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L’ennesimo varagghio mi fu fatale!
Mi ero disvacato sulla panchina oltre l’Amenano, all’ombra dei ficus dalle radici aeree attorcigliate sul tronco, morto di sonno di bimbi irrequieti, e sbirciavo svogliatamente la statua di Pacini, cercando di indovinarne lo spirito, di immaginare il motivo che l’aveva condannato a tanto oblio, spostato qui dalla piazza degli Studi, “Giovannino, ma comu ti finiu?”, ero pure troppo stanco, troppe ore perse, gli sbadigli si inseguivano perentori e insoddisfacenti, la villa, Pacini, o “Bacini” come la chiamavamo con i miei figli (la villa Bellina invece potete immaginare quale fosse…) o villa degli sbadigli, varagghi, recriminava voluttuosamente il suo nome…
 
I due omoni pieni di simboli borbonici e senza testa mi requisirono costringendomi a correre al capezzale del moribondo, “Vuole la confessione, padre”, dissero. La confessione? Da me? E che sono parrino? Ma poi chi?
 
Il moribondo sibilava come avesse una nidiata di gattonelli nel petto, come un palloncino che finisce di sgonfiarsi, come un concerto di fiati in pianissimo. Un sorgente luminosa imprecisata proiettava una luce caravaggesca sui suoi occhi ancora spiritati, riempiendo il resto dell’alcova di ombre sinistre. Prima che avessi la possibilità di spiegare l’equivoco, il moribondo si segnò con un gesto impercettibile di indice e medio, e cominciò a vuotare il sacco, o il palloncino, o il polmone, non saprei!, senza darmi possibilità alcuna di rispondere alle sue retoriche questioni, che si susseguivano senza posa:

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Colpevole o non colpevole? Eh! Mi dica padre! Bel dilemma! Fosse possibile cernere e discernere, muovere sapientemente il crivo per trattenere il buon grano e lasciare la pula al vento, tagliare chirurgicamente e senza pietà vita da cancrena verminosa! Padre, se voi odiate a morte, e la sorte, senza degnarvi di complicità, vi esaudisce, siete colpevole? Siete meno innocente? L’innocenza può essere colpevole di ignavia e la colpevolezza virile disposizione a caricarsi di responsabilità…

E poi: genio o mediocrità? Altro dilemma! Come puoi aggiungere una nota alla creazione divina? E anche: con che presunzione sottrarsi dal partecipare alla creazione, che ti attraversa e crea per tuo mezzo?

Confesso. Che mi fondevo in lacrime, l’emozione mi confondeva, e mi infondeva una fede assoluta, quando, fanciullo, mi trovavo nel mezzo alle celebrazioni, e l’organo di San Nicolò alla Rena squillava creazioni sublimi, di partiture, di timbri e di tecniche, riempiendo si senso il volume inutilmente ampio della chiesa interminabile. Ero io stesso una corda che suona, il mondo intero altro non doveva essere che un complesso, ardito, armonico strumento musicale, fin nelle sue fibre: tutto riconducibile a stringhe, vogliose di risuonare, al soffio di Dio.

Gli altri bambini giocavano, sfogando con la vibrazione dei muscoli la costrizione degli studi, ma per me nulla fu più abbastanza, volevo, dovevo capire: ma come fa la musica a farti piangere il cuore? Come fa a sollevarti l’anima? E studiai, ah se studiai! “Se riesco a capire come fare a creare qualcosa di simile”, mi dicevo, “sarò parte dell’Eterno, un piccolo creatore”, che piccolo lucifero! Ma mentre il profitto nello studio era eccellente, mi sorprendeva l’aridità della mia creazione, non avevo il tocco magico: riconoscevo evidenti i meccanismi delle mie composizioni, come le vene bluastre e ristagnanti sotto la pelle diafana delle fanciulle, e mi trovavo inconcludente, plagiatore, banale.

Ma non mi scoraggiai: compensai quello che non avevo di genio con lo studio folle e senza speranza, distillai la sapienza della composizione. Trovai il modo di nascondere la costruzione, di spacciare per genio l’intima comprensione artigianale e mi feci riconoscere maestro.

