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Bruno Caruso, Schizofrenic jazz band, disegno colorato

Un mondo capovolto nel bisogno, tra richieste di assistenza e badanti improvvisate, dove la grazia arriva attraverso fanatismi terrestri ed extraterrestri, con apparizioni frenetiche ed insensate.

Bruno Caruso, Schizofrenic jazz band, disegno colorato

Si sapissivu….comu dda so‘ casa addivintau: spassu ‘i zingari e curtigghiu ‘i cuncuprini d’autri paisi. Allurtimata u cuntu s’u facìa cchi pulacchi cchi rumeni e cchi cristiani cu l’ostia n-mucca o cu chiddi scuncirtati. Ma chi curpa nn’avìa s‘u so ciriveddu passiava nna luna e addimurava a turnari? Pi nasciri nascemu… ma quannu ni nni fuemu nuddu u sapi. Nca sta nostra nnacalora arriva puru ô puntu ca ‘un n’annaca  chiù!

Il cardellino, alle tre in punto del pomeriggio, cadde stecchito dal dondolo della sua gabbietta. Apparentemente senza motivo, perchè poco prima aveva beccato nella scodellina dei semi e aveva anche bevuto dal beverino. Sembrava fosse stato improvvisamente imbalsamato senza un gesto di scortesia, ma con un estremo sentimento di dedizione che risolveva in naturalezza la rigidità delle sue penne. La badante il giorno dopo aprì la gabbia e lo buttò nella pattumiera. Regina neanche se ne accorse di quel funerale sbrigativo, volendo forse rimuovere un’assenza che l’aveva indisposta fin dal mattino. A fine giornata però strinse le mani a pugno, fino a sentirle di legno, irrigidite in una rabbia che coinvolgeva il cervello, restituita infine centuplicata alla periferia.

– Sono state le astronavi. Cinquanta ne sono sbarcate!

Cercai di accontentarla stando zitta, frugando tra le rughe di lei la coscienza nell’incoscienza, quel sorriso morbido che risolveva la paura nella rassegnazione. Dalla cucina continuai a seguirla mentre inseguiva a voce alta altre spiegazioni.

– Avevano bisogno di acqua e di cibo.

E non si riferiva certo a quell’uccellino, che ora riposava tra gli scarti della cipolla o dell’ultima minestrina, tralasciata per via del rigurgito. In una rinnovata preoccupazione strinse di nuovo i pugni, per bloccare una disperazione troppo rigida per non spezzarsi, inutilmente restituendo ai suoi occhi una smemoratezza desiderosa di conclusioni.

– Chiudete le finestre – esclamò infine – Bloccate tutte le porte. E spegnete la luce!

 

I miei amori sono molti. Me gusta beber, lottar, bailar. Mi pellicula il gladiatore nel buco della valle incantata. Indiana Jones todos. Quando parto non ritorno mai sui miei passi, chiudo la porta e chi s’è visto s’è visto! Così cominciava il diario di Lory o Dolores, come avevo letto in qualche suo documento. E dato che se lo confessava chiaro e tondo, quando non l’avevo più vista, avevo accettato la sua partenza come un destino ineluttabile. Quell’incipit di  educazione sentimentale, da un diario che portava stampigliati principi e principesse danzanti e dal quale trapelavano le spine della sua formazione, mi ridisegnava comunque il suo ricordo, lo rinnovava tra le pentole della cucina, mentre le sgrassava con disinvolto fastidio. Presto però le lasciava, per passare il disinfettante profumato sul pavimento, usando poca acqua, e questo non ci entrava niente con la pulizia come l’intendevo io. Così… di punto in bianco, si dedicava al pavimento, mettendo a repentaglio il mio già precario equilibrio casalingo. Per trattenerla dalle sue imprudenze avevo comunque deciso di educarla, iniziando a pagarle il parrucchiere e concedendole un anticipo mensile, nè tralasciando di seguire le sue frequentazioni, delle quali controllavo le tracce in spese generose quanto inutili. Nel suo diario Dolores accenna a mia sorella Regina, che  avrebbe dovuto confortare come badante. Per lei è la senjora che non alza lo sguardo, concentrata in un viaggio tra  saracene bendate e frettolose. Forse per questo mia sorella va ripetendomi che sta già in compagnia e che di me non ha di bisogno.

