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THE “P” EFFECT

Il caleidoscopio umano: riflessioni prodotte dalla lettura de

“Il paradosso di Proteo” di Attilio Scuderi

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“Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno… sostituisce illegittimamente la propria all’altrui persona attribuendo… un falso nome o un falso stato… è punito… con la reclusione fino a un anno.”

È l’articolo 494 del codice penale italiano a parlare di sottrazione d’identità e di punibilità della stessa. Tra gli innumerevoli articoli presenti diversi trattano del reato di falso, si parla di falso ideologico, negli atti pubblici, contro la fede pubblica, falsa attestazione, false dichiarazioni, creazione di documenti falsi e così via.

Ne troviamo nelle leggi speciali e ne troviamo anche nella normativa che tratta i rapporti con la Chiesa Cattolica: sono infatti puniti coloro i quali indebitamente usano gli abiti sacri appropriandosi così di titoli e status non  propri ma di stampo ecclesiastico che potrebbero or dunque pregiudicare il buon nome della romana pietra. Quello della mistificazione e della perdita, volontaria o meno , d’identità è un tema che nella letteratura vien spesso trattato.

È infatti affascinante vedere come l’uomo riesca a barcamenarsi tra infiniti “io” e realtà, diversificate, ad essi collegati e come nella molteplicità trovi o perdi se stesso.

Sovviene il caso dello smemorato di Collegno, scelse involontariamente l’appartenenza al nuovo ceto assegnateli per pura casualità o forse fu un tranello ordito con coscienza per innalzarsi dalla condizione povera e deleteria in cui versava? Mistificazione come modificazione di uno status ingombrante, invadente e inappagante, mistificazione come via d’uscita dal sapor pirandelliano, tu, io, loro nell’avvicendarsi dei tanti nessuno, fuggi uomo dal tuo non essere perdendo ulteriormente l’appartenenza al civile vivere e trovandoti nudo e (im)puro nella irreale realtà da te fittiziamente costruita.

Un forzato “Walden” sarebbe forse allora auspicabile come chiusura verso ciò che del viver quotidiano non appaga, con l’inconveniente che, nuovamente a contatto con se stesso, e con la naturalità boschiva, dal confronto, un’ ulteriore perdita di coscienza o una rinforzatura dell’incosciente si potrebbe realizzare!

Ma buoni, andiam per ordine la mistificazione è alterazione che suppone (già dal sonoro aspro) un malefico proposito, jokeriano scherzo per alterare la realtà, ma logica vorrebbe anzi necessiterebbe adesso una quaestio, cosa possiamo intendere per reale e cosa è di fatti la realtà? Possiamo forse accontentarci “tommasamente” del frutto dei  nostri occhi, del tocco della mano? O forse invece come i teorici di Matrix sostengono, non esiste nulla di veritiero in ciò che osserviamo in quanto frutto di un circuimento generale che impone la sottomissione ai canoni forzati dall’economia multinazionale e globale.

I giuristi Fiandaca e Musco nel Diritto penale lo ribadiscono più volte, l’uomo non è libero dai condizionamenti, anzi si può dire che il suo pensare ed agire è totalmente condizionato da regole e imposizione esterne. La legge stessa è un condizionamento, se l’uomo non fosse condizionabile, non potrebbe essere ad essa assoggettato e i precetti normativi non verrebbero seguiti. D’altronde il Carrara ben parlava dell’importanza del libero arbitrio come possibilità di scelta dell’uomo, di individuare e attuare quei comportamenti che meglio si prestano al vivere civile: la libertà di scelta è poi presupposto per il principio della colpevolezza, se l’individuo-reo non risulta libero di scegliere quale comportamento tenere, e quindi se rispettare o meno i precetti normativi genericamente conosciuti, se non risulta in grado di comprendere ciò che errato e antisociale è allora non sarebbe capace di individuare il disvalore del suo comportamento e di conseguenza la pena perderebbe di significato.

È pacifico infatti che lo scopo della punizione legale sta in due meccanismi di prevenzione, generale e speciale. La prevenzione speciale implica per il reo la facoltà di non delinquere in virtù della pena che gli viene assegnata mentre con la prevenzione generale, i consociati, vedendo la punizione inflitta al reo, in virtù della funzione deterrente della pena stessa, non delinqueranno. Almeno questo in linea teorica.

Parlavamo di libero arbitrio e colpevolezza sottolineando quanto vi credesse il Carrara, a rigor storico dobbiamo dire che accentuare il tono sul libero arbitrio fa sì che l’individuo risulti costantemente colpevole anche quando di fatto son intervenuti degli elementi esterni che lo hanno “costretto” a delinquere ecco allora il sopraggiungere della scuola positiva (ricordiamo tra i suoi esponenti Lombroso, Ferri, Garofalo ) che inizierà a trattare delle cause di esclusione della colpevolezza (da me intesa in questo frangente come volontario stato doloso) per elementi naturali-fisici-ambientali di condizionamento e alterazione.

L’atteggiamento delinquenziale è frutto di determinate caratteristiche fisiche, dirà Lombroso ne L’uomo delinquente, e verranno indicate e verranno creati dei veri e propri album che mostreranno fotografie di “malati”, poiché il reo è un soggetto deviato, ammorbato, in cui sarà possibile riconoscersi o meno. E che sollievo scoprire di non appartenere alla cerchia degli appestati, un po’ come le campanelle che questi ultimi nel medioevo dovevano indossare per consentire ai sani di allontanarsi in tempo ed evitare il contagio. E ancora i fattori ambientali: l’uomo è portato a scegliere la delinquenza a causa del substrato sociale di appartenenza.

