Rubrica di curiosità leggendarie-mitiche rivisitate e commentate da Attilia Sole
La collana
tra estetica e simbolo
Il perché la collana abbia avuto così tanto successo come oggetto accessorio, tanto tra le donne quanto tra gli uomini, non ditemi sia da addebitare alla sua bellezza. Certamente indubbia, anche se giunta quale conseguenza della creatività umana e della propensione che abbiamo verso il piacere sia pure degli occhi (l’estetica). La bellezza è però forse solo il secondo movente che spinge, soprattutto noi donne, a indossare collane sino a renderle componente irrinunciabile nel quotidiano abbigliarsi.
La ragione profonda che sin dalla preistoria ci ha portato ad attribuire importanza a un oggetto originariamente rudimentale è da ricercarsi nella funzione, che ancor oggi non s’è snaturata e che ci conferma lo stesso etimo della parola simbolo. Nell’antica Grecia il συμβoλoν (symbolon) – da συμβαλλω (symballo), che si compone di συν (syn), “insieme”, e βαλλω (ballo), “gettare” – rimanda al mettere insieme due parti distinte e si riferiva originariamente a ciascuna delle due metà di un oggetto, come una moneta, un anello o una tavoletta di terracotta, che veniva spezzata e divisa con l’amico o l’ospite. Le due parti venivano conservate anche per generazioni e consentivano, attraverso il perfetto combaciare degli estremi, il riconoscimento del sodalizio o del patto, ratificato materialmente, anche a distanza di molti anni. Erano dette infatti tessere di riconoscimento. Da allora il significato di simbolo si è esteso ai più diversi aspetti della vita di relazione, talvolta sovrapponendosi al concetto di segno. Lo statuto della collana non si discosta dal simbolico, nel suo rimandare ad altro che non possiamo vedere né toccare, e mira all’attualizzazione di quel qualcosa, alla riunificazione in un solo uno con ciò che rappresenta.
Partiamo dai ciondoli e dal fatto che sin dall’antichità il ciondolo, con la sua particolare fattura o ciò che raffigurava, veicolava l’appartenenza a una data categoria, il clan, la famiglia, il ruolo all’interno della comunità, e dunque i sistemi normativi e di valori vigenti in essa. Il riconoscimento, in quest’ottica, è operato da parte della collettività e dunque è ad essa che si rivolge questa particolare forma di comunicazione non verbale. In seconda battuta tuttavia – e forse oggi sarebbe più corretto dire parallelamente – il destinatario del comunicato è lo stesso portatore del simbolo, che afferma a se stesso un’appartenenza e un’identificazione che lo guidino nel comportamento (e scrivendo di quest’ultimo aspetto vengono in mente gli studi estesi ad altri simboli come quello, famosissimo e altrettanto discusso, di Zimbardo sulle divise).
Nel suo rimandare ad altro – e il comportarne la materializzazione – la collana era anche talismano, nel chiamare a sé uno spirito che proteggesse dai mali. Oggi sappiamo che, lì dove si va oltre il placebo, intervengono le proprietà dei materiali con cui è realizzato il manufatto, ad agire su una disposizione. E poi abbiamo gli affetti, dove la collana è oggetto di dono da parte di una persona cara o quando rimanda ad essa (la metà di un ciondolo, un anello, una foto), diventando ponte relazionale, prova tangibile di un legame e della sua continuità. È così anche ponte tra l’interiorità del soggetto che la indossa e il mondo esterno, uno spazio di transizione, d’incontro. Mantenendoci sul femminile, poi – e ricorrendo alla psicanalisi – sembrerebbe che i bijou, e dunque anche la collana, abbiano la specifica funzione di circoscrivere, ed evidenziare, i “bordi”, quelle parti del corpo periferiche rispetto agli organi interni e tuttavia manifestazione superficiale delle principali funzioni biologiche, le estremità, come le dita, i polsi, le orecchie, il naso, le labbra, il collo, le caviglie, parti da sempre destinate a ospitare ornamenti d’ogni genere. Nell’ottica di un’invidia del fallo, la donna – che non può basare il proprio essere donna su qualcosa di prestabilito e biologicamente dato ed evidente – trova il proprio individuale modo di perseguire la femminilità segnando sul proprio corpo i confini identitari (d’un’identità, nell’assenza, tutta da creare) ed esibendo i segni distintivi del “casato” (a colmare il vuoto fallico, nell’ottica, pur discutibile, lacaniana).
Poi, uscendo dal filone analitico, fermandosi sul contrassegnare parti del corpo vitali, ci si accorge anche che l’area interessata è quella del collo e del petto, l’anticamera dello scambio di ossigeno con l’esterno, luogo di raccordo tra apparato respiratorio e sistema cardiovascolare e, dunque, luogo della vita e dei suoi tempi.
Un aneddoto interessante collegato alla simbologia della collana, e rievocativo dell’importante compito svolto da ciò che la supporta, è il mito del Giudice Morann, che capiva se i suoi verdetti fossero giusti o sbagliati se la collana si allungava o si accorciava. Un giudizio errato, dunque, era profumatamente pagato in termini di benessere fisico se non con la vita stessa – salvo ricorrere a un certo margine di riparazione agli errori commessi. Che tutto ciò che sia frutto delle nostre scelte si ripercuota su di noi, nel bene e nel male? La collana allora qui suggerisce una chiave di lettura inedita, il contraltare di ciò che siamo e facciamo, di ciò che avviene al di qua del petto e investe la materia che indossiamo, proiettandolo fuori in modo da poterlo contattare. Feedback, automonitoraggio alle volte della coerenza di sé con sé e con quanto in sé si ricollega all’Altro.