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  1. Parlare di giustizia, di magistrati e di ricerca della verità giudiziaria, a proposito dell’opera di Leonardo Sciascia, è un’operazione tutt’altro che semplice.

Non è semplice perché questi temi costituiscono una sorta di filo conduttore della straordinaria opera – letteraria, saggistica, editoriale – di Leonardo Sciascia e sono stati affrontati da figure intellettuali che scoraggiano ulteriori cimenti; e scoraggiano soprattutto me che devo cimentarmi con questa impresa.

E non è semplice, anche per un altro ordine di ragioni, collegato al fatto che il tema della giustizia e dei magistrati sciasciani è stato talmente dibattuto, condiviso, avversato – troppo spesso strumentalizzato per finalità contingenti, che non hanno reso onore alla riflessione sempre lucida di Leonardo Sciascia – da imporre a chiunque vi si confronti una grande cautela e un rispetto, necessariamente esegetico, del punto di vista del Maestro racalmutese.

Le difficoltà, per me, sono accentuate dal fatto che non ho mai conosciuto personalmente Leonardo Sciascia e non ho mai avuto a che fare con ambienti sciasciani; ho solo alcuni ricordi collegati ai racconti che mi sono stati fatti da amici dello scrittore, che però non mi hanno mai consentito di avere un’idea precisa sulla sua figura umana, che reputo indispensabile per affrontare un discorso non strettamente filologico su un intellettuale della sua insuperabile statura.

Con queste, doverose, premesse metodologiche e, naturalmente, senza alcuna pretesa di originalità, penso che qualche parola su tali argomenti si possa spendere.

 

  1. Mi sembra, innanzitutto, opportuno evidenziare che Leonardo Sciascia affronta il tema della giustizia, da un triplice punto di vista: quello dell’editore, quello del saggista-polemista e quello dello scrittore. Tutti e tre questi punti di vista mi sembrano collegati e ispirati dalla visione etica del ruolo dell’intellettuale che caratterizza il pensiero dello scrittore racalmutese.

In queste mie riflessioni sparse, partirei dal punto di vista sulla giustizia espresso da Leonardo Sciascia nella sua attività di consulente principe della Casa editrice Sellerio di Palermo, che è passato in secondo piano rispetto al suo multiforme impegno culturale, ma che, a mio avviso, costituisce un esempio inarrivabile per chiunque decida di confrontarsi con i temi giudiziari.

Attraverso questa pluriennale attività editoriale, infatti, Leonardo Sciascia ha perseguito, con successo, l’obiettivo di sprovincializzare il dibattito sui temi giudiziari, guardando, con il suo incomparabile sguardo, europeista e illuministico, al problema dell’accertamento della verità mediante il processo e ai suoi protagonisti; percorso, questo, che viene condotto attraverso la proposizione di grandi opere letterarie, nostrane e straniere, talora contemporanee talora del passato, spesso, ingiustamente, dimenticate.

In questo contesto, mi sembra opportuno richiamare alcune opere pubblicate sulla collana “La Memoria” della Sellerio, che forniscono una dimostrazione di quanto si sta affermando e dell’approccio, come detto europeista e illuministico, con cui Leonardo Sciascia si avvicinava ai temi della giustizia, miscelando in modo incomparabile antico e moderno, cultura classica e cultura contemporanea. Basti pensare, limitandoci a richiamare alcuni dei titoli pubblicati sulla collana “La Memoria”, a Il procuratore della Giudea di Anatole France, pubblicato sul numero 4; a Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, pubblicato sul numero 27; a La democrazia come violenza di Anonimo ateniese, pubblicato nel numero 42; a La sentenza memorabile dello stesso Sciascia, pubblicato sul numero 56; a Storie di oligarchi di Luciano Canfora, pubblicato sul numero 72; a La repubblica luminosa di Cicerone, pubblicato sul numero 156.

