Ashraf Fayad come Torquato Tasso
Tra carcere e “Khaaba”, la poesia
Come “quando l’autunno è diventato disoccupato… dopo la caduta di tutte le foglie!” ecco che il poeta Fayad, in carcere per apostasia e ateismo, senza pronunciare “bismilah” (“in nome di dio”), inizia un colloquio e riflessione con la poesia “Khaaba e le sue sorelle” (Khaaba, “essere deluso”). “Khaaba e le sue sorelle” è uno dei testi di poesia che si trova nel libro “Epicrisi” (Di Felice Edizioni, 2019). Il libro, nella sua versione italiana, è a cura di Sana Darghmouni che n’è sia traduttrice che postfatrice (prefazioni di Paolo Branca e Massimo Campanini). Con “Epicrisi”, il poeta Fayad (in carcere) sembra dire che la vita è ciò che accade! Proprio come è successo a Torquato Tasso un po’ di secoli prima (XVI secolo), mentre nel XIX secolo, il poeta Leopardi ne traeva occasione per un dialogo.
Nel giugno del 1824 Giacomo Leopardi – rielaborando la nota vicenda dell’incarceramento (1579) come pazzo di Torquato Tasso nell’ospedale ferrarese di Sant’Anna per ordine del duca Alfonso II d’Este – scrisse il famoso «Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare» (si diceva che il poeta Torquato, avendo profferito delle parole lesive per la dignità della corte estense, in realtà avesse di mira il potere, il duca Alfonso). Il giovane poeta palestinese Ashraf Fayad, in atto è nelle carceri dell’Arabia Saudita, perché le sue prime poesie, pubblicate nel 2008, e poi raccolte e tradotte in Italia con «Le istruzioni per l’uso, 2016» (la versione italiana è di Gassid Mohammed e Sana Darghmouni), sono state dichiarate e giudicate blasfeme e offensive dal potere saudita: commentavano e criticavano le questioni sociali nel mondo arabo, l’esilio, l’amore, la situazione dei profughi.
L’analogia fra le sorti dei due poeti è fuori dubbio (potrebbero essere citati altri casi…, la storia che ci appartiene ne ha diversi in archivio…). Il poeta che osa sfidare il potere è un pazzo, e chi sfida il potere del governo, fosse anche con il potere della parola poetica, è un pericolo e un esempio da mettere a tacere. Il soggetto va accusato, processato (anche con prove prodotte ad hoc), rinchiuso e condannato a morte (anche se poi può essere ridimensionata). Torniamo ora alle poesie del libro «Epicrisi» di Ashraf Fayad.
Pubblicato in Italia (2019) «Epicrisi», in futuro, forse, darà materia a un altro futuro Leopardi per scrivere un altro dialogo di universale interesse sui rapporti tra poesia e poteri. Nell’opera, come Torquato Tasso, Fayad, facendo interagire poeticamente un “io e un tu”, riflette e risponde su ciò che gli accade, per ciò che dice e scrive, mentre davanti gli si innalza una marea di delusioni (khaaba), «Epicrisi».
Non cosa diversa, tra amarezza e speranza, fa Leopardi nel «Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare». Il dialogo cioè in cui il “Genio” – a fronte del «cicalare» del poeta sulle vanità e le miserie della società degli uomini – risponde che il suo «tempo non è più lento a correre in questa carcere, che sia nelle sale e negli orti, quello di chi ti opprime».
Per un semplice rimando al vocabolario italiano, la parola “epicrisi” viene dal greco «ἐπίκρισις, der. di ἐπικρίνω» e porta tre accezioni significanti quali «distinguere, giudicare, decidere»]. Ora (e solo per citare qualche passo), il poeta in carcere scrive che «da quando l’autunno è diventato disoccupato … dopo / caduta di tutte le foglie! // Dal cielo, // la pioggia cade in quantità variabili a seconda dell’umore / delle nuvole … // […] senza bisogno di dire bismilah prima di fare qualsiasi / cosa! // Allontanati …// La terra è occupata in altro.» (Khaaba e le sue sorelle,”pp. 48, 50, 51); che «La morte è un’idea semplice … / La morte significa che è senza valore / tutto ciò per cui hai vissuto! / la morte non è affatto passibile di comprensione / perché la nostra mente in quel momento smetterà sem- / plicemente di funzionare // Per tua informazione / la vita non è così brutta come nei film / e nemmeno bella come in un sogno compiuto. / E sempre per tua informazione / dopo un po’ di tempo, non potrai più essere sicura della / mia esistenza / non perché sarò altrove a praticare la felicità / come succede spesso nella vita reale, / ma perché la vita reale è l’unica cosa / che non mi potrà mai accadere, nemmeno per quello sba- / glio / che insisto finora a commettere.» (Separazione automatica, pp. 18-19).