– Tua figlia… – tento di svegliarla. E lei non perde tempo a capire dove voglio arrivare, rigida e impettitta sulla sua poltrona imbottita di cuscini.

– Da quando sono rimasta sola e mia figlia viene e non viene ho conosciuto la clandestinità… – E le clandestine erano state ragazze slave, che parlavano con un ghigno interrogativo sulle labbra. Selvatiche e guardinghe, avevano il vizio di scappare. Nemmeno il tempo di abituarti alla loro discreta sorveglianza. Non una poi che digerisse la cucina casalinga, qualcuna poi con lamentazioni e improvvise matasse da dipanare che si risolvevano con le solite partenze.

– Ma cucinano per te?

– Non cucinano per loro e nemmeno per me – taglia corto mia sorella. L’ultima arrivata aveva preparato tutto per bene: il pentolino con l’acqua, il sale e la pasta. Alla fine aveva acceso il fuoco, aspettando che il suo impegno si condensasse in un brodo denso, buono a incollarci i manifesti. Meno male che i turchi guardavano dai balconi. A volte schiacciavano gli occhi curiosi ai vetri delle finestre. Loro bussavano e col fiato intanto appannavano i vetri, attutendo in quella nebbia un loro disegno di sbarco nervoso e irrisolto. Regina li apostrofava con l’intento di farli avvicinare, ma quelli s’impaurivano e andavano a rintanarsi chissà dove.

– M’è successa una cosa strana… mi raccontò Regina il giorno dopo. Era venuta a trovarla la Monrealese, determinata a non darle requie, ma lei si faceva le domande e lei si rispondeva. Regina la seguiva, dandole la corda giusta, per non sembrare scortese.

– Non ho fatto che pensare a voi – così quella iniziò la visita…- Perchè una sola cosa vi manca!

– Tra le tante che non abbiamo, ma non capisco dove volete…

– E allora statemi a sentire. Arrivata a questo punto della vita, una serva per voi deve fare cose diverse, nuove è dire poco…

E tutto questo mentre con la mano piegava sul tavolo un fazzoletto dal colore troppo aggredito dai detersivi per definirsi immacolato. Improvvisamente quella mano trovò però la sua pace, gonfia d’una pastosità insolita, nervosa e inerte insieme, mentre le unghia avevano dismesso l’atteggiamento permaloso di poco prima. Mentre quella continuava a straripare incongruenze, Regina notò però la bocca della visitatrice scuotersi in un improvviso ghigno: un verso da uccello difficile da decifrare, certamente umano quanto basta, ma ricoperto e soggiogato da un effimero singulto. Tra le pieghe d’un sorriso stravolto, l’uccello continuò a volare sbattendo le ali contro le pareti della stanza. Poi trovò la strada della porta, che chiuse pesantemente, con maleducazione. Tralasciando quella pazzia e pensando che la mia curiosità fosse frutto di debolezza di sangue e di notti insonni, provavo ad  inseguire mia sorella, con la serietà di chi ha deciso di non arrendersi. Le dico mangia Regina non  solo per dirle qualcosa, le metto davanti un grappolo di banane che le ho comprato per stimolare la sua inerzia, per lo stesso motivo ho riempito la dispensa di barattoli di marmellata. Indirizzo infine i suoi occhi su un album di foto in bianco e nero, antiche quanto basta per coinvolgerla coi ricordi. Mi segue perchè vuole essere gentile, ma forse si domanda perchè dovrebbe farsi trascinare dalle smanie di conquista d’una  sorella, gentile sì ma inopportuna. E chiudo un occhio sui visitors invadenti, perchè la nostra stanza è anche diventata una dogana di passaggio per anime di mezza età, tronfie delle loro indigestioni, ma decise ad attenuare le pieghe che sgualcivano i loro abiti rifiniti da cuciture poco indovinate. La Sarina, come esempio degli ultimi arrivi, con la sua  mimica concentrata era un’eco di ritmi misteriosi, improvvisati e offerti alla nostra immaginazione. Veniva a dire che era appena arrivata, tra i nuovi visitors, proprio quella che cercavamo. Guardai mia sorella che aveva altro a cui pensare. Poi lasciai parlare la mezzana…

– Questa però non è una qualunque – proseguiva.

