Rivolgo un saluto alla psicologa e la ringrazio in anticipo se potrà rispondermi. Non mi presento neppure. La mia domanda è: Perché c’è chi dice “Io non sono razzista, ma…?”. Quale psicologia è sottesa? (Carlo)
Un saluto a te, Carlo! Il tema che poni merita un trattato, ma qui farò qualche accenno.
Esiste un razzismo (oggi si parla sempre di più di suprematismo bianco) che è palese, su cui siamo tutti d’accordo. Persino quella parte di militanti di destra che vogliono vivere pacificamente condannano, più o meno apertamente, certi comportamenti. Una parte.
Esiste poi un suprematismo subdolo, raffinato, sottile. Lo chiamiamo “razzismo latente” e colpisce anche i più insospettabili, anche la brava gente che si trova a simpatizzare per un immigrato ma a condizione che stia un passo indietro. Quando un immigrato di seconda/terza generazione comincia a chiedere gli stessi diritti degli italiani, a commettere anche gli stessi errori degli italiani, allora è arrogante e ingrato.
È inconscio perché contrasterebbe con l’immagine che abbiamo di noi stessi, funzionale alla gratificazione di un narcisismo adattivo. Ogni volta che si crea una dissonanza cognitiva rispetto a qualcosa, apportiamo modifiche e integrazioni al mosaico con cui ci rappresentiamo la realtà, per non doverci mettere in discussione. È difficile che l’occhio guardi se stesso.
Quello che possiamo fare è conoscere la Storia, a partire dal dato secondo cui l’Italiano è un’invenzione. Naturalmente ad oggi c’è una buona parte di Storia e di costume che ci accomuna e che ci legittima a dire “Siamo Italiani”, ma, prima che le nostre strade si incrociassero, eravamo ciascuno il risultato di secoli di crogiuoli, commistioni, sincretismi. L’italiano autoctono non è mai esistito. Lascio agli storici il revival delle varie tappe del cammino, che tuttora procede.
Qui posso dire che spesso si tende a confondere il concetto di integrazione con quello di assimilazione, nel senso che si spaccia il secondo per il primo.
- L’assimilazione è una sorta di assorbimento, per cui i componenti della comunità ospitante chiedono che gli immigrati abbandonino la propria identità culturale per adottare la cultura dominante, conditio sine qua non considerarli parte della comunità. (Naturalmente questo è legittimo per quanto riguarda il rispetto della giurisdizione).
- L’integrazione si ha quando la comunità ospitante accetta e valuta positivamente il fatto che gli immigrati mantengano alcuni aspetti della cultura di origine e al contempo adottino caratteristiche importanti della cultura della maggioranza. Si può parlare in questo caso di biculturalismo stabile, che può trasformarsi in pluralismo.
(Tu mi dirai: ma in una società globalizzata, di che stiamo parlando?)
Esistono poi altri atteggiamenti:
- il segregazionismo, secondo cui la maggioranza accetta che la minoranza mantenga la propria cultura a patto che rispetti le distanze, per evitare che questo possa contaminare la cultura ospitante;
- l’esclusione, secondo cui la maggioranza nega alla minoranza sia il diritto di mantenere la propria lingua/cultura/religione che quello di adottare caratteristiche della cultura ospitante; gli esclusionisti si oppongono all’immigrazione come fenomeno sociale;
- l’individualismo, secondo cui i componenti della comunità ospitante preferiscono percepire se stessi e gli altri come individui piuttosto che come membri di un gruppo e considerare le caratteristiche personali al di là dell’appartenenza etnica.
Naturalmente ciascuno di questi modelli è opinabile. Persino il concetto di integrazione oggi è in corso di ridefinizione.
In Italia, a che punto siamo?
Giulia Letizia Sottile, psicologa
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