Ero già il Pacini riconosciuto erede di Rossini, direttore del San Carlo, a Napoli, quando mi dissero: “Il compaesano tuo”, certo Vincenzo Bellini, fresco diplomato al Conservatorio, e lo ricevetti come si riceve il giovine: timido, slavato, buon e buon è, certo non un catanese tumultuoso e vulcanico, ma d’altronde entrambi eravamo catanesi per caso… Mi legò le mani, come s’usa da quelle parti, “’sabbenadica”, come a cercare in me il padrino, il padrozzo, non gli negai la mia benedizione: “santo ricco nobile e contento!” Mi pregò di dare un’occhiata alle sue prime cose, me ne impegnai bonariamente, promisi svogliatamente, in nome della compaesanza, di dirigere il suo debutto.

Ma la sua musica… oh! Semplice, divina, nessuna traccia di artifici, come fosse necessaria e naturale: la ciaramella dei malettesi che scendevano dalle montagne per suonare la novena di Natale, a Catania, ecco cosa mi ricordava. Con tutta la magia delle ‘cone addobbate. Costruzione geniale, melodia inaudita e subito riconosciuta, che si fonde con l’armonia facendosi forza del meno: dategli un limite e vi solleverà l’anima!

Lo invidiai? Tremendamente: è colpa? Assicuro, nessuna volontà di male, ma mi ero scavato gli occhi al lume di candela per avvicinarmi solo vagamente a quella sublime perfezione. Perché a lui e non a me? E perché, mio Dio, non mi hai reso almeno cieco a questa conoscenza?

M’ero impegnato e diressi il suo debutto, dicevano che manomettessi volutamente le opere altrui per farle sfigurare, ma si presentavano certe campane sorde! Epperò Bellini non era tra questi! Mi costrinsi qua e là a fare qualche appunto: “qui troppe note, lì troppi gorgheggi”, e riorganizzai la partitura, rividi l’orchestrazione, come era d’uso per i direttori, come segno di gerarchia, come per marcare il territorio, non pensavo neanche che se ne sarebbe rabbuiato così. E invece, il cigno quando s’inc…

Se ne scappò a Milano, e lì fu eclatante. Io mi preparavo da anni a quel salto e quel bambinone… E le dame gli si squagliavano davanti, e quello, niente, marmo che non suda, ma che catanese sei? Che marca elefante? Soldo falso!

Lei, Giulia di Pahalen, la principessa Samoyloff, la polledra ardente, la bastarda di sangue reale, imperiale, zarista… se lo mangiava con gli occhi a Vincenzino, e che occhi! Capelli di sciara e occhi profondo mare, e gote di fuoco: pareva Acitrezza con la bonaccia. Dovetti accettarne la presentazione da parte sua, di Vincenzo Bellini: che cosa era stato fra di loro? Mentre facevo il baciamano bruciavo già di desidero e già di gelosia.

Invece Bellini aveva preferito le tranquille acque della Giuditta Turina, cosa che deve aver esasperato la tempestosa principessa Giulia che brigò per mezzo di lettere anonime presso il marito cornuto della Turina. Ma io no, non mantenni la flegma, m’infiammai di quella Siberia, m’ubriacai di quel distillato di generazioni di cortigiane imperiali, fiamme e veleno, fuoco di lapillo nelle sue sfuriate, fuoco di febbre nelle sue cavernosità, fuoco di zolfo nelle sue magie: mi stregò certo, filtri o malìa che importa, che cambia? Avrei accettato ogni dissoluzione nelle sue pozioni, nei suoi umori, nei suoi fumi. Come la mia testa, le voci giravano vorticosamente, sulla sorte straordinariamente corta dei suoi mariti, e su imperiali incesti. Ma che potevo fare io? Che volevo? Che potevo volere?

L’organizzazione del fiasco della Norma fu cosa sua, della intemperante Giulia, non ne dubito pur non avendone prove, per amor mio, mi lusingo, brigò con le sue amiche, pagò, minacciò, vi riuscì. Per poco tempo vi riuscì. Io lo sapevo? Cosa sappiamo veramente, quello di cui veniamo a conoscenza increduli o quello che intuiamo con chiarezza senza dover toccare con mano? Io intuii, non approvai certo ma mi cullai nel sentimento di quelle attenzioni della mia amante, e nell’immaginare la delusione del mio implicito accusatore di mediocrità.