– Come sarebbe a dire?

– Che è in tutto e per tutto una signora.

– Vuoi dire che dobbiamo fare tutto noi,  mentre lei ci guarda?

– Come la prendete tragica! Certo nel suo paese potrebbe fare di tutto tranne che la serva…

– E da noi? La serva gliela dobbiamo fare noi?

– Chi ha di bisogno, un occhio lo deve proprio chiudere!

– Solo un occhio?

Ma prima la Sarina aveva presentata la nuova badante al prof. Bellanca. L’aveva ricevuta la moglie di ques’ultimo. Rumena o polacca che fosse, farfalla tuttavia ancora impacciata dal suo bozzolo, la nuova arrivata s’era presentata attillata in un abitino fresco di bucato, l’occhio docile ma insicuro su quale dimensione di quel nuovo mondo riposarsi. La ragazza preferiva allora divagare, avendo posato a terra la valigia, immensa come un transatlantico. E che si sarà portato? si disse la moglie del prof. Bellanca. Ma lei, a quella, le valige mica gliele avrebbe portate in camera…

 

Sai, tu da me non meriti neanche una parola. Te lo scrivo perchè il giorno che mi hai chiamata per telelefono non potevo dirti quello che sentivo di dirti, perchè insieme a me c’era la suora. Tu sai perfettamente che  a me come donna non piace lo scandalo. Per questo volevo parlarti. Io avrei pensato di partire insieme al bambino, ma purtroppo non mi è stato possibile per molti contrattempi. Io non sono italiana e perciò il bambino non ha la cittadinanza. Non ho il permesso di soggiorno. Se esco fuori dalla nazione dove mi trovo, non potrò più tornare in Europa. Quello che voglio, ma forse dovrei dire pretendo, è una cosa molto importante per tuo figlio. Visto che non gli stai dando una protezione paterna e un futuro felice vicino a te… Ma queste parole quando le leggerai non ti faranno nessun effetto. Quando una persona non ha cuore non ha neanche sentimento. Visto che mi hai trattata come una bambina e non come una donna. Ora vedrai all’opera la piccola bambina. Se entro quindici giorni non risolvi il problema dei documenti del bambino, ti sbatto sulla sedia di un tribunale e aspetterò che ti ritorni la memoria…

 

 La nuova puntata, dell‘educazione sentimentale di Dolores, mi fece riflettere su come presto sarebbe finita l’estate, che intanto gravava i rami dell’eucalipto d’una penosa spossatezza. Ma non era solo lo scirocco che infastidiva le stanze. Da quando quella complicata bambina se n’era andata, nessun’altra impresa era andata in porto. E in fondo  mi mancava quella sua incoercibile e penosa insistenza, quel credersi capitale e periferia di un mondo che le sfuggiva e che lei voleva trattenere come una specie di bengodi. Nell’ultima posta di rosario, dopo aver concentrato tutte le mie più buone intenzioni in una coda di paglia, mi sono proprio addormentata. Svegliatami un’ora dopo, mi accorsi che Regina ancora dormiva sul divano e mi sembrava serena. Il pensiero, su cui si era concentrata prima di addormentarsi, ancora forse continuava a rilassarla sommessamente e la sua marionetta, completata la recita del giorno prima, mi sembrava ormai pronta ad iscenarne un’altra appena sveglia. Le sussurravo che con la nuova non era andata affatto e che non avevamo avuto fortuna. Sembrava che l’avessi convinta a preparare il pollo che desideravi. Pollo condito con poco olio e niente affatto sale. Ma la Cristina, dapprima accondiscendente, alla fine mi rispose col solito grugno. Taceva e quando non ne potè più prese a fumare. Si accoccolò davanti la porta e  mi sembrò come pronta  a spiccare un volo a bassa quota, con le altre clandestine venute a prelevarla, facendo sbattere le sue ali rigide ed insicure. Per cinque minuti restò accovacciata alla turca, fumando. Poi come un manichino rigido entrò e si sdraiò sul divano. Stamattina glielo hai detto a viso duro che non la sopporti più, che con lei presente non riesci a digerire nemmeno il pollo che ti prepara. Ti eri stretta a quella sedia da paralitici, mentre costringevi il silenzio  a trovare le parole che ti mancavano. A chi veniva domandavi solo come andasse il tempo ed eri contenta se ti raccontavano che andava male, perchè un castigo di Dio ci voleva. Come se il tempo diventasse la scusa cercata apposta per non uscire. Ma la tua voce usciva dalla bocca di un famelico lupo. Veniva fuori da una pioggia illuminata dai lampi, spinta a picchiare senza misericordia. Mentre la Cristina continuava a restare chiusa in un utero di pena. Alla fine il pranzo di Regina era sfumato in una tazza di latte e biscotti e il suo viso era diventato un uovo sodo di insofferenza. Rimasi ad ascoltarla mentre descriveva i turchi che passeggiavano da un balcone all’altro e correvano per aria, trovando fili invisibili che li sostenevano o li facevano accasciare. Finì che a capire il suo malumore ci arrivai pure io, mentre Cristina a denti stretti si toccava la pancia, organizzandosi le prove d’una incerta gravidanza.