Attraverso questa attività editoriale Leonardo Sciascia, dunque, mirava a fornire un esempio di letteratura sulla giustizia, nella quale la disamina degli obiettivi giudiziari perseguiti non è mai disgiunto dalle finalità etiche che sono correlate a tali obiettivi, pretermettendo le quali è incombente il pericolo del collasso morale della giustizia, di cui è esemplare rappresentazione l’errore giudiziario. Da questo punto di vista, i volumi che ho citato – e soprattutto le opere di Alessandro Manzoni e Anatole France – costituiscono la concretizzazione delle idee di giustizia e di in-giustizia sciasciane e una sorta di memento indispensabile per evitare il verificarsi di errori giudiziari, che costituiscono il pericolo incombente sul processo; pericolo che è tanto maggiore quanto più ci si allontana da una dimensione etica dello jus dicere, che trae il suo fondamento dalla ricerca della verità, che non può passare attraverso semplificazioni procedurali e scorciatoie poliziesche.

L’errore giudiziario, del resto, secondo Leonardo Sciascia, è sempre visibile a uno sguardo scevro da condizionamenti, quale dovrebbe essere quello del giudice, che non può accettare compromessi con la sua coscienza e non deve cercare facili consensi, il cui perseguimento costituisce la negazione dell’idea stessa di giustizia e apre inevitabilmente le porte all’in-giustizia. L’eticità della decisione, pertanto, diventa l’imperativo categorico dell’idea sciasciana della giustizia, che è la conseguenza del fatto che i magistrati – come diceva Montesquieu, uno scrittore molto praticato da Leonardo Sciascia – esercitano un “potere terribile”, perché, è un potere degli uomini sugli uomini, che, incidendo sulla libertà, è in grado di distruggere la vita delle persone nei confronti delle quali è esercitato; o, per usare, un’altra citazione altrettanto famosa e di analogo sapore, tratta dalla lettera di San Paolo ai romani: “La legge provoca la collera di Dio”.

 

  1. Queste idee, che costituiscono il filo conduttore dell’attività editoriale condotta da Leonardo Sciascia presso la Sellerio, vengono riproposte con maggiore vigore nella sua attività di saggista-polemista, portata avanti per diversi anni sia come autore di saggi sia come commentatore presso i quotidiani più importanti.

Tale attività ha dato all’Autore racalmutese una grande notorietà mediatica, che talvolta ha finito per superare la sua stessa fama di narratore, facendolo conoscere al grande pubblico, che ne ha fatto un punto di riferimento del dibattito sui temi della giustizia e del ruolo della magistratura, al quale, ancora oggi, a distanza di trent’anni dalla sua morte, si continua a pensare.

3.1. A conferma di questa sua fama mediatica, come non ricordare l’articolo intitolato “I professionisti dell’antimafia”, pubblicato sul Corriere della sera del 10 gennaio 1987, che non solo alimentò grandi polemiche nell’opinione pubblica dell’epoca, ma diede vita a un vero e proprio neologismo, tuttora largamente utilizzato dai commentatori dei temi giudiziari.

Quell’intervento memorabile di Leonardo Sciascia, in realtà, non mirava a descrivere o a criticare alcuni settori della magistratura nostrana, come in modo strumentale, ancora oggi, taluni cercano di far credere ai sempre meno avveduti lettori, ma a dare corpo alle inquietudini dello scrittore racalmutese, che traevano origine da un libro pubblicato da un autore inglese, Christopher Duggan, presso la Casa editrice Rubettino, intitolato La mafia durante il fascismo. Tali inquietudini – che erano già presenti, in modo embrionale, nei romanzi Il giorno della civetta e A ciascuno il suo – riguardavano il pericolo che, attraverso gli strumenti del contrasto alla criminalità organizzata, potessero essere attenuate le garanzie individuali, con un percorso istituzionale che si era già concretizzato in Sicilia nei primi anni del fascismo, con l’azione repressiva condotta dal prefetto Mori.

