L’Arte mi sembra il modo più bello di mettere in dubbio la “Realtà”; l’Arte si porta sempre la luminosa insinuazione che la “Realtà” non sia seduta immobile e tronfia sul trono di una scontata necessità, vestita di regime, dogma e destino, o nudamente relativa; ma si lasci di volta in volta, e sempre in parte, scoprire come frutto cangiante del nostro mododi incontrare le cose e gli altri. Il modo-moto dell’Arte appare insomma come la felice condizione in cui la consapevolezza dei limiti (a cominciare da quelli percettivi), si fa dinamica premessa della possibilità creativa dell’esistenza.
In questo senso l’Arte è il miglior augurio per la vita stessa, disseminata di siepi dalle quali spesso non si scorge l’infinito.
Un giorno una bambina beneducata e curiosa (le due cose possono anche andare d’accordo), mise in dubbio la sua “Realtà” o, per l’esattezza, per curiosità vi aprì una crepa… Nella crepa il tempo ansimante della curiosità si fermò, lo spazio si fece profondo e si riempì di pensieri: “O il pozzo era profondissimo oppure Alice precipitava lentissimamente, perché mentre cadeva ebbe un mucchio di tempo per guardarsi intorno e chiedersi cosa sarebbe accaduto poi”[1. L.Carroll, Le avventure di Alice nel paese delle Meraviglie e Al di là dello specchio, Einaudi, Torino 2003, p. 6.]. La caduta realizza, a sbuffi d’ariosa levità sospesa, quello scarto destrutturante e fecondo da una realtà mono-blocco e da un mondo dato-per-scontato, che fonda insieme l’esperienza scientifica, artistica e autenticamente umana, e costituisce la sfida culturale complessa di uno spazio-tempo piegato ad arte. Era già caduto grandiosamente e lungamente Dante all’inferno, anche se per far brillare poi più intensamente le sue cristiane certezze, ed era caduto in particolare penetrando artisticamente ed empaticamente la straziante alterità di Paolo e Francesca: aveva già capito che l’inferno sono gli altri…
A proposito di abissi e inferni interni, un medico, novecentesco Colapesce, tuffandosi nel sogno, si mise a scardinare dalle fondamenta la “Realtà”, per poi cercare invano di sorreggerla con la psicanalisi… Ma ormai il danno era fatto, e già a Trieste c’era chi affilava le lame baluginanti dell’ironia per mettere in dubbio la psicanalisi stessa, e scavare il volto grigio di una realtà ora aperta come misera forbice tra una stolta salute priva di dubbioso spessore autoriflessivo, e una malattia della consapevolezza che paralizza l’azione in continui gorghi di dubbi e ghigni, grottesco straniato requiem per la “normalità”. “La salute non analizza se stessa e neppure si guarda allo specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi.”[2. I. Svevo, La coscienza di Zeno,La Spiga, Milano 2005, p. 112.].
Ed ecco finalmente, (evocato dalle rifrangenze semantiche dell’inglese wonder che “significa anche «chiedersi»: rivolgere domande a se stessi, e anche domandare di sé”[3. S. Bartezzaghi, Il patto con l’Unicorno, ne Le avventure di Alice nel paese delle Meraviglie e Al di là dello specchio, Einaudi, Torino 2003, p. XXVI.]), apparire al centro della pagina, tra riflessi grigiosvevo e bagliori rossofiaba, lo specchio. Sfilano fermandosi davanti ad esso, in bizzarro e vociante dis-ordine alfabetico: Alice, Amleto, Dante, Edipo, il Maestro, Margherita, Mattia Pascal, Raskol’nikov, Ulisse, Zeno… Passano dritti tutti quei disgraziati bianconigli (o pecore che dir si voglia) senza dubbio e senza meraviglia, che credono, come Donna Prassede, che il cielo coincida col loro cervello, e per questo hanno sempre in poppa il vento della prassi (“la politica del fare”). Davanti allo specchio si fermano anche i narcisisti, che però pongono solo domande retoriche, del tipo: “Specchio, specchio delle mie brame…” (guai a non rispondere come si aspettano…).
La caduta di Alice, il volo di Margherita, l’esperimento della bimba che tira la tovaglia in una deliziosa lirica della Szymborska, ci restituiscono a fiammeggianti palpiti fantastici il moto metamorfico e metaforico della realtà, in un gioco metatestuale curioso o addirittura diabolico di dubbio e meraviglia che però non mette mai in scacco, anzi fa risaltare, il senso vitale e, direi, provvidenziale, della creazione.
“Albeggiano le distanze tra gli oggetti,/ i primi bagliori cinguettano/ sulla bottiglia, sulla maniglia.”[4. W. Szymborska, Ora mattutina, da Attimo, Libri Scheiwiller, Milano 2004, p. 57.]
Nel terremoto di specchi, scacchiere, tovaglie tirate, cieli di carta strappati, orologi squarciati segnano di sghembi chiaroscuri i rintocchi dell’interiorità e degli incontri. “Ogni tanto le pareva che l’orologio fosse rotto e le lancette fossero ferme. Ma esse si muovevano sia pure molto lentamente, come se si appiccicassero, e finalmente la lancetta piu’ grande giunse a un minuto dalle nove e mezzo”[5. M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, BUR, Milano 2000, p. 287.].
Al poeta non resta che mescolare sudando le carte delle parole, appeso per la penna alla magia e all’ironia della sorte, a trasformare un senso unico in una nuova strada, un dubbio in una meraviglia.
A dare del “tu” all’infinito.