Bruno Caruso, Carnevale in manicomio, disegno colorato

La visita che dalle nostre parti chiamano di cortesia, serve più che altro a stabilire la temperatura dell’indigenza altrui o la graduazione delle preoccupazioni a venire. Per leggere il grado di rassegnazione della casa, i visitors riflettevano su come la visitata si vestisse o meglio la  vestissero, se venisse pulita, se mangiasse come Dio comanda, se venisse lasciata senza compagnia, a sbrigarsela da sola. Quelle che portano la comunione poi quando si siedono, rasentano una sicumera da maleducate. Svolgono il discorso, partendo alla larga: siete rimasta sola? – se ne è andata pure l’ultima? – ma i vostri parenti, che dicono? – il Signore vi deve proteggere! Poi trattengono tra i denti l’osso giusto da spolpare. L’ultima se ne è andata perchè era forse incinta? Come l’ha saputo? Lei forse se lo sentiva e poi insisteva che voleva fare il test? La striscetta cambiò colore in un secondo? Chi è stato? Tutti e nessuno? Voi sapete come vanno queste cose? Ma lei non lo sapeva chi era stato? Sì e no?. Prima di riuscire gravida, la Cristina ad esempio parlava a vanvera, ma qualcosa aveva fatto capire. Diceva che era stata a servizio da un vecchio, dalle parti di Messina. Chi voleva sapere, roteava la faccia liscia o movimentava le rughe appena accennate agli angoli della bocca, che si impennavano quando l’espressione affiorava  disgustata  tra le rovine ormai consolidate di un viso pensieroso. I capelli tinti allora gonfiavano un orletto di sbuffi sulla fronte lucida di crema. Maria Maddalena! Con questa esclamazione già studiavano la beatificazione della peccatrice e il successivo percorso di penitenza. Ma la visita volgeva al termine e veniva aperto il pacchetto di dolci… e dicendo fatti in casa, i visitors mettevano delicatamente un punto fermo all’incomodo. Regina nemmeno le aveva ascoltate. Una di loro era rimasta comunque a prolungare la visita, perchè aveva finito il giro e doveva fare un’altra strada per tornarsene a casa. A bocca aperta, esclamando timori però andava disintegrandosi, come la scia di una cometa. Come ti è andata a finire! sottolineava… e sembrava saperla più lunga, cercando col suo trapano di penetrare il silenzio scocciato e rigido di quella interlocutrice. Hai però una bella cera… E  questo vuol dire che mangi! Qua del resto vediamo che la compagnia non ti manca, pure delle straniere.  Ma  vedo  che  state  in silenzio. Non vi capite vero? Non ebbe che risposte silenziose, ma non le attese nemmeno. Controllò infine l’orologio, accarezzò la pancia del borsone svuotata dei dolcini, poi fece schioccare le dita sulla cerniera della borsa e scucì dalle labbra un ghigno di compiacimento. Aggiustò un sorriso mortificato di circostanza e suggellò come saluto un bacio generoso sulla fronte della malata. La visita era finita.