Come è agevole constatare, si tratta di temi intimamente connessi al discorso sulla giustizia portato avanti da Leonardo Sciascia nel corso della sua multiforme attività culturale, che, ancora oggi, si presentano con immutata attualità, ponendo il problema del punto di equilibrio tra l’azione di contrasto alla criminalità organizzata e il rispetto delle garanzie individuali; punto di equilibrio che si ripropone ciclicamente in tutta la sua precarietà, culturale ma anche istituzionale, oscillante tra l’esigenza di reprimere i fenomeni mafiosi tenendo conto delle loro peculiarità criminali e la necessità di garantire i diritti di libertà degli individui, che, una volta compressi per contingenti ragioni, pur legittime, difficilmente possono essere recuperati nella loro impregiudicabile connotazione.

Al contempo, la ricerca di questo punto di equilibrio non può mai essere disgiunta dalla ricerca della verità giudiziaria, che, come un fuoco sacro, deve sempre animare il giudice, che non può accontentarsi di soluzioni facili, ma ha il dovere – ancora una volta etico – di scavare oltre le apparenze delle vicende sottoposte al suo vaglio e al suo “terribile” potere.

3.2. Sotto questo profilo, il punto più alto dell’attività di saggista-polemista di Leonardo Sciascia è rappresentato dalla pubblicazione de L’affaire Moro, che aveva luogo, in concomitanza con la vicenda descritta nel numero 80 della collana “La memoria”, già citata, con cui l’Autore racalmutese affrontava uno dei casi più dibattuti della storia italiana: il sequestro dell’onorevole Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, avvenuto il 16 marzo del 1978 e conclusosi il 9 maggio dello stesso anno con il suo assassinio.

Questo libro, infatti, pubblicato nel 1978 e accompagnato da aspre polemiche, ha finito per diventare, con il passare degli anni un vero e proprio caposaldo della saggistica d’inchiesta, costituendo un esempio del rigore intellettuale e della coerenza metodologica con cui Leonardo Sciascia portava avanti le sue idee sulla giustizia e sulla ricerca della verità attraverso il percorso giudiziario.

Il punto di vista che sottostava a L’affaire Moro è noto ed è collegato alle informazioni e alla documentazione acquisite da Leonardo Sciascia come componente della Commissione bicamerale d’inchiesta sul sequestro di Aldo Moro, della quale il nostro Autore faceva parte quale deputato del Partito Radicale.

In questo contesto, Leonardo Sciascia, anziché accettare l’idea, largamente dominante, che le lettere di Aldo Moro fossero prive di valore perché frutto della condizione di costrizione patita per mano delle Brigate Rosse, iniziava un’opera minuziosa di analisi delle missive, riuscendo a ricostruire un ordito di pensieri e di opinioni che, a distanza di più di quarant’anni, costituiscono un esempio, difficilmente eguagliato, di approfondimento dello stato d’animo vissuto dallo statista democristiano durante la sua prigionia. In questo modo, Sciascia, attraverso una disamina accurata ed esegetica delle lettere di Moro, condotta con lo scrupolo tipico del giudice – cioè di colui che, per professione, deve accertare la verità –, riesce a scandagliare con mirabile efficacia la condizione psichica ed emotiva del prigioniero e la trama dei suoi tormentati sentimenti, fino ad allora quasi insondabili.

L’affaire Moro, pertanto, finisce per trascendere il singolo episodio scandagliato dal Maestro racalmutese e diventa una sorta di manifesto della ricerca della verità sciasciana: quella ricerca della verità che deve sottostare all’attività del giudice e che presuppone una tensione, individuale ed etica, che prescinde dal singolo caso trattato dal giudice – o parafrasando Carlo Ginzburg – dallo storico.