Tornando a noi, partivamo dalla domanda “cosa è la realtà”, reale è ciò che non è frutto di fantasia, reale è il contingente, reale è la noiosa vita quotidiana ma reale è anche ciò che l’uomo riesce ad immaginare e realizzare: le scoperte scientifiche, l’arte, la musica, finché rimangono nella mente del plasmatore sono immaginifiche costruzioni, ma dal momento in cui vengono materializzati, quando sono materia (quadro, cd, libro, medicina… ) acquistano la forma del reale o possiamo ancora definirli prodotti fantasiosi per la loro derivazione squisitamente mentale?

È forse una divagazione il voler tentare d’individuare la consistenza dell’inconsistente? Il nostro mondo odierno è fatto di parole che assumono una sostanza e questa sostanza nella realtà fluida che viviamo è sempre meno materiale, da qui il facile rischio di perdita e sottrazione di contenuto al concetto base, da qui il rischio di perdere nel fluido i propri fluidi di essere e al tempo stesso perire e più volte scomparire e ritornare nella marea della realtà fluida. Il nostro vivere, possiamo dunque affermare, è dominato dalla proteiformità.

scuderi proteoAttilio Scuderi ne “Il paradosso di Proteo”( 2012 Carocci Editore) esamina la proteiformità stessa del mito e la sua evo-involuzione nel corso dei secoli ad opera dei più celebri autori della storia umana. Da Omero a Shakespeare, da Virgilio a Blake a Pavese, trattando persino Zelig egli mostra come in virtù delle diverse conoscenze e necessità storiche il mito sia stato modificato, mistificato per diventare vanto o monito. Proteo è il vecchio del mare, divinità marina capace di modificare il suo sembiante in qualsiasi forma, che dona vaticini a coloro i quali sono in grado di catturarlo.

Questa almeno la raffigurazione base del mito, successivamente passerà da protettore del vero a figura diabolica (“Diavolo è l’essere dalle mille forme”), personificazione della lussuria e dei vizi umani, ma anche depositario della verità (Nonno di Panopoli), figura di luce, è il poeta, è allegoria dell’informe materia originaria (Eraclito)  è sofista (Platone, Ovidio, Luciano) dal 1500 è simbolo di prudenza all’interno delle corti dei principi.

Per definizione il mito deriva da storie che oralmente narrate vengono tramandate di bocca in bocca, per generazioni, finché l’avvento della scrittura non ne agevola la memoria. Ora come si può facilmente immaginare, un evento, benché sempre uguale, subisce modificazioni con attribuzioni che abbelliscono ulteriormente le storie, attribuzioni che talvolta son volontariamente adattate secondo l’uditorio a cui si prestano per non parlare poi dei metodi di conservazione e diffusione dei libri, prima di matrice elitaria, trascritti a mano e ricopiati dai cari amanuensi, che spesso non risultavan molto chiari per i loro successori, e ancora quanti tra di essi avranno alla lettera rispettato il dettame originario e quanti invece volontariamente lo avranno alterato, questo ovviamente senza tener conto dell’inventiva letteraria. Se poi per diletto, volessimo osservare il libro come entità a sé lo diremmo anch’esso proteiforme in quanto assume svariate vesti secondo il genere, l’autore, il tempo, la forma (cartacea o virtuale) e la grafica stessa.

Ecco allora che il mezzo e l’essenza d’una narrazione vengono modificate e adattate ai bisogni del tempo. Vogliamo però adesso analizzare il concetto di alterazione e proteiformità seguendo lo stimolo che la lettura dell’evoluzione mitica, prospettata dal Professor Scuderi ha suggerito, trattando argomenti e riflessioni che di getto, alla mente, son sovvenuti..

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“… Nella notte che mi tien nascosto oso infine essere me stesso…”                                                     –Cyrano de Bergerac-

Sotto un balcone nascosto dal chiarore lunare Cyrano prega la bella Rossana e le parla a cuore aperto, osa “esser sincero” pur dialogando come Cristiano. Edmond Rostand mostra la delicata arguzia e la capacità di trasformarsi per amore: è il cugino che parla ma in virtù di quello straziante sentimento che lo divora, occulta il suo essere, che però si manifesta nel logos, e cattura con l’inganno l’animo dell’adorata.

È il trionfo della poesia sulla realtà fisica? O la pseudo fusione delle due attira e  incanta? Certo è che quando l’amato guascone parla senza l’ausilio del suo mentore ella lo respinge, sdegnata e affranta ma sotto quel balcone avvertendo le parole del signor De Bergerac si re innamora. Non il suo viso, non il suo corpo, né il tono della voce quanto le aleatorie parole la avvolgono e sconvolgono. Se volessimo analizzare però la frase su citata potremmo notare ulteriormente il concetto di alterazione.

Le prime parole invocano la notte, nella mitologia la notte appartiene a Ecate, a cui son attribuiti i culti misterici, la mezza notte è l’ora delle streghe e nell’immaginario collettivo le ore oscure son quelle legate al crollo dell’astro luminoso, il giorno è attribuito allo slancio veritiero, la locuzione “alla luce del sole” serve proprio ad indicare l’agire in trasparenza indi per cui l’azione notturna simboleggia di base l’occultamento.

Inoltre le ombre impediscono la corretta visione, ed è facile avvistare ciò che non esiste o trasfigurare ciò che in realtà è. Cyrano stesso sottolinea che grazie alla notte egli riesce a nascondersi, a non mostrarsi, serve a mantenere intatto l’inganno che viene così protratto in virtù dell’occultamento del sembiante ma ecco il paradosso, nascosto nella notte riesce in fin ad essere se stesso, sincero. Nelle tenebre egli declama il suo effettivo amore, parla apertamente e ogni pensiero dal suo spirito innamorato viene partorito ed egli stesso crede all’inganno, pensa d’esser onesto, risvegliandosi del tutto solo alla fine, quando si rende conto d’aver sì parlato, ma in nome d’un altro, consegnando la dama ad un uomo diverso da lui.