 

Si passò improvvisamente all’inverno, senza autunno e senza preavvisi. Con Regina fu un convivere coi sordi, con impacci condivisi per irritazioni irrisolte, mentre strane voci amplificavano e sconcertavano i felicissimi visitors. Avevano bisogno di acqua e di cibo o il loro cibo eravamo noi? Quando arrivò Anja, ero stata avvertita che sarebbe stata accompagnata dalla vigilessa. Una donna piena di novità quest’ultima. Mentre preparavo il caffè coi biscotti, si sfogava strabuzzando gli occhi mordaci e impastando sorprese. Si sposava la figlia. Sorrideva ma distratta, come se avesse lasciato il pentolino sul fuoco. Te l’ho finalmente trovata, proprio come la cercavi. Nuova nuova e fresca di viaggio. Intendeva la badante: una bionda ossigenata, di età indefinibile, che sottolineava con un sorriso attonito le lunghe unghia laccate. Non avrai più preoccupazioni. Verrà ad aiutarti di giorno… alle otto e trenta di mattina te la porterò e di notte verrà a dormire a casa mia. Quando Anja era andata via con la vigilessa, chiusi la mia partita con Regina senza parole, ma mi seccava quel suo distacco definitivo, chiuso  in un malumore sordo che rovistava inutili disaccordi, mentre lo stormo da accogliere era sempre lo stesso. Non ti meravigliare dicevo tra me e me e proseguivo con Regina: non ti meravigliare pure tu… aguzza la vista sulle ultime pagine che ti restano da scrivere… e alla  fine  mi pare proprio che non te la passi peggio di me… forse perchè l’haldol ti comincia a funzionare, ti riassocia e allontana i visitatori dentro una nebbia che, attraverso il passato, entra nel presente. Quella primavera due colombi avevano fatto il loro nido sul tetto. Ma il gatto li sorprese con passo rapido e silenzioso, ammorbidito dalla mala intenzione. Restò tra le tegole uno strazio di penne mitragliate da quelle grinfie voraci, un sangue vivo che irrorava uno scheletro rosicchiato, un via vai di formiche testarde, affaccendate verso segreti granai. Il tempo che non mi basta ha solo chimere da farmi colpire, lo deduco dalla lista della spesa che mi ha portato al supercomfort della Nazionale. Ci ritorno sempre al policentro, ma gli incontri sono sempre gli stessi e di nuovi non ne faccio più. Rifletto senza concludere niente, pure al ritorno, quando sul tavolo della cucina le borse della spesa finiscono di vomitare la loro mercanzia. Gli incontri più assurdi però, li ho conclusi al bancone carni o presso il serpente formaggi del supercomfort. Riflettendo sulla soddisfazione provata dagli astanti, non posso fare a meno di pensare che un bancone salumeria dovrà pur esserci in Paradiso, con tutti i Santi a consolare i benemeriti dell’ultimo spoglio regali. Lo chiedevo pure a suor Maria, quando è venuta per la comunione. Viene puntuale il primo venerdì di ogni mese. Prima veniva il parroco che è vecchio e solo. Ora hanno preso il suo posto le suore o qualche laico di buona volontà, i quali gestiscono l’incarico con presuntuosa compostezza. La suora sembra contenta della sua presunzione, come una canarina delle sue penne dopo la muta. Ma c’è che non sempre si può sopportare quest’aria di mutazione. Dopo il sacramento la suora s’è fermata ancora un poco a catechizzare. Prima  rivolgendosi alla comunicata, che come al solito taceva, poi a me, poichè aveva necessità di un interlocutore diretto. Alla  fine  inamidò con lo sguardo il tovagliolo immacolato, che sul tavolo aveva accolto la funzione, aggiustandone le più invisibili pieghe. Per non lasciarla sola, pure dalla cucina continuai a sorvegliarla. Il thè le fumava nella tazza quando incominciò a farci un presuntuoso elenco di liturgici bisogni temporali. Per ascoltarla meglio Regina chiuse la mano di quella tra le sue. Suor Maria sembrò arrossire, rilassando la vanità tra il fogliame barocco del portaostie. Conquistata alla fine, con un non è di tutti avere questa assistenza, a lode mia penso che da lontano ascoltavo, e chiuse la partita. Allora piegai la tovaglietta, spensi il moccolo, lasciandolo fumigante. Ti preparo la cena? dissi infine a mia sorella.