3.3. Nella stessa direzione, devono essere letti gli interventi giornalistici che Leonardo Sciascia pubblicò sul volume A futura memoria, che toccano alcuni temi centrali della sua idea, illuministica ed europeista, di giustizia, quali quelli del contrasto alla criminalità organizzata; dell’azione repressiva iniziata e successivamente interrotta dal prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa; degli errori giudiziari sempre più frequenti nelle aule di giustizia e dei possibili correttivi normativi a tali disfunzioni. Punti di vista espressi da Leonardo Sciascia con la sua voce sempre lucida, controcorrente, che esprimeva il suo anelito di giustizia, senza mai stancarsi di destare l’attenzione dell’opinione pubblica sui pericoli di una ricerca giudiziaria di un colpevole, quale che sia, come nelle mirabili pagine manzoniane de La colonna infame, da lui tanto amate e più volte citate nei suoi interventi.

Questi interventi mettono in risalto la grande figura di saggista-polemista di Leonardo Sciascia, che, fino alla fine dei suoi giorni, continuò a denunciare la pervasività territoriale della criminalità organizzata e le connivenze, sociali e istituzionali, che ne avevano permesso l’affermazione, denunciandole senza ambiguità e infingimenti intellettuali. Tale attività di denuncia, tuttavia, non risultava mai recessiva rispetto al culto delle garanzie individuali, di matrice voltairiana, che, dal suo mirabile punto di vista, imponevano uno sforzo, culturale prima ancora che istituzionale, che consentisse di coniugare efficienza investigativa e tutela della libertà dei cittadini.

 

  1. Resta da affrontare un ultimo tema, certamente il più suggestivo: quello della giustizia e della ricerca della verità nelle opere letterarie di Leonardo Sciascia.

La suggestione deriva dal fatto che l’intera opera narrativa di Leonardo Sciascia è incentrata su questo argomento, rendendo difficoltosa l’enucleazione di archetipi letterari utili a descrivere l’approccio con cui il Maestro racalmutese lo affrontava.

Ritengo però possibile affrontare questo tema, concentrandomi, naturalmente per sommi capi, su due segmenti dell’opera narrativa di Leonardo Sciascia – rappresentati da Il contesto e Porte aperte –, che fanno emergere, in modo contrapposto e speculare, le idee sciasciane sulla giustizia, sulla verità giudiziaria e sul ruolo dei magistrati.

4.1. Si è detto spesso, a torto, che Leonardo Sciascia non aveva in simpatia i magistrati e la magistratura italiana – mi si perdoni la semplificazione – e, invero, una lettura sbrigativa de Il contesto, che è il primo romanzo al quale vorrei riferirmi, sembra confermare questa superficiale opinione.

La trama de Il contesto è nota.

Dopo l’omicidio di un alto magistrato, il procuratore Varga, al quale fanno seguito gli assassini di altri quattro alti magistrati, Sanza, Azar, Rasto e Galano, inizia una serrata attività d’indagine dell’ispettore Rogas – che è il protagonista del romanzo e un uomo di grande cultura e straordinario acume investigativo – che segue un duplice percorso investigativo, che lo porta a scandagliare gli errori giudiziari dei magistrati assassinati e gli intrecci di potere tra le vittime e l’assetto istituzionale del Paese.

Procedendo con le sue indagini, l’ispettore Rogas si rende conto che si sta architettando una sorta di complotto, attraverso cui i detentori del potere istituzionale, con la collaborazione dei vertici della magistratura, rappresentati dal presidente della corte suprema Riches, cercano di consolidare la loro supremazia; indagini che sembrano confermare le ipotesi investigative di Rogas e disvelano intrecci di potere inaspettati, fino alla conclusione enigmatica del romanzo.

Occorre aggiungere che la nazione in cui è ambientato Il contesto non è definita e anche i nomi e i luoghi del romanzo sono frutto d’invenzione; tuttavia, dietro tale toponimica narrativa, appaiono evidenti i riferimenti alla problematicità della situazione istituzionale italiana degli anni Settanta e all’ambiente giudiziario, soprattutto siciliano, in cui la parte iniziale del racconto sembra ambientata.

