Parigino, nato nel 1905, Jean-Paul Sartre – un controverso ma certo tra i più rappresentativi, dinamici, ubiqui e liberi intellettuali del Novecento, colui che, da oppositore, da eterno outsider, dà la sveglia all’Europa della svagata Belle Époque e delle due Grandi Guerre, e più d’ogni altro, per tutta la sua vita, si batte senza risparmio contro la rassegnazione conformistica e lo status quo governato dal liberalismo capitalista – muore nel 1980. Ciò che subito segue, anche nell’ambito di talune caste culturali italiane, è un’astiosa, penosa rincorsa al ridimensionamento e alla demonizzazione dell’intellettuale e dell’uomo: del ‘cattivo maestro’ colpevolmente vicino (invero non senza distinguo anche ‘contro se stesso’: non senza incontri-scontri, ripensamenti e leali ammissioni di errori) a un marxismo da riformare, all’alternativa anticapitalistica, all’antimperialismo, anticolonialismo e antirazzismo; all’Algeria, Armenia, Ungheria; al Vietnam, ai fatti di Praga e alla dissidenza nei paesi dell’Est; alle rivolte dei popoli contro la tirannia, lo sfruttamento del lavoro e la tortura legalizzata; alla contestazione giovanile e ai movimenti sessantotteschi nati dalla crisi della morale cattolica e dell’ipocrisia perbenista.
Confessa Sartre in quell’assoluto capolavoro rappresentato da un’opera piena d’ironia autocritica come Le parole (scritta nel 1954 e pubblicata dieci anni dopo): “Sono stato indotto sistematicamente a pensare contro me stesso, al punto di misurare l’evidenza di un’idea col dispiacere che mi causava”.
Chi se non un uomo affrancato d’ogni vanità, un critico ‘globale’ dell’esistente, uno che recide le proprie radici borghesi (la famiglia religiosa, il padre/Super-Io) potrebbe affermare altrettanto? “Questo padre” racconta in Le parole “non era nemmeno un’ombra, nemmeno uno sguardo: per un certo tempo, lui e io, abbiamo calpestato la stessa terra, tutto qua […]. Viene da lì, senza dubbio, la mia incredibile leggerezza”: ossia la sua ‘giovinezza’ perenne, appassionata, ricca di generosa tensione e ben poco capita dagli esegeti superciliosi…
Che senso liberatorio e di ‘era ora’ presso taluni italici maestrini del pensiero, stufi d’essere disturbati dal molesto maître à penser e soprattutto vogliosi di stabilizzarsi nei cadreghini d’ogni potere senza essere infastiditi dal teppista d’Oltralpe. Quale desiderio d’ordine e di comodità; e quanta voglia (echeggiando i trinariciuti comunisti-stalinisti francesi che, nel 1949, dopo la rappresentazione del dramma Mani sporche, 1948, insultano l’autore chiamandolo “iena immonda”) di rientrare nei ranghi, snobbando e spazzando via le velleità controcorrente e pseudorivoluzionarie d’un semplice ex-insegnante di liceo: un irregolare senza feluca e mai assurto alle benemerenze dell’insegnamento universitario, un Voltaire in sedicesimo, un letterato anomalo e un asistematico artistoide della filosofia che mescida Husserl, Heidegger, Marx, Freud (ma Sartre è tra i pochi pensatori novecenteschi a trasvalutare la teoria freudiana dell’inconscio) e osa scrivere L’Essere e il Nulla (1943). E che, per giunta – s’era mai visto gesto più inaudito, caparbio e infantile? -, nel 1964 rifiuta il Nobel… (ma sapranno mai cosa sia la regalità disinteressata, i ciurmatori di premi e prebende?).
“Non gli bastava essere un tecnico della parola, un professore di liceo divenuto scrittore” lo stigmatizza il sociologo Ferrarotti (“Il Messaggero”, 16 aprile 1980), apparentandolo all’Idiot flaubertiano e irridendone il trasandato “giubbotto di pelle”.
L’esistenzialismo sartriano? Una “retorica […], una di quelle efficaci miscele ideologico-sentimentali che scuotono periodicamente la superficie della cultura europea” continua, sempre sul “Messaggero” (17 aprile 1980), un sufficiente Ruggero Guarini: che scambia la sensibilità morale di Sartre col più vieto sentimentalismo.