È un po’ l’opposizione costante tra le maschere dell’umano vivere, convincersi d’essere e mantenere un sé, in realtà occultato dalla circostante nebbia, e così Cyrano è  se stesso ed è Cristiano, è sincero e ingannatore, per timore d’un rifiuto, di una non accettazione.

La paura d’esser respinti dimora in ognuno di noi ed è facilmente intuibile presso i giovani  che spesso si lasciano convincere dalle logiche dei branchi pur di sentirsi appartenenti a qualcosa, pur di avere un legame con qualcuno. Quello che ad oggi si è perduto all’interno della società è paradossalmente proprio il senso d’appartenenza poiché nella confusione generata dalle varie identità identiche, nel tentativo di forzata omologazione, l’individuo perde, oltre se stesso, anche la spinta e la motivazione per legarsi alla nazione (o ad un gruppo qualunque) mantenendo un sé attivo e cosciente.

È naturale a questo punto il richiamo ad Orwell ed al controllo ad ampio strato prodotto dal grande fratello dove, è evidente, l’eccessiva oppressione genera alienazione e perdita. Ma non possiamo, forse, parlare d’una effettiva oppressione nel mondo moderno perché di fatto molti di noi si definiscono liberi, ma quando si può parlare di libertà ? E’ possibile per l’uomo del post duemila essere davvero spurio da ogni legame o radice ancoratoria, da ogni condizionamento così da potersi parlare di libertà?

Gli spiriti liberi per eccellenza sono le anime artistiche, coloro che con la loro arte sublimano legacci e oppressioni creando rivelazioni e “nuove religioni”.

E l’artista proprio perché tale è un essere proteiforme in grado di modificare la sua essenza in virtù del messaggio che vuole trasmettere: nelle opere, in ogni opera, c’è parte del suo generatore, così nell’urlo troviamo Munch e la sua angoscia, nei quadri impressionisti le visioni del tempo e dell’arte tramite il colore e la luce.

È un muta forma l’artista perché non solo diventa la sua opera, si fonde con essa, ma riesce al tempo stesso ad essere non una, ma tutte le sue creazioni. Pensate ad un attore, sul palcoscenico egli trasporta le più disparate sensazioni, i caratteri appartenenti a secoli e periodi storici diversi, rivisti dalla penna d’un altro autore.

Più di tutti il teatrante rischia di perdersi poiché non solo è il personaggio che interpreta ma, considerando ciò che prima è stato scritto (ossia che l’autore è la sua opera) è anche lo scrittore e, se realmente esistito, lo storico soggetto da cui è tratto il carattere stesso, così contemporaneamente si troverebbe ad essere almeno quattro individui diversi! Il filo d’Arianna non basterebbe a ritrovare l’uscita dal labirinto, ricordando poi che ogni carattere normalmente indica una particolare pulsione umana l’attore si trova immerso nel suo stesso es, con cui non potrà fare a meno di confrontarsi, e dal confronto-scontro dovrà abbattere la creatura inglobante le pulsioni per potersi ritrovare.

Ma siam sicuri che la purgazione permetta il riconoscimento del sé? In fin dei conti è anche il contenuto latente a far dell’individuo ciò che è. L’uomo, invertendo le socratiche parole, anche se sociale è pur sempre un animale e come tale è istinto, plasmato in esso e tramite esso vive e supera ciò che la natura delle cose gli mostra. Ma l’istinto è sovrastato dall’intelletto, dalla capacita cognitiva, dalla capacità di giudizio e tramite il giudizio riconosce, o almeno dovrebbe, la natura positiva o negativa delle cose stesse. Lungi ovviamente dall’indicare con positivo o negativo insiemi moralisticamente considerati, prenderemo per buoni solo i dati obiettivi e obiettivamente è positivo ciò che legge permette e negativo ciò che ella ritiene nociva per i beni giuridici, dove per beni giuridici qui intenderemo quei beni che necessitano protezione in virtù del loro valore all’interno della società.

Capisco bene che potrà sembrare un vuoto giro di parole ma di fatto è questo che la legge tutela ed è questo che ciascun soggetto deve proteggere per potersi dire cittadino onesto e giusto. Oso adesso impelagarmi in un discorso non molto felice, ne accennerò soltanto per non lasciarmi trasportare dall’indole polemica, ebbene chi stabilisce cosa è un bene giuridico? Cosa può essere degno di tutela e ancora siam sicuri che gli attuali legislatori riescono ad apprestare degnamente tale tutela?

Abbiam detto che bene giuridico è ciò che risulta degno di valore e la costituzione da un elenco importante e ampio di diritti e valori da tutelare, elenco lasciato volutamente aperto così da consentire a tutti quegli eventuali nuovi valori, nuovi perché storicamente prima inesistenti, di far parte del novero dei tutelabili (e ricordiamo in particolare i primi dodici articoli e ancora la prima parte sui rapporti civili).

Venendo al successivo punto, la sicurezza purtroppo mai potrà esser data poiché il legislatore è umano e l’uomo per definizione è portato a sbagliare, l’ha fatto nel giardino dell’Eden, perché non dovrebbe con le protei-tentazioni quotidiane? E quindi come superare l’impasse? Per quanto assurdo e poco risolutivo possa apparire sembra che dovremo affidarci alla fede e all’ultimo colore che venne fuori dalla scatola di Pandora, la speranza.

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“Non lascerai vivere la strega” di (H.R. Trevor-Roper)

La leggenda di Melusina parla di una meravigliosa fanciulla, sposa d’un cavaliere, dedita ai figli che custodiva però un tremendo segreto, essendo “fata” in precise occasioni ella spariva tramutandosi in serpe. La natura feerica e trasmutante della donna possono esser viste come l’unione del potere mentale con le pulsioni, che nella figura ibrida vengono concentrate come una sorte di misterica fusione, ma nel medioevo novelle come questa non erano di certo insolite ed esisteva un libro chiamato Bestiario dove eran raccolte tutte le produzioni dell’immaginario collettivo.