Un giudizio e una posizione conclusivi! Un dialogo tra l’io e il tu (che poi si estende per tutto il libro) che si desume da una somma di giudizi parziali, non meno eloquenti le ultime battute che chiudono il dialogo tra Tasso e il suo genio familiare. Quelle cioè in cui il poeta denuncia il suo tempo «notte oscurissima, senza luna né stelle» e, chiedendo al Genio dove trovarlo quando ne avesse bisogno, si sente rispondere: «Ancora non l’hai conosciuto? In qualche liquore generoso». Fayad, come Tasso, ha capito di averlo trovato nella poesia e nella sua parola di riflessione personale e politica come interesse comune e, nel tempo, trasversale denuncia di vite spezzate.
Il poeta palestinese Fayad (sinteticamente e per inciso), con Epicrisi, dà prova ancora di come non sia sufficiente immergersi solo nel tema portante per scrivere poesia. Necessita infatti anche l’apporto della tecnologia poietica! E Fayad n’è consapevole, dove, per esempio, usa gli esclamativi, i parallelismi grammaticali, sintattici e strofici (spesso nella forma delle anafore), la reticenza retorica, l’enjambement e il ricorso a tmesi (spezzamento di una parola composta, o non composta) etc. I puntini di sospensione possono connotare un insieme di densa significanza (titubanza, insinuazione, paura, evasione, inganno, esitazione lasciata indefinita …), come lo spezzettamento delle parole a limite del verso può diventare un’ulteriore schema per iconizzare il come si spezza una vita. Iconizzare cioè l’azione violenta del potere e dei poteri, che, opprimendo mediante l’esecuzione dei suoi organismi complici, bloccano il conflitto individuale e sociale, ovvero mettono a tacere la critica o la voce di denuncia di quanti si provano a metterne in atto i propositi.
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Fra le righe de L’infinita scienza di Leopardi
“L’infinita scienza di Leopardi” (Scienza Express, Trieste, 2019) è una nuova opera sulla formazione e la produzione in progress del pensiero filosofico-poetico di Giacomo Leopardi. Corredata da un notevole apparato di documenti anastatici, l’opera, che delucida sull’ampio spettro degli studi di Leopardi, è un lavoro scritto a quattro mani: Gaspare Polizzi, leopardista (con all’attivo già altri lavori pubblicati su Leopardi), storico della filosofia e della scienza e Giuseppe Mussardo (prof. di fisica teorica alla “SISSA” – Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati – di Trieste). Di questo fortunato incontro cooperativo, per inciso, nella postfazione del libro (p. 188) ne parla Andrea Gambassi, altro “fisico teorico e direttore del Laboratorio interdisciplinare per le scienze naturali e umanistiche della Sissa”.
La novità di “L’infinita scienza di Leopardi” è anche nella qualità degli approfondimenti (che il lettore si troverà ad apprezzare) che i due co-autori lasciano sulle meditazioni del Recanatese e fanno costanti riferimenti alle sue letture, ai suoi appunti zibaldonici e, via via, agli scritti che quelle sorgenti permettevano di alimentare e incrementare tra un affondo “laboratoriale” e un altro. Un laboratorio, la mente di Giacomo Leopardi, che, grazie alla ricca e aggiornata biblioteca paterna e ai contatti prestigiosi per cultura e intelligenza, ha lasciato una produzione di pensiero che il nostro tempo può ancora leggere con profitto.
