in quanto più dipendente dagli altri.

Ciò che la solitudine rende, dunque, possibile,   e di questo ci da dimostrazione la poesia di “Oltre l’accaduto”  è quello stato di silenzio interiore, in cui viene sospeso il discorso dell’intelletto; in cui tace il linguaggio affermativo dell’io; in cui avviene una spoliazione di tutti gli investimenti e delle pretese; un ritiro dal mondo per tenere a distanza le sollecitazioni ambientali per difendersi dall’ovvio, dal banale, dal troppo e dall’inutile, in favore di un “lasciar essere” le cose e gli eventi. Noi ci allontaniamo dalle seduzioni del mondo in cerca di un nutrimento diverso che permette quel processo di integrazione che si dipana lungo l’arco della vita, consentendo all’individuo di percepire un continuum dell’esperienza esistenziale.

E la solitudine diventa allora un luogo sacro, dove far vivere il nostro essere; la zona più segreta della nostra individualità, lo spazio della libertà, dove nascono e si alimentano, fin dall’infanzia, le energie creative; un luogo intimo dove prendersi cura di sé e dove è possibile inseguire la nostra voce più profonda.

E’da questa “stanza dell’anima”, dal nostro santuario interiore che possono sgorgare le nostre preghiere e l’accettazione profonda di ciò che è ormai compiuto e a cui come ci fa capire Vittorio Stringi non c’è rimedio.