Ma non sarebbe proprio un sentimentale colui che, in un’intervista del 1975, ora nel X volume delle Situations, afferma: “Non ammiro nessuno e non desidero che nessuno mi ammiri. Gli uomini non bisogna ammirarli: sono tutti simili, tutti uguali. Quel che fanno, è ciò che solo importa”. Perché in ogni uomo è riassunta per intero la generale condizione umana e perché c’è “reciprocità di prospettive fra una vita singola e la storia umana” (Critica della ragione dialettica, 1960).
A differenza di Heidegger che s’interessa dell’oggettività dell’Essere non necessariamente legato al soggetto, Sartre s’occupa della soggettività dell’uomo sociale la cui esistenza, posta in dialettica coi problemi della verità e dell’errore, determina l’essenza.
Quanto alla coscienza individuale, questa non è una supina condizione psicologica ma una forma attiva d’esistenza: franca, intenzionale, “in situazione”; per la quale il soggetto in disaccordo con lo stato di cose “deve crearsi attraverso la propria vita e i propri atti, giacché nell’uomo e solo nell’uomo l’esistenza precede l’essenza” (L’Essere e il Nulla).
Ai lavori di demolizione non mancano un garrulo Arbasino (“la Repubblica”, 26 aprile 1980), che coglierebbe in imperdonabile contraddizione Sartre imputandogli di condannare l’omosessualità senza però prender moglie (!), o un Aldo Tortorella che eccepisce sui “comportamenti esistenzialistici un tantino provinciali” (“l’Unità”, 20 aprile 1980) e compiange l’autore di L’Esistenzialismo è un umanismo (1946) compromessosi con le orde dei contestatori, “ridotto a correre dietro a un po’ di ragazzi scriteriati”.
E c’è Lucio Colletti, che giunge a identificare sartrismo e “opportunismo” (“l’Espresso”, 27 aprile 1980). Lui trova inconcepibile che l’antiaccademico Sartre, data la sua grande facilità di scrittura, possa volubilmente lavorare al tavolino d’un bistrot e non in un’austera biblioteca universitaria; allora lo chiama “filosofo da snack-bar”, ambizioso “manipolatore” d’un gramo sapere, gravato dal torto di “voler pensare all’unisono col proprio tempo ed anche con le sue mode” scegliendo sempre “la parte sbagliata”. Assurdo Colletti, che, forse lui sì per opportunismo, da schieramenti sinistrorsi giunge a riciclarsi bellamente quale ‘consigliori’ della neodestra italica: ben presto emarginato e frustrato; e, lui sì, alfine perso in un “caos destrutturato e informe”.
A cotanti testimoni, nel 2005, centenario della nascita di Sartre, fanno seguito, fra gli altri – con ex-terroristi cialtroni che, già usati dai servizi segreti di potenze straniere interessate alla destabilizzazione dei governi, vorrebbero edulcorare le proprie responsabilità dicendosi discepoli d’un Sartre mentore del terrorismo -, il lepido romanziere Giorgio Montefoschi (che, sul “Corriere della sera”, 10 marzo 2005, stigmatizza indirettamente il bieco precursore degli “anni di piombo” e lo associa al presumibile ‘ladro di premi Nobel’ e lettore del “libretto di Mao” Dario Fo: rinfacciandogli i “rivoluzionari puri e duri, i giacobini che scendevano dalle Alfette del papà o tiravano sassi ai poliziotti poveri del Sud”) o un ineffabile Sergio Luzzatto che, sempre sul “Corriere” (13 marzo 2005), con fatica degna di miglior causa s’ingegna di bollare Sartre come “pensatore fondamentalmente antidemocratico”…
Di fronte a tanta superficialità e seriale insipienza, resta solo scontato constatare, con Sartre, che “l’inferno sono gli altri”.
“L’uomo è una passione inutile” pone, a mo’ di tesi ‘contro se stesso’, questo filosofo delle emozioni (Idee per una teoria fenomenologia delle emozioni, 1939), dell’immaginazione (L’Immaginazione, 1936) e dell’immaginario produttivo (L’Immaginario, 1940); intanto che, come risulta in ogni suo scritto e intervento, dimostra l’opposto.