I riferimenti alla confusa situazione istituzionale italiana degli anni Settanta, del resto, sono innegabili, sol che si consideri che dei delitti investigati da Rogas nel romanzo non si offre una spiegazione esplicita, un movente giallistico, essendo il racconto costruito in modo tale da non fare comprendere fino in fondo le dinamiche dei fatti criminosi indagati e le causali degli omicidi, che si verificano in una situazione confusa e contraddittoria.

In questa cornice narrativa, Il contesto è fondamentale per comprendere l’idea che Leonardo Sciascia aveva della giustizia e dei suoi protagonisti, perché chiarisce il suo punto di vista, negativo e pessimistico, sugli assetti di potere che governano la magistratura – del Paese di Rogas, ma naturalmente anche dell’Italia – che, quanto più si allontana dall’idea illuministica ed europeista che lo scrittore aveva della ricerca della verità giudiziaria, tanto più si allontana dall’etica, che è il faro che deve illuminare l’attività dello jus dicere.

I magistrati, o meglio gli alti magistrati, che animano Il contesto, infatti, non sono “uomini di giustizia”, nel senso più nobile del termine, ma “uomini di potere”, accanitamente votati al rafforzamento delle proprie posizioni istituzionali e sostanzialmente disinteressati alle vicende giudiziarie, che dovrebbero dominare i loro pensieri, prima ancora che le loro azioni professionali. La conseguenza di questa incessante ricerca del potere, secondo Sciascia, determina nei magistrati e soprattutto negli alti magistrati – del suo indimenticabile romanzo e, indirettamente, del nostro Paese – una cesura insanabile con la società su cui dovrebbero vigilare e con i principi che dovrebbero accompagnare la loro opera di controllo giurisdizionale.

Da questa visione degli assetti di vertice del mondo giudiziario discende il quadro di una magistratura cupa e caricaturale, descritta in termini quasi apocalittici, esclusivamente arroccata sulle sue posizioni di potere e orientata al rafforzamento del suo ruolo istituzionale, immemore delle ragioni della sua funzione di servizio, che non può coincidere con il perseguimento di interessi personali.

Questa visione pessimistica della magistratura e soprattutto del potere giudiziario, del resto, Leonardo Sciascia la propose, per oltre un ventennio, ai lettori italiani dei suoi interventi di saggista-polemista, di cui mi sono già occupato, segnalando, controcorrente e spesso profeticamente, i rischi di una magistratura autoreferenziale, chiusa in se stessa e lontana dalle ragioni, profondamente etiche, necessariamente illuministiche, che dovrebbero ispirare il suo operato.

4.2. Il polo opposto e positivo della visione della giustizia e dei suoi protagonisti di Leonardo Sciascia è certamente rappresentato dal romanzo Porte aperte, che – lo confesso – è l’opera narrativa dello scrittore racalmutese che ho più amato; amore, accresciuto dalla straordinaria interpretazione che fece del suo protagonista, il giudice Vito Di Francesco, Gian Maria Volontè, che interpretò il film di Gianni Amelio del 1990.

Anche la trama di Porte aperte è nota.

Nella Palermo degli anni Trenta, un giudice di corte di assise, Vito Di Francesco, tenta di opporsi con gli strumenti che gli riconosce la legge, alla condanna a morte di Tommaso Scalia, un impiegato appena licenziato, che aveva ucciso, in uno stesso giorno, il suo ex datore di lavoro, un ex collega e la moglie. Tommaso Scalia è stato già condannato dall’opinione pubblica, artatamente manipolata, e chiede egli stesso di essere giustiziato, ma trova di fronte a sé il giudice Di Francesco che non vuole che l’imputato sia condannato a morte e, nonostante le pressioni ricevute, riesce a farlo condannare alla pena dell’ergastolo; condanna che verrà ribaltata nei successivi gradi di giudizio, in conseguenza dei quali l’imputato verrà fucilato.