Ma a che serviva?: mentre lo fischiavano e schiamazzavano e muggivano i prezzolati, io, nascosto e travisato nel buio del mio palco, piangevo: di delizia e di invidia rimescolate: speziati sbuffi del Mongibello, turgide fontane di lava, e colata dorata che distrugge e risana, e poi, subito dopo, introdotti appena da un nonnulla di note in maggiore: l’odore di astragalo che perfora le cime innevate, l’ardore della ginestra che riprende possesso della pietra morta, la zagara con il sole dentro, a colorare l’aria netta e la luce squillante della Sicilia in primosole…

Il mercurio venne più tardi, a Venezia un sentore, e poi a Parigi. Venne il mercurio ad avvelenare la gloria al suo culmine, venne mercurio o la malasorte, chi prima? Chi di più? Magari a braccetto, chi più colpevole, chi meno innocente.
Non lo desiderai, non sempre, non con tutto me stesso. Ma ero esacerbato, inseguito, braccato dal quel biondino celestiale. La sua musica accusava i miei poveri artifici.
La principessa ne aveva le arti e le bastava l’animo, son sicuro senza prove. Quella certa acrimonia, nei confronti del Vincenzino, doveva pur presupporre trascorsi che non seppi e di cui fui, ciononostante e vieppiù, gelosissimo.
Ma la notizia della morte mi fu di istantaneo sollievo e mi sprofondò purtuttavia in un buio disperato e duraturo.
A che pro? A chi? Alla sua gloria certo. Egli sublimò. Io sopravvissi, per troppo, lungo tempo, ancora mediocremente artigiano, maestro seppure, ma colpevole, non so bene di cosa e in quanta parte, e il nodo da sciogliere mi rimase fino ad ora, voglio confessare, devo sciogliere, prosciogliere, e disciogliermi.

Quando raccontai a Puskin che stavo scrivendo un requiem per Vincenzo Bellini, egli mi fece notare che sembrava la storia di Mozart, e mi sentii un Salieri destinato a vivere sempre di luce riflessa come luna, come mercurio vicino al sole, quel mercurio che trovarono dicono nel suo corpo, ma chi può saperlo? Puskin, nella sua brama da piccolo creatore, ci fece subito una piece teatrale e mi offrì di musicarla, lo sfacciato! Ma ebbe anche lui la fine che si era scritto!
Ebbi l’impudenza invece di proporre il Requiem in memoria di Vincenzo Bellini, perché lo accompagnasse nel trionfo della traslazione delle sue spoglie a Catania. Citai evidentemente, ripresi, in apertura, l’attacco del Communio del Requiem di Mozart, affinché fosse chiaro il mio cospargermi di cenere il capo, ma poi chiaro a chi se non a me stesso, e forse a Puskin a quei morti morti, nella vana pretesa che ciò mi ottenga il perdono dei miei tanti e ingarbugliati peccati.

Confesso mio fratello, dunque, qualunque colpa o parte o presupposto o discendenza ci sia in me nella sorte amara del Cigno di Catania, confesso tutto ciò che mi si ascrive, cedo alla tortura inquisitrice del tempo, confesso tutto, anche la mia mediocrità e la vanità della gloria, e la necessità di stare al mondo come si può, come si riesce, fino a qui finalmente, eccoti sorella, fino alla…
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Non so dire se spirò o fu il mio ennesimo sbadiglio intercettato dalla luce splendente del sole di Catania che si era fatta largo tra le chiome di ficus della villa Pacini, colpendomi le palpebre semichiuse, in quel posto ombroso oltre l’Amenano, mentre l’odore fumoso di carciofi arrostiti della pescheria si diffondeva d’intorno, sembrava quasi che le statue con la testa mozzata si torcessero il collo per sentirlo meglio, e Pacini, immortalato nel monumento bersagliato dai piccioni, sembrava bearsene finalmente in pace.

Maurizio Cairone