Quella sartriana vorrebbe apparire la contraddizione d’un intellettuale che coniuga l’esistenzialismo – una teoria della consapevolezza estrema, talora prossima al nichilismo (alla nausea) che coglie il ‘filosofo morale’ disgustato dalla viltà del proprio tempo e dalle ingiustizie perpetrate dai potenti – con un umanismo d’ascendenza kantiana incentrato sul tema dell’uomo come fine. Una contraddizione solo provocatoria se si tiene conto che, preso atto dell’inutilità d’ogni malriposto entusiasmo, si tratta di volere per ogni uomo una vita degna d’essere vissuta, di lottare per delle cause, non consegnarsi allo sconforto, volgere in critico desiderio la mestizia che pervade il Roquentin del romanzo La nausea (1938).
Allora, cosa diventa l’opprimente ‘nausea’ (magari, in principio, è la nausea: che non è la peste di Camus, ma viene ‘prima’ e pervade gli intimi precordi) se non una densa ‘conoscenza’, un oscuro eccesso da decrittare, una ‘ricchezza’ sia pure negativa da valorizzare rovesciandola, un paralizzante ‘troppo’ da sciogliere in pragmatica sintesi o ‘filosofia pratica’?
Così, quella di Antoine Roquentin, déraciné trentacinquenne diviso dalla moglie Anny e ritiratosi nella cittadina di Bouville per scrivere una biografia dell’ignoto marchese libertino settecentesco M. de Rollebon, è una ‘nausea’ che vorrebbe sottrarsi al sentore mortuario gravante sulle cose svuotate di senso. “La Nausea” scrive infatti Sartre “non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, sono io che sono in essa”.
Nausea è anche il percepire l’altrui sguardo, sotto il quale io non mi trovo libero ma mi sento una cosa.
Non riesco a svincolarmi da quegli occhi che mi gravano addosso ostacolando la mia autodeterminazione.
Tutto congiura contro la mia libertà, pure il mio passato e l’amore che vorrebbe collocarmi nei suoi effimeri schemi…
Non c’è niente che non riguardi la mia emancipazione: eccetto la morte che non appartiene alla mia libera scelta e diviene la massima negazione della libertà.
Dopotutto, non io sono nauseato; bensì è la nausea ad assediarmi. Una nausea che intride le cose e m’insidia, marca pesantemente l’intera esistenza, non si fa circoscrivere e avvolge la verità del reale nel suo vischio dolciastro tentando di tramutarmi in oggetto tra oggetti indifferenziati e inidentificabili, privati d’ogni possibile trascendenza.
E tuttavia è ancora la stucchevole nausea che mi pone di fronte all’Essere facendomi avvedere che esisto: “Esisto. È dolce, dolcissimo”.
L’estraneità metamorfosa in coscienza, in un ‘essere nel mondo’, in un sentimento perfino positivo che smentisce l’ipotesi della nausea-alienazione-depressione-disperazione… Del resto, Sartre lo ripete sempre: lui non s’è mai preso il lusso d’essere depresso, angosciato, malinconico, disperato.
Considerato, a torto, filosofo della disperazione (senza, peraltro, il conforto fideistico dell’esistenzialista credente Kierkegaard), andando, attraverso la nausea, ‘oltre la nausea’, Sartre insegue innanzitutto il difficile ideale di trascendere le endemiche nefandezze della Storia e del suo non-senso (“Non bisogna riflettere troppo sul valore della Storia”): alludendo a una testamentaria volontà di cambiamento da attuare nell’azione, nell’impegno politico e culturale, nell’emanciparsi dalle paure (“Non bisogna aver paura”…), nella ricerca d’una libertà da tutto che sia ‘libertà per tutti’.
A chi domanda cosa resta oggi di Sartre, si può rispondere con les mots quasi umili dello stesso: con le parole che non sono la vita reale, ma ne esprimono la condizione insegnando “la pazienza di vivere”. Di me – afferma Sartre – rimane “tutto un uomo, fatto di tutti gli uomini: li vale tutti, tutti lo valgono”.