In questo periodo abbiamo parecchie rivoluzioni, lotte per la supremazia di varie possenti famiglie in tutta Europa, sanguinarie guerre ed un culto che in tutti i modi cercava d’affermarsi. Culto che possiede le sue basi nel paganesimo e i cui luoghi sacri misteriosamente coincidono con antichi altari dedicati a vecchie divinità ormai dimenticate. Ma quel che ci interessa ora sottolineare riprendendo l’infelice frase dello storico Trevor-Roper, è la figura delle “strinne” a cui gli inquisitori attribuirono la capacità di mutar forma, essendo “concubine del demonio e abili truffatrici”.

Questa era la definizione che veniva spesso loro affibbiata e le perverse menti inquisitorie inculcavano con la tortura assurde confessioni per portar avanti l’epurazione. È infatti noto meccanismo umano quello di confinare nella devianza e nella malattia tutto ciò che appare diverso e pericoloso per la supremazia del potente di turno. Così è stato per le streghe, in realtà donne che si occupavano di medicina erboristica, gli eretici (diversamente demoniaci) e più tardi così sarà per omosessuali, ebrei e dissidenti e parlo non solo della Germania nazista quanto anche dei gulag russi e dei vari campi di concentramento disseminati per il mondo ove i “problematici” vengono volutamente esiliati e arsi.

L’arsura, il rogo, era uno dei mezzi usati per assassinare le donne medioevali, accadeva però che dalle loro bocche venissero fuori degli animali, così riportano alcune cronache del tempo, che sgattaiolavan via e immediatamente la donna periva. Secondo la cultura popolare era l’anima della strix ad essersi mutata per poter sopravvivere alla morte. Numerose sono le testimonianze di creature in grado di modificare la propria essenza e la mitologia, come più volte ricorda Scuderi, ne ha dato numerosi esempi. Ho citato Melusina, che fa parte dell’immaginario nostrano, ma ancora ci sarebbe Morgana, il cui mito ha spesso cambiato forma e ancora parlando di fate non possiamo non ricordare il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, dove per dileggio Oberon trasforma il povero Bottom in asino e qui ci vengono in mente l’asino d’oro di  Apuleio, le metamorfosi di Ovidio (e perché non quella di Kafka), ma anche il caro Collodi con la trasformazione del celebre Pinocchio.

Tornando all’inquisizione e al mutamento di concezione imposto alla cultura dell’epoca (pagana e erboristica) dalla pressante neo-nata  ricordiamo a titolo di cronaca di una famosa “strega” scozzese Bessie Dunlop e ancora Benvenuta e Gabrina che nel 1428 vennero incenerite per la presunta affiliazione demoniaca sottolineata dalla pseudo – metamorfosi che ad ogni Esbat esse compivano. È naturale ricordare adesso come medievale trasposizione di Lucifero fosse diventato Proteo, detentore dell’arte della mutazione, in virtù della falsità e dello scopo ingannatore nascosto dietro il mutamento: ecco che Proteo si fa Signore dei demoni e le povere sue “adepte” indegno concime.

Strumento diabolico appariva anche la sfera o specchio e persino l’acqua (ricordiamo intanto la natura marina di Proteo), capace di catturare e deviare l’immagine, inoltre ogni belletto era tentazione e corruzione così anche lo specchio, (o più scenograficamente sfera) tramite cui era possibile, secondo tradizione, vaticinare diventa elemento di dubbia appartenenza: esso trasfigura la realtà, muta il vero mostrando falsità, oggetto ignominioso era indubbia prova della presenza demoniaca.

Nella nostra cultura letteraria, ma forse più filmografica, esiste un personaggio, definito nel romanzo dallo stesso Thomas Harris demone, che domina l’immaginario orrorifico ed è il celebre Hannibal Lecter. Soggetto dalla profonda cultura con la deviante caratteristica dell’antropofagia egli è colui che riesce a viver contemporaneamente la doppia vita dell’onesto psichiatra e del dimoratore dell’incubo. Lecter è di certo un personaggio inventato, ma come lui molti “mostri-mutaforma” son vissuti nella storia umana, ricordiamo Andrei Chikatilo, Ted Bundy e vari serial killer in grado di far vivere contemporaneamente l’uomo e la “fiera”. Sono forse una delle perfette identificazioni di soggetti proteiformi, capaci di assumere le identità necessarie per vivere nella società civile e al tempo stesso incapaci di trattenere la pulsione del vero io che, relegata a secondaria attività, emerge nelle più svariate mutazioni.

Il nostro Proteo diveniva drago, tigre, leone, pantera, fuoco, acqua… alcuni degli assassini seriali in virtù della psicopatia che li domina e della intelligenza notevole (se ne deve dare atto) che spesso possiedono, riescono come camaleonti ad assorbire le identità necessarie alla sopravvivenza del carattere cui son costretti a sottomettersi per poi scatenare la furente forza dell’es soffocato che si fa io dominante. Alcuni di questi soggetti, fortunatamente consegnati alla legge, non accettando il loro essere, si nascondevano dietro costanti e continui furti di identità che si susseguivano nella sfrenata ricerca dell’identità che perfettamente potesse loro calzare, ogni furto ovviamente comportava un omicidio e la successiva sostituzione era determinata dal bisogno di cambiar vita alla ricerca d’una più appagante.