Già il titolo stesso del libro – L’infinita scienza di Leopardi – ci dice che il focus dello stesso è la domanda sull’infinità o meno del mondo e le possibili risposte registrabili. In genere, il pensiero e il sapere della filosofia, della scienza, dell’arte, della letteratura e della poesia possono dirci o meno con maggiore o minore rispondenza quali fra le teorie, le credenze, i fatti sperimentali e le ipotesi in ballo che ognuno può decidere di assumere come un proprio punto di vista; modelli che possono essere veri, verosimili, credibili, fallibili, problematici. Il punto di vista di Leopardi, è cosa nota, è che l’infinità ci si presenta come un “essere” duale – “infinito” e/o “indefinito” –, un’estensione-giano, bifronte. Un reale che, tra le categorie del reale potenziale e del reale attuale, il soggetto conoscente cerca di catturare mediante i sistemi della formazione simbolica del codice operazionale logico-matematico (scientifico-sperimentale e determinato), o quelli dell’arte, della letteratura e della poesia (affatto algoritmizzabili). La diramazione cioè di senso in fieri che, quest’ultimo linguaggio, all’indeterminabile, indefinito e/o vago dà valore di istanza parallela (secondo chi scrive), se non complementare (filosofia, scienza e poesia non pare, e non da ora, che abbiamo mai avuto confini così netti da non presupporne contaminazioni e passaggi). Ma lasciamo stare.
Torniamo all’itinerario del poeta Leopardi che i due autori tracciano. Sono i segni cioè che ci figurano come una carta geografica in estensione espansa fino al vertice massimo della poesia che nasce dall’inquieto turbinio, scatenato dall’idea dell’infinito e dalla caccia alla sua esistenza, senza dismissione dei dettami e dei rimandi sempre rinascenti tra il rigoroso linguaggio scientifico (del determinismo causale o del probabilistico) e quello artistico e poetico (meno preciso, quest’ultimo, ma non meno significativo). N. Bohr ha detto che per sondare il mondo microfisico è necessario il linguaggio della poesia, mentre R. Thom ha affermato che tutte le metafore sono vere; e se non ricordiamo male, A. Einstein ebbe a dire che la matematica pura è la poesia delle idee logiche, mentre R. Wiener (cibernetico), si racconta che si mettesse a contemplare una tenda mossa dal vento quando le sue riflessioni teoriche rimanevano inceppate e sospese.
L’infinita scienza di Leopardi è un libro articolato in tre parti; e ogni parte è seguita da relativi approfondimenti. La prima parte è “Leopardi e il Cielo” – “Lo sguardo di Giacomo sul cielo”. La seconda è “Leopardi e la Materia” – “Lo sguardo di Giacomo sulla materia”. La terza parte è “Leopardi e l’infinito” – “Lo sguardo di Leopardi sull’infinito”. In ognuna di queste parti, poi, i temi specifici (ne indichiamo alcuni: l’astronomia, la materia e gli atomi, le leggi della computazione e l’analisi infinitesimale etc.) sono seguiti da pagine di “approfondimenti” che vanno dalla “polvere di stelle” ai “buchi neri”, a Lucrezio (il “manoscritto ritrovato”) e Lavoiser (“Il peso delle parole”) ai paradossi di Zenone, a George Cantor (“la vertigine dell’infinito”), ai numeri irrazionali, ai frattali.
In quest’ottica viene quasi spontaneo dire che ci sono tre “sguardi”; tre “visioni” analitiche che si incrociano e scandagliano su quanto di esteriore ed eterogeneo il sistema simbolico del linguaggio e delle forme della conoscenza e dell’azione umana significa e può significare. E sono gli sguardi che, intrecciando concetti, immagini, esperienza fenomenologica ed esperimenti di laboratorio (cose che l’ampia documentazione e riproduzione del libro riporta a proposito della formazione del giovane Leopardi, e lì dove i ragionamenti, gli argomenti e le prove convivono con i linguaggi e gli esiti della scienza moderna – teorica e sperimentale – sia essa quella astronomica, fisica, o chimica …), portano Giacomo Leopardi a usufruire di quanto messo in campo dalle ricerche pervenute e consultate o, per meglio dire, per esempio, quanto offerto dai rivolgimenti portati dai personaggi della filosofia e della scienza come Galilei, Newton, Lavoiser, etc.
