Al momento stai visualizzando Elogio dell’assenza
© S. Dalì, Mercato di schiavi con busto invisibile di Voltaire

In principio fu un mammifero viola, per la precisione una mucca, la mucca viola citata più volte nel libro dell’esperto internazionale di marketing Seth Godin: La mucca viola. Farsi notare (e fare fortuna) in un mondo tutto marrone, recitano titolo e sottotitolo. Così, in un volo pindarico, mi ritrovo a pensare alle liriche trobadoriche e all’amore cortese, con un collegamento che potrebbe risultare ostico ma che in realtà è tangibile più che mai. Tutto ruota attorno al tema dell’assenza. L’assenza di qualcosa o qualcuno.

Ciò che Seth Godin teorizza nel suo testo è il “marketing dello straordinario”, la Purple Cow appunto, ciò che non ti aspetti e che ti lascia sbigottito. Si parte dall’assunto che tutto ciò che esiste al mondo (creazione di Dio, ma anche degli uomini) per quanto possa essere bello e perfetto, prima o poi, diverrà banale ai nostri occhi e non riuscirà più a catturare la nostra fuggevole attenzione. Creazioni e creature perfette eppure ordinarie. Ciò che Godin (facendo eco, e allineandosi, a decenni di “cultura” del marketing) sottolinea, è la necessità della straordinarietà. In un allargamento dei confini speculativi, potremmo applicare questa stessa nozione alla nostra intera vita, definendo il concetto di Purple Cow una sorta di marketing dell’imposizione volontaria, dove dei falsi desideri, abilmente costruiti in base alle richieste implicite ed inconsapevoli degli stessi fruitori,  divengono delle necessità reali e realizzabili attraverso la semplice “strisciata” di una carta di credito (anche se sarebbe più giusto chiamarla “carta di debito posticipato”). Essenzialmente potremmo affermare che l’uomo moderno non è più in grado di gustarsi l’assenza. L’assenza di qualcosa, ma anche di qualcuno. Continuamente interconnessi, riusciamo ancora a crogiolarci nelle palpitanti sospensioni della “mancanza”? Eppure non vi è modo di possedere qualcosa più compiutamente, se non nella carenza della sua presenza. “Possedere è perdere. Sentire senza possedere è conservare, poiché significa estrarre da una cosa la sua essenza” (F. Pessoa). L’assenza è il vero possesso? Così pare. Nell’assenza si appartiene esclusivamente a chi percepisce la privazione; l’assenza infatti è solo nostra e non dell’assente, al quale rimane la presenza e l’essenza del suo essere se stesso. In un gioco di riempimenti progressivi, il vuoto si impregna del ricordo e, traboccante, diventa saturo di vita. L’assenza dunque è pienezza. Pienezza vitale che oggi si tenta in ogni modo di colmare con oggetti materiali che esaltano una soffocante cultura del riempimento. E qui torniamo alla fin’amor (cioè “amore perfetto”) o “amore cortese”, secondo la definizione coniata dall’illustre filologo Gaston Paris. I componimenti dei trovatori sono tra i luoghi letterari in cui, come non mai prima d’allora (e probabilmente anche dopo), l’aerea levità dell’assenza si erge a nucleo centrale della prassi lirica. L’assenza e l’imperscrutabilità della domina costituiscono il nucleo centrale del rapporto amoroso, che diventa motivo di innalzamento sociale, sia per l’amata che per l’amante. Pur nella incontestabile distanza di una tale concezione amorosa dalla società moderna, possiamo sicuramente riconoscere come, a partire dalle origini della letteratura, il tema dell’assenza dell’oggetto amato, abbia prodotto tra i frutti più succulenti della letteratura romanza (e ancor prima greca e latina). Tralasciando le liriche di leopardiana e pascoliana memoria (non per superficialità, ma per riconosciuta e incontestabile supremazia, sia dei componimenti, sia delle pagine critiche a loro dedicate), un esempio cronologicamente più vicino a noi è dato dalla lirica di Gozzano, intitolata (guarda caso) L’assenza. Nella stesura manoscritta, risalente al Luglio 1907, è presente una strofa che nella prima edizione a stampa (apparsa su un numero della rivista Riviera Ligure, Anno 1910) verrà epurata, rendendo di più ostica comprensione l’oggetto dell’assenza a cui fa riferimento Gozzano. “Che dice alla mamma che va / per una giornata in città, / che dice colui che rimane? / Le cose più semplici e strane: / << … la maglia … le scarpe di corda… […] >> / Ma il vetturale ci mozza / le voci. È tardi. C’è fretta. / Mia Madre balza in carrozza / più svelta d’una giovinetta”. La strofa, che si può leggere solo nell’edizione manoscritta ed è pertanto assente anche nella prima edizione in volume (Colloqui, 1911), ci permette di comprendere (ricostruendo a ritroso un’epurazione, o meglio, rimozione, che avviene, in Gozzano, in primo luogo a livello inconscio), chi sia l’amata assente. In un susseguirsi di incastri, dovuti alla frammentazione sintattica (caratteristica della lirica gozzaniana) e al senso di sospensione che pervade il testo, il lettore viene attraversato da un lancinante sentimento di incertezza e al contempo di compensazione, attraverso l’enumerazione e l’attenzione agli oggetti di uso quotidiano, i quali, se da un lato rendono ancora più vivo il ricordo dell’assente, dall’altro cullano il poeta, e con lui il lettore, con una sensazione di rassicurante convincimento del ritorno certo dell’oggetto mancante: “E non sono triste. Non sono / più triste. Ritorna stasera”.

Nell’assenza il ricordo si fortifica, annullando un’aplasia conoscitiva interamente basata sulla pesante fragilità della presenza che, ingabbiandoci, ci tiene schiacciati al suolo con il peso dell’immagine di noi stessi che si riflette negli sguardi altrui. L’assenza di qualcuno, e di qualcosa, in verità ci rende liberi. Liberi di riscoprirci, svincolati da fardelli reali e metaforici (ma non per questo meno castranti). Ritornando con la mente alla Purple Cow, sembra lecito a questo punto chiedersi quale sia il motivo alla base della necessità di contornarsi di innumerevoli e inutili soffocanti posticci, che ci allontanano dall’unicità reale e non fittizia del nostro viso (anche interiore) e ci portano ad acquisire delle maschere destinate a creparsi e a crollare. I falsi emergono e guardando in controluce i nostri apparenti vuoti, che è inutile riempire con pieni aleatori che conducono all’incensazione di desertici apogei fittizi, possiamo riscoprire la filigrana dell’autenticità e dell’unicità.

© S. Dalì, Mercato di schiavi con busto invisibile di Voltaire

Francesca Taibbi

Nasce a Giarre nel 1981. Dopo alcuni anni peregrini nel nord Italia, ritorna a Giarre dove consegue la maturità all'Istituto Tecnico Commerciale. Si laurea in lettere all'Università di Catania discutendo una tesi su "Per l'edizione critica di Storia di una Capinera". Attualmente insegna presso un Istituto Parificato.