Cambiando abito, cambiavano totalmente abitudini, lavori e conoscenze mostrando una eccezionale capacità di adattamento e mutazione. Ovviamente nella costante rotazione il soggetto cercava di perdere il ricordo di se stesso, non rari sono gli interrogatori in cui tali individui negano totalmente la loro veritiera identità e innanzi la prova inconfutabile della essenza prima, le crisi violente spesso risultavano essere le costanti reazioni.

Nell’Hannibal di Harris, il dottor Lecter si appropria di una nuova identità, tra interventi, cen-omicidi e plastiche facciali diventa un curatore culturale della Firenze dei nostri giorni, un esempio letterario della poliedricità psichica e fattuale della mente dei killer seriali.

E di “mostri muta forma” ne è piena la letteratura, abbiamo il Dracula di Stoker capace di diventar nebbia e lupo feroce e da vampiro qual è la sua natura sa essere umano, nella forma e nel sentire.

Soffermandoci sull’omonimo film di Coppola, il conte Vlad Tepes si mostra nelle svariate sfaccettature dei sentimenti umani: dalla crudeltà efferata al più tenero amore, ma ogni trasformazione senti-mentale accompagna una diversa fisiognomica, tornando al tema caro a Lombroso potremmo dire che la vista fa la differenza: è subdolo canuto conte al momento del primario inganno, bestia feroce durante la possessione, nebbia per intorpidire il pensiero e uomo nella tenerezza. È ovvio anche qui che ogni mutazione racchiude un’allegoria , direbbe Eraclito nell’attenta ricostruzione dello Scuderi, e di ogni metafora visiva l’occhio si appropria ponendosi la “luciana domanda”: fino a che punto è giusto credere al proprio sguardo?  Quanto è facile ingannare ed ingannarsi? E quanto possono essere relativi e condizionati i giudizi sul mondo? Tutto ciò si chiede Luciano e come lui l’autore de “Il paradosso di Proteo” pone questa domanda al lettore usando come costante metro e bussola la figura mitica del vecchio del mare.

Come omini in corsa le onde luminose sbattono sulla retina e tramite vari rifrangenti passaggi il nervo oculare trasporta l’impulso al cervello che in virtù dei suoi sconosciuti e oscuri meccanismi rielabora le informazioni creando quelle che noi avvertiamo come immagini.

L’impulso di fatto è ciò che permette all’individuo di percepire se stesso e ciò che è altro da sé. Impulsi e stimoli ce ne sono di vario genere e delle più svariate nature, ma ogni stimolo, per definizione, ha lo scopo di azionare un meccanismo interno che sproni il ricevente ad attivarsi per produrre ciò che lo stimolo avrà suscitato.

Ogni soggetto però percepisce in maniera diversa e distinta gli stimoli che più o meno simili giungono ai vari sguardi ed un esempio può essere la simpatia, il piacere che si può provare ascoltando una canzone: la stessa musica non produrrà identiche reazioni nei confronti di un ampio spettro di soggetti a meno che questi non abbiano dei caratteri comuni, ma anche in quel caso ciascuno di loro avrà una diversa sensazione in virtù del differente modo di percepire.

La percezione dunque è ciò che permette all’uomo di afferrare distintamente il mondo circostante rielaborandolo in maniera del tutto soggettiva, essendo soggettivo il modus percependi sarà facile la diversità di giudizio in virtù dell’einsteiniano relativismo.

Ci chiedevamo “fino a che punto è giusto credere al proprio sguardo” ebbene se noi ponessimo la stessa domanda da un punto di vista del tutto empirico e la rivolgessimo ad un soggetto inconsapevolmente daltonico questo potrebbe tranquillamente affermare la smeraldina o carminia sfumatura d’un oggetto ed essere a sua volta contraddetto da chi daltonico non è.

Innanzi la inconsapevole daltonicità, come poter convincere il soggetto A dell’erronea percezione rispetto a quella del soggetto B? Avremmo difatti una impasse difficile da superare, per l’ovvia risolutezza di entrambi i contendenti. Se differentemente ponessimo la questione del colore prendendo in considerazione un semaforo allora si, potremmo confutare al soggetto daltonico la sua tesi, in virtù della posizione affermata internazionalmente dei colori nel suddetto semaforo.

Quindi, portando avanti questo assunto ci verrebbe da dedurre che sarebbe necessario un segnale esterno generalmente accettato, da prender come metro per poter orientare le proprie percezioni, ma non solo risulta del tutto impossibile avere degli standard di paragone per ogni azione che riguarda la sfera del sensibile se andassimo oltre, nel metafisico, o meglio nell’ultra-fisico, nessun metro potrebbe risultare sufficiente, ne forse necessario, in quanto di metri se ne fa del tutto a meno grazie alle infinite scale improvvise che in esso compaiono.

Tornando ancora un attimo alla necessità del metro, pur ipoteticamente ipotizzando la possibilità di goder di tale “passamano” anche in questo caso come potremmo essere certi della validità dello stesso. Chiarisco, quale certezza avrebbero i fruitori del su menzionato strumento? Sarebbe portatore del giusto metro? In fondo a costruire lo stesso sarebbero altri esseri umani ed essendo l’individuo imperfetto, o per lo meno lontano dal concetto di perfezione e correttezza, con quale spirito si potrebbe accettare una visione imposta, che senza dubbio sarebbe frutto dei bisogni politici e di casta? D’altronde lo stesso Scuderi ci informa che Proteo, nel periodo del machiavellico principe, divenne l’emblema della cautela, della diplomazia contro l’ira funesta dei governanti!

