L’interessante ricerca dal titolo “Trasposizioni” del prof. Antonio Leotta offre spunto per varie riflessioni e constatazioni. Riporto, da questa, poche righe per poter introdurre l’argomento al lettore, seppur io inviti lo stesso a leggere per intero la ricerca alla quale faccio riferimento: “Le sovrapposizioni riguardano l’accostamento “sincronico” di più forme espressive, come, nella canzone, quello di un testo poetico ad un brano musicale, dove la musicalità di quest’ultimo prevarica spesso su quella del testo poetico. Sia la musica che la poesia trovano nel tempo una dimensione comune alle loro espressioni e, pertanto, un accostamento sincronico tra un testo poetico e un brano musicale lascia sempre aperto il rischio di prevaricazioni di una forma espressiva sull’altra”.
Concordo con quanto sostenuto dal Prof. Antonio Leotta, ma sottolineo il “prevarica spesso”, poiché saltuariamente ciò non accade, ed è proprio ciò che dà vita a questa mia riflessione esperienziale. Ritengo che qualsiasi testo abbia una propria musicalità, intrinseca delle parole stesse che lo compongono: poiché una singola parola ha una musicalità propria, una frase avrà una sua musicalità data dalla musicalità delle singole parole. La musicalità della frase non è però solo sommatoria di quella consequenziale delle parole, bensì è determinata anche dal ritmo che le parole impongono al testo. Ritengo che, se saputa ascoltare, la musicalità di una parola, e maggiormente quella di una sequenza di parole, di un testo, possa determinare la musica che verrà scritta per esaltarne la musicalità intrinseca evitando prevaricazioni su di essa, in qualunque contesto letterario ci si trovi. Si avrà ciò che il Prof. Antonio Leotta chiama “convergenza”.
Mi è capitato, in passato, di musicare alcune poesie dalla mia prima silloge “Afotismi” (Ed.Prova d’Autore, 2009) insieme al M° Marco Cosentino. Durante il lavoro di composizione, cercammo di ascoltare e poi esaltare la musicalità di ciascuna poesia, con la stesura di musiche che non prevaricassero sulle liriche, ma che al contrario si accostassero armonicamente e sincronicamente in una sorta di “unisono” con la musicalità delle parole e dei versi. Per alcune poesie lavorammo, invece, su accostamenti diacronici interni alla singola lirica: con l’alternarsi di versi e musica, riuscimmo a ottenere l’esaltazione della musicalità dei versi ed in particolare delle parole all’inizio e alla fine degli stessi, proprio perché gli intervalli musicali erano stati composti per predisporre il fruitore ad un’immersione nella dimensione musicale dei versi. Ne venne fuori un recital interessante che proponemmo ad appendice di varie presentazioni del libro in questione dal 2009 al 2010 (Riposto, Giarre, Zafferana Etnea e Catania).
Per quanto riguarda il testo in una canzone, la mia analisi rimane inalterata. Si può creare volontariamente “sovrapposizione”, come nel caso di una canzone noise rock, cito ad es. “Lavorare stanca” de “Il Teatro Degli Orrori” o “convergenza”, come nel caso della mia canzone “L’uomo nero”. La prima è caratterizzata da dissonanze, distorsioni e atonalità: il testo viene parlato e urlato e la “sovrapposizione” è voluta per rendere il testo più forte e aspro poiché la voce deve prevaricare sulla musica per non subire prevaricazione. Nella seconda, musica e parole si fondono perfettamente e il pianoforte accompagna il cantato esaltandone la dolcezza. A sostegno di quanto riportato in precedenza, circa la possibilità di musicare un testo esaltandone la musicalità intrinseca, aggiungo un altro elemento, ovvero che, se saputa ascoltare, la musicalità di una parola emette già un suono caratteristico che può essere accompagnato solo da alcune note musicali ben precise, in una sequenza quasi obbligatoria per il compositore, ammesso che questo voglia evitare “sovrapposizioni”. In parole più semplici: ogni parola è già cantabile di per sé e se inserita in un testo, magari mai musicato, porterà con molta probabilità la maggior parte di cantautori e/o compositori, a scrivere melodie simili tra di loro.
Parecchi anni fa, scrissi una canzone, ad oggi ancora inedita e, dopo qualche anno, non ritenendo più di mio gradimento la melodia, chiesi ad un collega cantautore di musicare nuovamente il testo. La cosa che mi lasciò sorpreso fu che, nonostante il collega non avesse mai ascoltato la mia canzone, la versione della canzone da lui proposta risultò molto simile a quella che avevo scritto. Questa esperienza rafforzò la mia convinzione che a un determinato testo, la melodia ascrivibile sia quasi costretta.
Potrei citare altri esempi, oltre a quelli riportati, ma l’intento di questo scritto, che non voglio rendere prolisso e che non considero una ricerca come del resto neanche un’analisi per rispetto nei confronti di quella vera del Prof. Antonio Leotta, è quello di rendere pubblico il mio punto di vista, quello di cantautore, senza pretese scientifiche del caso, ma solo portando alla luce riscontrate situazioni esperienziali.