 

Dopo due anni di silenzio ci incontravamo, ora che non c’erano più rancori e realizzazioni incerte. Ora che  il mio destino si confondeva col suo. Ma mia sorella Regina non parla più, inizia e conclude qualsiasi discorso con una immagine fissa, che galleggia nel discorso come un relitto. Lo fa per salvare le apparenze, ma in realtà capisce tutto. Ne sono convinta. A volte penso che lo faccia apposta. La sua testa dura mi avverte che stanno per posarsi le astronavi. Il perchè della loro malarotta la conquista. Sa che il monitor televisivo in questi momenti impazzisce. Nell’ultimo anno sono stati gli arti a non sorreggerla più. La lingua se ne è andata subito dopo, quando quegli strani visitors, trasformati in animali, le porgevano la testa a mò di trofeo. Lei se li sognava ad occhi aperti. Poi improvvisamente allargavano le ali, fuggendo dal sogno e dalla realtà,  sbatacchiando le porte. In realtà penso che lo faccia apposta a non parlare. Ha capito tutto e ha impostato un verso definitivo, sempre lo stesso… come quello dei piccioni che io interpretavo a modo mio: cu-cu-zzi…cu-cu-zzi…cu-cu-zzi… All’infinito si moltiplicava  la  loro  monotona  richiesta,  fino a  quando   non  veniva interrotta da  un  improvviso e  spavaldo frullo d’ali. Anche lei è diventata un uccello o un rebus che arrocca la voce in una ripetizione banale, quasi un singhiozzo. La sua testa ha deciso così e spetta a me sconsigliarla o farla decidere definitivamente su come condurre quelle giornate, votate  al precipizio. Sembra quasi estraniarsi in un pozzo di delizie tutto suo, ma alla fine si ritrae, sorpresa da non so quale barlume. Con gli estranei partecipa, quasi fa capire che capisce, parla con gli occhi e allarga con le mani il suo inventario di sogni. Coi parenti  quel teatrino abbassa invece il sipario, perchè Regina chiude in fretta ogni propria affettazione. I parenti vengono solo per le feste comandate e con la fretta per giunta, come i Re Magi presentando salamelecchi e pacchetti di pasticceria. Si alleggeriscono degli abiti, sorseggiano il caffè, conteggiano le pillole del momento e non capiscono come si possa vivere così. Meglio morire dicono e non hanno tutti i torti: in quel binario morto crescono solo erbacce e diradarle non serve. Viene pure Peppino, che dà il diserbante alla campagna, a spiegare la necessità quell’anno della tonsura degli ulivi, vantando la sua perizia come se avesse trattato la chierica di un prete. E poichè lei neanche risponde, imbronciata com’è, quei pochi parenti volenterosi alla fine diradarono le loro già rare visite: le feste comandate se le concelebrassero da sole. Promettevano sì di ritornare ma senza entusiasmo, sapendo di perdere solo tempo. Arrivammo perciò al punto di organizzarci da sole celebrazioni e carestie, rompendo digiuni e pudicizie. Svuotavamo la dispensa in un batter d’occhio, ricostituendola quasi subito con presuntuose leccornie. Imbandivamo una tavola che moltiplicava invitati inesistenti, ognuno al suo posto di comando e tutti che parlavano insieme, accavallando mutrie e rancori. Dai vetri appannati dell’inverno, salutavamo le feste di fine anno e chi s’è visto s’è visto. Gli stranieri erano un’altra cosa. Venivano e  non  gliene  importava  niente  di  venire. Scendevano improvvisamente  dalle loro astronavi e restavano finchè anche a loro mancava il respiro. Partivano soprappensiero interrogando: ma guarda come ti sei ridotta!… E una su quel filone insisteva: Dio dà e Dio toglie, sia fatta la volonttà di Dio!