Nel momento in cui dessimo poi per scontato la perfezione del modello, del generatore e l’esatto uso dello strumento, l’ulteriore domanda si infiltrerebbe nelle menti imperfette dei fruitori, ossia il perfetto modello da me usato permette l’inganno esterno o interno, ossia questo strumento che per me è creatore di percezioni e visioni, fa sì che io riesca ad ingannare l’altrui sguardo o posso da esso essere ingannato?  Se il modello fosse un globale strumento, teoricamente tutti i fruitori dovrebbero avere lo stesso sentire, ovvero o tutti egualmente ingannati o ingannatori ma se ingannatori il caos sarebbe demenziale poiché la popolazione dovrebbe auto ingannarsi a pentole scoperte… che in realtà di fatti è un po’ quello che succede.

Basti solo pensare che esistono stati dove persone che non hanno titoli, tentano di mistificarli per ottenere un seggio da “primo ministro” per poi ritornar seraficamente a far giornalismo o opinionismo (caso Giannino) e dove soggetti con capi d’accusa e condanne alle spalle fan parte della classe politico-dirigente, nel permissivismo collettivo, forse si, un po’ di “serio auto-inganno” c’è.

Finiamo così al relativismo e al condizionismo. La classica E=MC2 (messa poi in dubbio da alcuni studiosi di settore) rammenta a tutti noi che tutto dipende dal punto di vista dal quale lo si guarda, il classico mezzo-pieno, mezzo-vuoto, il binomio ottimismo pessimismo e così via, ogni cosa dipende dalle percezioni sensibili (e in questo caso col termine sensibile intendo, impropriamente, la sensibilità personale con la quale tali percezioni vengono recepite ed elaborate) del singolo.

Come Fiandaca e Musco sostengono, l’uomo in quanto tale è condizionabile, le sue scelte, decisioni e comportamenti sono influenzati più o meno direttamente dagli stimoli esterni, di conseguenza nessun suo atteggiamento potrà definirsi del tutto spurio anzi potremo dire più o meno condizionato ma mai del tutto libero, poiché libero (come prima accennato) l’uomo non è. Si illude di esserlo ma i moti esterni, che condizionano quelli interni, lo soggiogano indirizzandolo verso le vie che più sono “congeniali” agli stimoli e ai produttori degli stessi.

Pensate a coloro i quali in tempi di crisi, perdendo lavoro, vedendo la dignità calpestata, decidono di suicidarsi, non è una scelta libera, ma condizionata dagli eventi. Ancora, le strategie di marketing, il nostro piccolo mondo è dominato dalla pubblicità, spesso capita di parlare per slogan, di prendersi beffe degli spot e intanto il messaggio circola e indirettamente s’insinua e cambia il modo di acquistare. I genitori, crescendo la prole trasmettono loro valori, principi, ansie e paure, trasmettono il loro modo di vedere il mondo e quasi sicuramente, in virtù del rapporto più o meno conflittuale che i figli avranno con i generatori,  il pensiero e l’atteggiamento della prole sarà sottomessa o ribelle, altro tipico condizionamento.

Le donne poi, nel periodo romano vennero definite con una “simpatica locuzione” dal levis animus animo leggero, lieve, facilmente mutabile in virtù del cambiamento ventoso. Gli antichi romani erano convinti che esse non fossero capaci di prendere decisioni a causa della loro mutevolezza dettata dall’istintività, dalla passionalità e leggerezza che secondo loro le distingueva, per questo non potevano avere posti di primo piano, né occuparsi personalmente della loro stessa vita, ricordiamo che il matrimonio cum mano o sine manu altro non era che una compravendita tra padre e marito per il possesso (e nulla più) della donzella.

La distinzione “cum manu”, “sine manu” era importante perché da questa dipendeva il suo eventuale destino in caso di atti ribelli, se per qualche ragione il marito avesse voluto ucciderla come punizione per qualche suo terribile sgarbo, se fosse stato in possesso della “manu” lo avrebbe potuto tranquillamente fare, in caso contrario spettava al padre operare l’assassinio o qualche altra “consona punizione”. Certo oltre il ribrezzo che ciò genera in noi femministe moderne verrebbe da dire da quale pulpito la predica considerando i giochi di potere, di letto e palazzo che in quel periodo si perpetravano ad opera degli uomini, egregi sofisti, romani. L’unica differenza stava nell’animus da un lato levis dall’altro “praticus”.

L’argomento roman-politico mi ricollega al mondo del 2000 e mi chiedo perché non citare anche i parlamentari odierni, che cambiano schieramento politico, come “levis banderuola” una volta occupata la poltrona? Nel momento in cui ci si iscrive ad un partito, si “stila” un programma elettorale, si fa una campagna, si convincono elettori, si fanno a quegli elettori determinate promesse e si viene eletti, un normale individuo, forse un po’ ingenuo è portato a pensare che tutto questo nasce per una spinta dettata da stimoli quali ideali, sogni e passioni e che una volta accalappiata la poltrona indicata il politicante continuerà a difendere le sue convinzioni… capita però che per “stimoli” esterni, l’occupante dello scranno sia portato a modificare i propri interni stimoli e con essi gli ideali, i sogni, le passioni e le ville con piscina. Così facendo i nuovi stimoli lo spronano a cambiar partito d’appartenenza e schierarsi spesso con coloro i quali costituiscono la nemica fede, per anni osteggiata.

Ora nel nostro Paese è assolutamente legittimo cambiar orientamento, in virtù della libertà di pensiero e azione, poiché ciascun individuo “è sempre libero di mutar liberamente opinione”, certo si auspicherebbe che tali salti venissero effettuati prima di promettere laghi e castelli agli elettori, ma si sa, gli stimoli certe volte non sono abbastanza, e ci si deve accontentare delle poche ideologie sognanti rimaste.