Occorre anche dire che il giudice Di Francesco pagherà questa sua intransigenza, morale e professionale, con la rovina della sua carriera, atteso che verrà trasferito in una piccola pretura di provincia, nella quale concluderà il suo percorso lavorativo.

Porte aperte, dunque, propone un modello di magistrato e di giurisdizione che è assolutamente contrapposto, ma speculare, a quello esaminato per Il contesto. Un magistrato che non è interessato al potere che gli deriva dalla funzione giudiziaria, a differenza degli alti magistrati uccisi su cui indaga Rogas, ma all’oggetto dell’attività processuale, che è l’imputato come essere umano, sulla cui vicenda ha il dovere di impegnarsi a fondo, attraverso una ricerca della verità che non può che essere spasmodica e che deve essere libera da pregiudizi e condizionamenti; ed è emblematica, da questo punto di vista, la figura del procuratore generale, che costituisce una sorta di alter ego narrativo di Vito Di Francesco e che presenta gli stessi caratteri, umani e professionali, che connotano negativamente le figure giudiziarie de Il contesto.

Porte aperte, molto spesso, è stato indicato come un libro-manifesto contro la pena di morte e tale è certamente; ma è anche – e non secondariamente – un libro sulle qualità che deve avere un magistrato e sui valori che devono animare il suo impegno professionale: la ricerca della verità, perseguita a costo dei propri interessi di carriera; l’assenza di condizionanti esterni; l’indipendenza, morale, intellettuale, di giudizio; il ripudio di ogni pregiudizio nei confronti dell’imputato, quand’anche autore di condotte esecrabili.

Un libro che, pur nella sua veste narrativa, ha una sua intrinseca, elevatissima, dignità culturale, che lo colloca sullo stesso piano delle riflessioni sull’afflittività della pena di Luigi Ferrajoli ed Elvio Fassone.

Ed è proprio la scelta di prefigurare un modello, quasi archetipico, di magistrato, che colloca Porte aperte nel solco della più alta letteratura europea, atteso che i tormenti del giudice Di Francesco sono i tormenti dell’essere umano, dell’intellettuale che si trova a dovere scegliere tra ciò che è “giusto” e “ciò che è opportuno”; riflessioni, queste, che avvicinano Porte aperte alle opere più riuscite di Dostoevskij, che difatti Sciascia cita nel suo romanzo, richiamando l’episodio de L’idiota in cui il principe Myskin parla con un suo servo dello sgomento provocatogli dalla decapitazione di un criminale a Parigi.

Devo aggiungere, nel concludere queste mie brevi riflessioni, che, nel mio immaginario dell’opera sciasciana, la consacrazione di Porte aperte è anche dovuta all’interpretazione fornita da Gian Maria Volontè alla figura di Vito Di Francesco nel film di Gianni Amelio.

Nel giudice Di Francesco di Gian Maria Volontè, infatti, lo sforzo incessante di ricerca della verità, perseguito con gli strumenti della legalità e nel rispetto dei valori ai quali ci si è riferiti, finisce quasi per estenuare il protagonista filmico, che esprime con i suoi gesti lenti e misurati l’umanità dolente che rappresenta e il suo disincanto, che lo fa approcciare alle vicende giudiziarie di cui si occupa in modo distaccato, ma proprio per questo più serenamente e senza alcun pregiudizio.

 

Alessandro Centonze

Alessandro Centonze è nato a Siracusa e vive tra Catania e Roma, dove presta servizio, con funzioni di consigliere, presso la Prima Sezione penale della Corte Suprema di Cassazione. In precedenza, ha svolto, presso uffici giudiziari siciliani, sia funzioni requirenti che funzioni giudicanti. Ha anche insegnato, presso l’Università degli Studi di Catania, diritto processuale penale e diritto penale transnazionale. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche, tra cui le monografie "Il sistema di condizionamento mafioso degli appalti pubblici" (2005), "Criminalità organizzata e reati transnazionali" (2008) e "Contiguità mafiose e contiguità criminali" (2013).