… Un’altra: è brutto non avere nessuno! Così insistenti, da risolvere la rassegnazione di Regina in una irriguardosa giaculatoria di insulti nei loro riguardi. Ad altre non gliene importava nulla. Andavano direttamente al sodo: alle figlie che stavano sistemando, al matrimonio che preparavano, alla dote. Oppure si rappresentavano in cucina, in pantofole e grembiale bianco, a preparare teglie di sfincione o di pasticcio a forno, a imburrare stampi, a dorare sfince. Queste visite in genere avvenivano dopo le feste, quando potevano essere meglio definiti i risultati. Magnificavano allora la loro perizia e insultavano ipotetiche avversarie e non andavano via facilmente. In genere s’intrattenevano fino  alle otto di sera, quando scattavano come una molla, ricordandosi che avevano dimenticato il marito. Tutti i visitors, dello stesso pianeta e pure di altri, usavano comunque la stessa irriconoscenza, protetta da una coperta di impenetrabile diffidenza. Ma  all’impegno che ci accomuna Regina non risponde più. Ora non saprei più definire questo suo momento, se non un insolito angolo di conquista. I nostri  incontri poi si svolgono a una certa distanza, che accorcio indispettita, faccio come la regina di Saba quando andava a visitare re Salomone. Mi fermo nel suo palazzo e non mi muovo più, mentre tutti sembrano correre. Hanno impegni e figli da correggere. Come se i figli si facessero correggere facilmente o non fossero invece solo indispensabili preparativi da mandare in porto. C’è sempre una crociera che li aspetta, ma ritornano più  annoiati di prima, con un sacco di capricci intestinali. Sono tutti per conto loro i miei figli, sistemati dentro macchine gigantesche e fuggono verso destini di felice infelicità. Il mio destino è stato quello di partire con loro e di arrivare ad una nuova partenza.  Lo sanno bene i miei figli, che non possono permettersi di prendere l’airline e venire come un tempo. I miei nipoti sono ormai grandi. Li vedo per le feste comandate, quando possono venire. Mi faccio ripetere il nome dei loro figli, benchè non dimentichi facilmente le fisionomie e la data della loro nascita. So che la loro strada misteriosa si dipana nel traffico di città che posso solo immaginare, colpite da terremoti quotidiani. Parlarne non conviene. Alla fin fine il traffico finirà per tutti. Di certo c’è che siamo in estate e Anja ha dismesso i maglioncini. Ha unghia più affilate del solito ed esce sempre per andare a comprare qualcosa. Ieri è venuta a trovarla la sua amica Carla, una donna di mezza età che se l’è presa a cuore. Ogni giorno poi c’è un via vai di ambulanti, che fanno tremare tutta la strada col tuono della loro voce. Anja si affaccia e resta a confabulare. Il postino ritorna due volte, perchè dimentica sempre qualcosa. Tutti parlano del più e del meno. Ridono e si scambiano battute insensate che non capisco. Quei loro sotterfugi limitano i nostri attacchi o forse  la pretesa di capirli. Prima o poi riceverà una proposta di matrimonio, ci dice l’amica di Anja. Ma sceglitelo ricco, prosegue. Questo non è tutto, ma per il momento ti aiuta a non battere i denti. Noi però, intanto che garantiamo le uscite e il divertimento di Anja, addomestichiamo sotto i denti un panino al prosciutto e un frutto di accompagnamento. Anche oggi non abbiamo pretese, mentre la Carla sibila uno sbuffo di compatimento. Ci spiega che se ci fosse la bimba di Anja non saremmo così risentite e che la storia dei gattini ubriachi e di fatine permalose è solo una di quelle cantate nordiche, che ci avrebbero conquistato. Milena ha infatti una bella voce e dal coro della chiesa è passata sul palco del paese a ravvivare la festa. Così sentiranno come si canta e tutti conosceranno la figlia di Anja.

 

La Saracena infine si affacciò dal balcone. Era paludata in un burqa, che le oscurava la vista e pure il respiro. Regina la vedeva passeggiare e salutare, indovinandone il lampo degli occhi  sotto l’armatura. Come fosse arrivata fin lì non lo sapeva. Forse quando la barca era rimasta incagliata e lei,  nuotando con altri temerari, s’era guadagnata la riva. Ora si affacciava e scompariva, come se ogni volta restasse delusa. Ma per il resto, quando si ritirava, non si vedeva in giro tanto facilmente. Non scopava come facevano le altre vicine e con queste non faceva crocchio. Manteneva le distanze. Solo che quelle erano piene della grazia di Dio mentre lei si muoveva come impacciata, forse perchè nuova nuova, appena sbarcata e senza viveri.

Salvatore Bommarito