Nel periodo del positivismo giuridico, quando iniziavano ad infiltrarsi nella politica nostrana le ideologie “sinistrose” vi fu il tentativo di metterle a tacere tramite l’etichetta della malattia. Ricordiamo che Lombroso sosteneva il legame tra delinquenza e fisiognomica di conseguenza il deviante, che è un diverso, devia e delinque perché biologicamente malato. L’anarchico, il rivoluzionario del tempo viene equiparato ad un “volgare delinquente” di conseguenza se l’equiparazione delinquente = malato persiste, anche l’anarchico da delinquente, sarà malato e se lui è affetto da patologia, le sue idee non saranno che manifestazione verbale della patologia stessa, una sorta di delirium tremens da ignorare in quanto semplice esternazione di un malessere mal gestito.

Dare dell’infetto ad un avversario politico è poi di certo il modo più giusto per non far apparire le sue teorie nel dibattito nazionale, mettendo a tacere con la scienza che per definizione è obiettiva in quanto legata a dati empirici, nessuno farà obiezioni se poi quei soggetti son anche scomodi per logiche di casta, è un altro paio di maniche, quel che conta è la malattia e il necessario isolamento della stessa onde evitare il domino effetto pandemico.

Quelli elencati sono esempi di come facile possa essere ingannare ed ingannarsi, tra due contendenti (come nel caso del daltonico) ciascuno sarà sempre sicuro della propria visione, al massimo si potrà raggiungere il compromesso “rispetto la tua opinione ma continuo a pensarla a modo mio”, fatto sta che anche un esterno osservatore, in quanto anch’esso influenzabile, rischierà d’esser traviato nel suo giudizio che in ogni caso, per umana condizione, non potrà mai essere libero.

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“Io non sono un prodotto della società. È la società che deve essere un mio prodotto!”                            Frank Costello (Jack Nicholson)

Nel film The Departed si assiste ad un interessante mescolamento di carte dove in un’America frammentata tra mafiosi e varie branche poliziesche un giovane irlandese legato al boss di Boston diventa importante membro dell’FBI e un altrettanto giovane poliziotto è costretto da infiltrato a fingersi criminale.

Quello del necessario occultamento di identità ai fini della lotta contro le mafie è un sistema che da diversi anni a questa parte vede interessate le forze di difesa statuali e numerosi agenti, per smascherare e combattere il crimine, per quanto e lo abbiamo detto nell’incipit di questo saggio, la nostra legge punisca coloro i quali commettono una sostituzione d’identità, ovvero una falsificazione della stessa, ci sono dei casi eccezione, casi limite in cui ciò è permesso perché submisso ad un più importante fine quale è la lotta alla criminalità organizzata.

Gli agenti dovendo operare  in un substrato delinquenziale saranno costretti a far proprie le logiche ed i comportamenti di quello stesso ambiente, così facendo si potrebbero trovare costretti a manovre decisamente non legali, in rapporto a ciò la dottrina è leggermente entrata in crisi, messa alle strette dal doppio compito di limitare ed eliminare la delinquenza e smascherare i loschi giri criminali, non ci soffermeremo ovviamente sugli aspetti giuridici del tema, puntando invece l’attenzione sulla relatività presente nei due ambienti: e quello degli infiltrati dove,  lo si può ben immaginare, la lotta tra identità ordinaria e fittizia risulta accentuata, e il mondo della criminalità dove vigono regole e comportamenti altri, diversi da quelli della nazione che in quel substrato sono la legge e che tutti indistintamente devono seguire.

All’interno delle cosche vigono infatti, precise regole di gestione interna, che come una grande multinazionale fan sì che lo schema e le finalità della stessa possano essere portate avanti. Nei luoghi in cui esse dominano totalmente il territorio, si assiste ad una inversione di polarità: quella che in tutto il resto del Paese è la regola in tali luoghi viene ignorata, mentre la mentalità e le imposizioni del clan sono il must inappellabile, con le conseguenze che tutti conosciamo o possiamo immaginare.

Se poi torniamo al tema degli infiltrati come in generale ai soldati, che trovandosi in condizione di forte stress, vedono l’ordinarietà mutata e alterata tramite nuovi ordini e diverse gestioni quotidiane, dobbiamo parlare delle dissociazioni che spesso in essi si creano al ritorno di tali missioni.

Non sono rari i casi di alcuni veterani statunitensi che tornati in patria dopo anni di lotta al fronte non riuscivano a capacitarsi dell’esperienza vissuta, non riuscivano a gestire la profonda onda emozionale creata dalla vita altra, e impossibilitati a dimenticare continuavano a rivivere i giorni della guerra anche dopo anni di “pace”. In certi casi il contrasto e il trauma creato (dalla dissociazione, ma ovviamente anche dagli orrori osservati) son stati talmente forti da generare situazioni decisamente estreme.

Ormai lo sappiamo, ogni identità è un marchio che si imprime nella carne lasciando indelebili segni, per quanto si cerca di gettare il ricordo nell’oblio esso riemergerà mostrando le vivide cicatrici.

Nel passato il marchio impresso nella pelle era un simbolo di riconoscimento, un po’ come i sigilli delle famiglie nobiliari, con la differenza che nel caso dei suddetti marchi, primitivi tatuaggi, erano l’espressione di una condizione.

Nel mondo occidentale, infatti, il tatuaggio era simbolo di infamia, ricordiamo la lettera scarlatta di Hawthorne,  il giglio francese, e le immagini “old school” dei galeotti. Tra gli indigeni ogni impressione carnale indicava l’appartenenza al clan, il tipo di personalità e importanza all’interno del clan stesso, ricordiamo le pitture di guerra, quelle sacrificali, nuziali, le danze propiziatorie dove lo sciamano indossava pelli e piume simulando gli animali totemici e chiedendo loro aiuto. Ognuna di queste manifestazioni era simbolo di appropriazione di una identità che in quel momento si necessitava mostrare, fosse in occasione di una guerra o di un matrimonio.