A tener presente la terza parte del libro – “Leopardi e l’infinito” –, le prime due, pare, possano essere considerate come preparatorie della biforcazione che Leopardi e la scienza moderna (e tutt’oggi ancora questione non pacificata!) si trovano ad affrontare tutte le volte che i “paradossi”, per dirla in breve, si trovano davanti allo “sguardo” intellegibile dell’uomo che decide di indagare e che, se è il caso, di dover scegliere; cioè la problematicità complessa del soggetto conoscente che osserva il reale, individua le leggi che governano il mondo e sente di dover scegliere e decidere, per esempio, se il “mondo” è finito, infinito, indefinito e/o retto da leggi contingenti o necessarie e universali. La decisione riguarda sia il piano delle conoscenze teoretiche che quello delle pratiche etico-socio-antropologiche. Una scelta e una decisione che poi hanno anche la loro storia all’interno del quadro dei saperi filosofico-scientifici (fisica, chimica, biologia, matematica …) e umanistici (letteratura, poesia, arte…) della tradizione italiana e occidentale.
Di Giacomo Leopardi, Polizzi e Mussardo, tratteggiando una documentata biografia di pensiero e di esperienza, consentono di capire meglio quanto sia consapevole, nonostante ragionata e sofferta, la decisione di Leopardi di optare per l’“indefinito” o il “vago” come la sorgente propria alla poesia. La “mens mensura” del pensiero logico-matematico (teorico o sperimentale), infatti, non può cogliere tutto ciò che non è algoritmico, cioè il simbolizzato entro le cornici concettuali e le relative operazioni matematizzate che le chiudono (anche se via via, poi, i numeri sono diventati irrazionali, reali, immaginari, frattali, magici, quantistici). Il non algoritmico per Leopardi (come il paesaggio e le sue qualità che danno voce alla sua poesia “Infinito”) è il proprio del linguaggio poetico e il luogo in cui “è dolce naufragare”: il collasso in cui il piacere e il desiderio (altra “estensione” infinita o illimitata: non si finisce mai di aggiungere piacere a piacere) della felicità si incontrano entro i confini materiali del mondo stesso.
L’infinito di Leopardi non è certo quello “attuale” di G. Cantor (logica degli insiemi e della corrispondenza biunivoca), ma quello di Galileo Galilei (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo). Il Galileo che ha intravisto e rifiutato però la verità logica del paradosso che gli si parava davanti. Sconcertante e inaccettabile, il paradosso, lì dove un sottoinsieme – “la sequenza dei quadrati perfetti” – come ‘parte’ di un insieme (il tutto) – gli stessi “numeri interi” –, violando il principio di non contraddizione, gli si presentava con lo stesso numero di elementi dell’insieme come tutto (forse, fra gli assiomi di Euclide, non mancava di farsi sentire anche la censura della voce del “V”: “IL tutto è maggiore della parte”). Di fronte a questa verità, insieme incongruenza logica e verità paradossale, Galileo così deviò “sostenendo che le relazioni di ‘uguaglianza’, di ‘maggiore di’ o ‘minore di’ non sono applicabili agli insiemi infiniti, ma solo ai finiti” (p. 151). Cantor, da parte sua, dimostrerà invece che ci sono infiniti maggiori e minori, mentre Leopardi ha già declinato verso il “nulla” e preso la decisione (8 ottobre 1825) di rapportarsi all’infinito come a “un parto della nostra immaginazione”. Ed è qui, come si legge nel libro dei nostri due autori (Polizzi e Mussardo, p. 161) che si gioca la divaricazione definitiva del filosofo e poeta Leopardi “tra l’impossibilità fisica della concezione dell’infinito naturale e opportunità poetica della immaginazione dell’indefinito naturale”. Infatti, lasciando la parola direttamente (pp. 161-162) a Leopardi (Zib., 4177-4178), si legge che l’infinito è
Un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia […], un’idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell’esistenza di esso, neppure per analogia […] Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a essere lo stesso che il nulla. Pare soprattutto che l’individualità dell’esistenza importi naturalmente una qualsiasi circoscrizione, di modo che l’infinito non ammetta l’individualità e questi due termini siano contraddittori; quindi non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti.
