Fede e Ragione, Essere e Divenire, Trascendenza e Immanenza, a ogni piè sospinto opzioni binarie di conoscenza. Tante doppie visioni in cui resta in panne la nostra inalienabile aspirazione alle risposte ultime indispensabili per vivere e sperare a chi ne è capace, si oppongono in pari energia e persuasività, sì che l’ansia non ceda e non lasci spazio a nessuna certezza pacificante che esima da un confronto permanente con noi stessi e l’intorno. E poi c’è l’asino di Buridano che se la cava senza una razionale e comprensibile spinta ad agire. E’ la medesima ragione a dirlo, e abbiamo solo quella ad amministrarci, meritando fiducia, per essere forte, coerente ed equidistante da controllarsi nei suoi movimenti e giungere a sospendere e a negare anche se stessa se occorre al ragionamento. E oltre i fenomeni e i segni che percepiamo soltanto le ipotesi restano e al loro livello, per la ragione sana, una vale l’altra.
Siamo tutti parenti. Potremmo sostenere che San Francesco, mutatis mutandis, abbia attinto più in fondo di Giacomo Leopardi nel riflettere sul destino degli uomini, giacché la comunione creaturale che si avverte nel santo si esprime e si risolve in accettazione, sapienziale conquista, mentre l’empatia di Leopardi è recalcitrante, cerca alleati per la consolazione. Parenti dunque, ma di tutti i moti e le vicende possibili al divenire, rimescolati in ordine di struttura, riparando lesioni e recuperando equilibri con azioni infallibili ed efficaci, altro che le gestioni approssimate ed aleatorie dell’umanità. Parenti, non importa da chi generati, per quanto riguarda il senso, ancorché misterioso, dell’intero universo. Abbiamo le parole sufficienti per parlare di questo argomento estremo, che abbraccia il percepibile e il pensabile, ma non una di più.
Ogni tanto si annuncia una scossa forte, assai più di quelle che avvengono in ogni istante davanti agli occhi e sotto i piedi a ognuno, senza che se ne accorga né che lo sappia, e allora le si dà un nome, a seconda che porti vantaggio o danno alla miope empiria che la maggior parte suole indicare come la stessa vita. Anche per questo di certo c’è una ragione, maligna qui ma necessaria altrove. Certo è difficile – finché si parli in termini apprezzabili dai sensi preposti ad avvertire, a misurare e a prevedere le vicende umane – sentirsi nella stessa condizione dei vermi, delle foglie, delle muffe, dei sassi, delle polveri, dei venti e tutto il resto in cui distinguiamo i modi incontrollabili del divenire, ma se sfruttiamo tutte le parole, e il non abusivo pensiero che ne deriva, si può ben indicare l’universo, quello innegabile che ci risulta, come un compatto e unico organismo strutturato in legami di parti in moto, tutte ugualmente necessarie al mondo e di esso a un tempo rappresentative. Già l’intuizione poetica e filosofica, annaspante in ipotesi a far quadrare i conti della ratio e delle emozioni, ha indovinato spesso cose concrete che pur non si vedevano, e poi la scienza, col suo “nulla si crea e nulla si distrugge”, ancora calza a offrirci un quadro d’insieme sufficiente alla mente. La Gestalt può nascondersi ma agisce in ogni esigenza estetica e cognitiva, che, fra l’altro, parrebbero sovrapporsi nelle alte strategie della conoscenza.
Se avessimo nozione di tutte le pesti che hanno formato il volto dell’universo, e non solo di quelle ravvicinate, nel tempo, nello spazio e nei documenti della storia e dell’arte, avremmo diversa impressione da certi eventi: la filogenesi sarebbe non dico chiara ma più continua e meglio collegata al brodo primordiale che, arricchito, sofisticato nei millenni in vista delle odierne sostanze, se ci si pensa su ancora dà emozioni e sussidio al presente. Il modo che gli umani hanno escogitato per ordinare e possedere il mondo, dominarlo per quanto fosse concesso dal mondo stesso che lo richiedeva ai fini della cura e della memoria, è la nominazione, necessaria ad essere in qualunque modalità. E con i nomi, come usa dire il volgo, se ne son fatte proprio di tutti i colori. Non c’era altra via da percorrere a tale scopo. In prospettiva terricola un nome di moda è ora virus, quello che sta a indicare il male trionfante sul’intero pianeta, a mettere alla prova del terrore la fatua e superbissima sicurezza frutto insulso dell’anima digitale. Ma si deve dir peste. Esaminiamo bene questa parola, ben più inclusiva, forte e collegata agli effetti psichici degli umani, di quanto sia l’asettico e speziale termine virus: questo si domina, la peste no, ce lo impone la lingua, connotando di morte e di crudeltà ogni suo modo di esplodere senza misura. Sono oltretutto, quelle della peste, in prospettiva umana ravvicinata, provocazioni a difendersi in ogni caso, fosse anche con la sola coscienza critica, ma c’è l’istinto di sopravvivenza, che confonde le idee, e spinge a reagire nei modi più inconsapevoli, anche impropri e nocivi, e qui la zetetica incontra, di volta in volta, le sue variegate risposte circa le prove imposte alle specie durante il collaudo dei mezzi che la natura appronta a mano a mano in vista di una ricomposizione di equilibri perduti, e ogni estinzione può esserne esempio chiaro.
Se la chiamiamo peste, questa sciagura, si presta meglio a essere pensata nella complessità delle sue suggestioni. Con un nome emotivo che si utilizza confusamente a esprimere fuga e paura, non a fermare, ristretta in definizione, un’idea transitoria di malattia, perché la peste è intesa solo al momento in cui si trova in atto senza confini o limiti fra gli umani, il virus no, può essere concepito anche secondo un suo proprio e isolato statuto. La manifestazione della peste, inarrestabile, subdola e universale, produce un’oscura e imprevista disperazione che arriva ogni volta a sconvolgere le certezze e a tentare alle antiche superstizioni, ma ciò ha pur una base di dignità nel cinquanta per cento di libertà ragionevole di cui si dice.va all’inizio di questo discorso. Davanti al concetto acquisito di apoptosi si può dire che tutto sia peste al tutto, come energia immediatamente letale, necessaria e continua nel divenire, per cui risulta chiaro e non peregrino quanto afferma Sergio Givone in Metafisica della peste (Einaudi, 2012), citato da Stefano Lanuzza in Pensare la peste (Lunarionuovo, 2013) a sapido commento dello studio. Due detti restano in mente: “in principio dunque fu la peste” e “la peste sono io”. Vien da pensare a tutte le potature dell’affollato albero della vita, a quella selezione naturale che opererebbe all’interno di ogni vicenda e per mezzo di tutto. La morte programmata nella natura, benché invisibile il più delle volte, si annida in tutti i processi in chissà quanti modi: ne abbiamo esempio in quelli familiari e ricorrenti nelle varie stagioni, mai guardati con ansia o con meraviglia, né tantomeno con paura in quanto non ci uccidono e anzi danno profitto: mettiamo la caduta delle foglie, lo spegnersi dei fiori in pro dei frutti, e tutta l’infinita teoria di fatti di morte produttiva, ben diversa dalla necrosi, ammesso che ci sia, che non prevede idea di alcun ritorno.
Per dirla tutta, com’è pur dovere, si è e bisogna essere peste a se stessi, e ormai non ci dovrebbe essere bisogno di ulteriori passaggi di spiegazione. Mi basterebbe aver messo in buon gioco questo attacco di insania sempre in agguato che è la peste espressiva, onde la carne muore e si fa scrittura.
Sangiuliano (Giuliano Santangelo)