E mentre nel “mondo antico” il tatuaggio rafforzava un’identità affermata, oggi spesso serve o per affermare una identità o per crearne una diversa. Da quando l’arte del disegno marchiante è divenuto moda, facilmente possono notarsi nel quotidiano, soggetti che ne fanno ornamento. Ognuno di esso ha un significato per il suo detentore e molto spesso vengono effettuati in periodi particolari della vita dell’individuo proprio per indicare un passaggio ovvero un momento intenso che è stato vissuto.

Dicevamo mezzo per rafforzare l’identità o crearne una nuova. Tornando al tema dell’assenza di libertà dell’uomo possiamo dire che in virtù di questa basilare mancanza egli si senta fondamentalmente debole e instabile, molti si definiscono insicuri o poco certi delle proprie capacità e spesso per rafforzare la propria essenza, per darsi un tono, qualcuno direbbe, ma più benignamente io dico, per mostrare una forza sacrificante ed una effettiva presenza di essenza decidono di tatuare il loro essere, dando così possibilità di maggior comprensione all’osservatore.

Altro, e ben diverso, è il caso di coloro i quali, partendo dalla basilare insicurezza umana aggiungono un disgusto, odio per il loro essere, talmente forte da sentire il bisogno di mutarlo, cambiarlo del tutto e dal tatuaggio come elemento ordinario si è passati agli innesti sottocutanei e ai coloramenti della cornea. Così abbiamo assistito a stravolgimenti corporei che han dato vita a mitologiche chimere come la donna-gatto, la donna-vespa, l’uomo lucertola e via dicendo. Convinti d’aver trovato in tal modo la loro dimensione ultima, la loro essenza nel mutamento, nella proteiformità.

Parlando di mutazioni corporee dovute alla non accettazione di sé è il caso di accennare a coloro i quali sentendosi braccati dalla sessualità molesta che la natura gli ha donato decidono di sottoporsi ad intervento chirurgico per poter ottenere ciò di cui si son sentiti, dalla nascita, defraudati: l’identità. Il nostro ordinamento vieta le modificazioni totali o parziali che possono compromettere la vita stessa dell’uomo considerata nelle sue ordinarie accezioni, nonostante ciò e proprio per questo (compromissione della vita dell’uomo) è ad oggi accettato il cambiamento sessuale mediante bisturi e, dopo lunghe lotte, in alcuni paesi, la conseguente modifica nella carta d’identità.

Verso la fine del “Paradosso di Proteo” assistiamo alla constatazione delle moderne proteiformità: passando dal concetto di uomo alchimista di Borges allo Zelig di Allen, dove l’uomo immagina d’essere plasmatore di se stesso mentre invece risulta essere per “eccellenza conformista”, costantemente condizionato e condizionabile. E ancora il pop – rock del Novecento con gli innumerevoli alter ego, citata è l’evoluzione di David Bowie da maschera rock in  Ziggy Stardust alle elettroniche di Ashes to Ashes, ma rammentiamo anche la scenicità dei Kiss e i diversi pseudonimi da Rob-Zombie a Marilyn Manson. In questo breve excursus abbiamo inizialmente fatto cenno al concetto di liquidità, la società liquida lo sappiamo è stata teorizzata da Z. Bauman ma noi vogliamo prendere spunto da tale liquidità per trattare di ciò che per eccellenza al momento di liquido esiste che è la rete con i nuovi ibridi da essa creati: non più l’uomo-fiera,l’uomo-elementale, come potevamo assistere nelle varie proteiformi mutazioni ma l’uomo-computer, tecnologicamente dipendente che nella tecnologia si cerca ed annulla.

Potremmo dire con un’estensione del mito che ad oggi ogni utilizzatore della rete è un mini Proteo, tramite essa può assumere svariate identità, tante quante gli alter ego- auto costruiti gli permettono: molti i giochi di ruolo e i social network, dove non solo è possibile crearsi un “contatto fake” ma vivere tramite esso e relazionarsi, gestendo una (o più) vita parallela che spesso diventa la principale, andando a sostituirsi alla “reale”, che avvertita come peso, vien quasi dimenticata a favore della fittizia ricostruzione telematica.

E ancora il Proteo di Omero era in grado di vedere nel passato, nel presente e nel futuro, forniva vaticini, auspici a coloro i quali riuscivano ad imbrigliarlo, con un (forse forzato) parallelismo potremmo dire che, chi oggi riesce ad usare, piegare a sè gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione, di certo è in grado di vedere ciò che nel passato è stato, di osservare e vivere “in streaming mondiale” il presente e, tramite le opportune “app” di sbirciare il futuro.

Ecco dunque il caleidoscopio umano, uomo-paradosso di se stesso, da una semplice grigia fessura egli appare coloratamente diverso ma sempre uguale e per quanto ci si ostini a credere di sapere o di aver visto tutto egli costantemente stupirà e ingannerà se stesso con le meraviglie e gli orrori che riuscirà a produrre.

E per quanto il dio, il mostro bifronte, Quasimodo, Mr. Hide, il malato anarchico, il serial killer-borghese, la donna-strega, l’innamorato occulto, l’attore, l’artista, il tecno-ibrido, spaventino e inquietino gli scettici che, si chiedono, cosa resterà una volta terminata la pozione, calato il sipario o durante un crollo di tensione elettrico, affidandomi alle parole conclusive di Scuderi voglio lasciare e lasciarmi una sognante speranza ed una fiera impronta :

” … emergiamo dall’esperienza-visione di questo strabiliante cosmic-journey coscienti che per continuare a vivere e crescere nel nostro tormentato pianeta, non basterà il puro epistéme del lògos tecnologico, ma avremo sempre più bisogno dell’intelligenza delle emozioni; la sola capace di… raccontare ancora la ricchezza del passato, aiutare a leggere un inquieto presente, immaginare un futuro possibile: come un tempo faceva… la saggia métis del Vecchio del Mare.”