Con la negazione dell’infinito “metafisico” crolla anche l’esistenza dell’idea della perfezione, di Dio creatore e dell’eternità: il poeta Leopardi, a partire dalla finitezza umana (Polizzi e Mussardo, pp. 165-166), rinforza la convinzione che l’infinito è inesistente, una prospettiva illusionistica (pensieri del 1827, Zib. 4274-4275 e 4292). Infatti, scrive il Recanatese, che l’infinità dell’universo
[…] è un’illusione ottica: almeno tale è il mio parere. […] io credo che l’analogia materialmente faccia molto verosimile che l’infinità dell’universo non sia che un’illusione naturale della fantasia. Quando io guardo il cielo, mi diceva uno, e penso che al di là di quei corpi ch’io veggo, ve ne sono altri ed altri, il mio pensiero non trova limiti, e la probabilità mi conduce a credere che sempre vi sieno altri corpi più in là, ed altri più al di là. Lo stesso, dico io, accade al fanciullo, o all’ignorante, che guarda intorno da un’altra torre o montagna, o che si trova in alto mare. Vede un orizzonte, ma sa che al di là v’è ancora terra e acqua […] Il fanciullo e il selvaggio giurerebbero, i primitivi avrebbero giurato, che la terra, che il mare non hanno confini; e si sarebbero ingannati: essi credevano ancora, e credono, che le stelle che noi veggiamo non si potessero contare, cioè fossero infinite di numero.
Così dall’illusione dell’infinito all’infelicità umana, il passo è breve; del resto la felicità non è neanche raggiungibile con il desiderio e il piacere, perché di volta in volta il piacere si aggiunge o si sottrae come le stesse quantità “infinitesimali” che sostanziavano l’infinito dell’estensione geometrica. Le due infelicità leopardiane, come dimensioni di due menti parallele e tuttavia comunicanti, si tramutano così nella poesia dell’idillio “L’infinito”; la poesia cioè del “sublime” estetico-antropologico e materialisticamente immanentizzato nella metafora del mare e del “dolce naufragar”, sebbene tagliato dal dolore.
Nella mente di Giacomo Leopardi, come ne “La mente nuova dell’imperatore” (per un lontano e forse azzardato richiamo all’opera di Roger Penrose, matematico, fisico e cosmologo), la complessità delle contingenze non sembra però supportare né sopportare la separazione netta dei rapporti tra interno ed esterno, o tra una visione consapevole e una visione cieca, specie lì dove le forme dell’infinito e dell’indefinito si processano come meta-morfosi e immagini in divenire; l’immaginazione matematica e quella poetica in fondo danno vita ai loro “oggetti” per comune astrazione e “artificio”, seppure differenziato sia il sistema simbolico-formale e il contesto storico-temporale che relaziona circostanze, caso (imprevedibilità) e necessità deterministica (prevedibilità).
Ma qui, concludendo, preme chiamare in causa anche il nome di Jacques Monod, la “nuova alleanza” tra uomini e natura. I nostri due autori (p. 52), infatti, ricordando una possibile corrispondenza fra il nichilismo leopardiano e quello di J. Monod (biologo, filosofo francese e premio Nobel per la medicina nel 1955) ne suggeriscono un possibile parallelo sul piano della comune consapevolezza dei limiti della scienza. C’è infatti una fallibilità della scienza, ovvero il “fatto che vi sono forse domande mal poste o che forse non avranno mai risposta. […] Perché esiste l’universo? Perché noi siamo qui? Siamo il frutto del puro caso, il risultato piuttosto sorprendente – occorre dire – di una fluttuazione quantistica? È forse in questo passaggio dal ‘come’ al ‘perché’ la chiave per capire il successivo pessimismo cosmico di Leopardi?”
Ora, a fronte di questi interrogativi, una domanda fluttuante e senza requie insistente, un’insonne pulsazione: quanti (soprattutto fra le nuove generazioni, studenti e non) possono continuare a credere, come martella tanta pubblicità imprenditoriale contemporanea, che sia possibile ridurre la “mente dell’imperatore” agli algoritmi di un pc super veloce e quantistico, e affidargli il senso delle cose e della vita e non riflettere su quanto L’infinita scienza di Leopardi ci dice sulla “singolarità” e la “plasticità” simbolica del rapporto uomo-mondo-uomo?
Antonino Contiliano