Per la folle opinione che il colera
da birbi indemoniati si dispensa,
come l’ombre distendonsi la sera
la gente in casa a ripararsi pensa,
stoppa d’usci e finestre le fessure
e rinforza ben ben le serrature.
…
Filippo Isola (“Prosa rimata”, 1898)
— Di che ti accusarono? — chiesi, appena il chiavistello fu chiuso dietro le sue spalle, come si fa tra i trasennèsci di galera, tra i compagni di cella.
— Le cose storte, io, non le posso sopportare, non mi calano, mi vanno nel cannarozzo manco!
Il solito esagitato, testa buona per fare pidocchi. Faccio finta di lasciare cadere la discussione, e aspetto che gli si sciolga la lingua…
— Tutti appattati sono, tutti, ti pare che sono bestia, io? A me, non mi pigliano piffìssa. A Filippo Sanfilippo non gliela si racconta la pantomima, non gli si dà la volta cambiata, come ai piccirilli, san carusaro porco!, come ai pazzi, santo diavolone porco!
Certo, a fare l’infiltrato, sbirro e delinquente tutto in uno, il confidente e questurino in un’anima sola, ti devi mescolare con certe crozze… Ma qualcosa poi scippo, qualcosa me ne viene in sacchetta… Una promozione, una menzione, un cavalierato, chissà…
Ma questa volta ecco cosa dovettero sentire le mie orecchie:
«
In principio non ci volevo credere. Ma, come si dice?: chi non ci crede ci ’ngagghia. Parlavano tutti di cosa c’era a Napoli, a Palermo, la pandemia, ma io pensavo che non poteva essere, che la stavano impapocchiando, che volevano fare scantare la popolazione, cosi non faceva mozione, non si rivoltava, alla tassa del frumento, alle angherie del Duca, alle ingiustizie degli sbirri…
Fino a quando mio frate nico, figlio gioia, non cominciò a gettare l’anima da ogni pertuso che ci aveva in corpo, si sdiseccò come legno verde al focolaro, come morto al colatoio, ma ancora vivo, che ti taliàva con occhi che sembravano ogni ora più grandi, che non si riconosceva più la mpigna, ma ti domandava: ma che è, che mi vedo e non mi vedo, ma come mi potette finire accossì, ma si può squagliare come la candela sulla stufa?
Mi giurai, davanti al sacratissimo, che, porco dell’innimmico porco, che se lo trovavo quello che lo butta, il qualère, la morte quagliata, la malia, l’avrei fatto morire io nsuppilo nsuppilo, gliel’avrei fatto cacare, l’alma, con tutto il contra che ci aveva in corpo, a costo di torchiarlo come la racina!
Avevamo fatto bene, non è vero?, a braccarlo mentre scendeva dal bosco, facendo finta di essere un poveraccio, che aveva fatto un fascio di legna, Scaglia gli dicono, della razza dei Zangrechi, di suo nonno manco scaglia. Diceche, avevano visto strani movimenti al bosco, di gente scognita, che furriava di nott’e notte. E quando si presentò alla trasvolata del sole, non ci potevano essere dubbi, a’ voglia che pareva vestuto di lordo e strascinava i piedi, lo capimmo subito cos’era, iettatore, ietta veleno, come ce l’aveva descritto don Ballacca, che quello insegnato a parlare è, che va sempre alla cità, e l’aveva visti, e gliel’avevano contato, come si diportano questi maledetti.
Appattati con l’autorità, col governo che così ci spariggia, meno bocche da sfamare, e tutti che si tengono il culo con tutt’e due le mani, a ubbidire ai dottori, che vogliono solo arricchirsi sul povero morto di fame, che, tanto, loro. il ‘contra’ ce l’anno, se pigliano la malattia, anzi non la pigliano che sono già pieni di contra fino alle nasche come una damigiana voltata a bollire.
Appena lo vedemmo, dalle frasche dove ci eravamo ammucciati, gli facemmo venire i vermi dallo scanto. “Altolà”, che gli parve che erano le guardie del Principe che lo beccavano a raccogliere legna nel bosco. E invece, ‘a quale Principe, noi eravamo, i paesani, noialtri, che ci difendiamo da noi, noi bravaggente, l’uno meglio dell’altro, pure armati, scopetta, tridentone, zappulla, marruggio.
“Che gli facciamo ora a sto pegno? — disse lo Xacca, che mi pare avesse avuto questioni in precedenza.
“E che ne saccio? Fatelo spogliare, allanuda, che ci divertiamo, che così non ha sacchette dove nascondere il veleno.
’Nchia che ci divertimmo, gliene facemmo quanto a zzuzza, lo mandammo a casa cacando e piritando, i vestiti li bruciammo, lo scecco ce lo mangiammo, cotturato sotto la cenerice, che ci allumammo sopra il luce con la stessa legna che aveva portato, lo scecco la porta lo scecco ce lo arrostiamo, anticchia duro era, e ndihiro come la morte, ma ci riempimmo i fianchi anchi anchi.”
Sto vutuperi: non si lamento con l’autoritati? Si era fatto pure arrestare, per stare tranquillo, nascosto dagli sbirri della comarca sua, a trinchilliare con il contra. Un complotto, un trainello un tirantrè.
E meno male che il Capitano dopo qualche giorno se la scappottò fuori paese, appresso al Sindaco e seguito dalla ministrazione tutta. Il Dottore lo avevano già assicutato con le tridenti e i tridentoni.
E all’amico nostro, a quello, lo fecero uscire con tutti i carcerati.
Così quando lo capitammo n’altra volta ci fu la pelle! Lo circondammo verso a Bolo sul ponte della Càntera, non ci poteva scappare, io glielo dicevo a tutti che lo conoscevo, che già la nomina se l’era fatta. Fatti la nomina e va corcati.
S’erano arricogliuti più di trenta boni omini e femmine di famiglia, con gli occhi di fuori per questa cosa fitusa che buttava la malattia e lui ci aveva il contra, e io glielo dicevo a tutti: “non lo facciamo scappare stavolta, come porcospino nella caduta è”, e tutti si prepararono le bracciate e i folìri pieni di coticchi del fiume, pronti…
E poi mi dicono che non era vero: Illo lo disse, con la sua propria bocca:
“Statemi lontano che ve lo butto…”, e le mani ce l’aveva nel tascappano, e poi tirò fuori quella maledetta sostanza: il qualère, io mi pensava che era liquido, che lo buttavano come con la benedizione, ‘a quale, come briciole, come molliche, di aspecie di pane, minuzzato, ce lo cominciò a tirare tra i piedi…
Io continuavo a dire: “ma che vi scantate, le pietre più lontane vanno. Tirate!”, ma quelli si cacarono sotto senza qualère, e se la scappottarono che i piedi se li facevano arrivare al cozzo! Che dovevo restare io? Mi girai e gli contai i passi.
La sera, lo aspettai allo scalone della sua porta, era buio e non c’era anima viva, che la gente si cacava sotto, e non era un per dire.
“Dammelo, buttana di to ma’, dammelo” ci dissi a bruciapelo. Poco ci manco che gli pigliasse un sintomo, quando mi riconobbe in quello scuro.
“Ma chi se’. Ma che vuoi da me? Ma che è sta malalumina che mi impiccicaste? Io niente so, niente ci ho.”
“Ma no me lo dicesti tu che ci buttavi il veleno… Mi appatto pure io, basta che mi dai il contra, per me e per mio figlio, che oggi aveva certi cerchi neri attorno agli occhi…
“Ma io niente ho, lo dissi solo per salvarmi, diteglielo voi zza Sara…”
E mentre mi girai, il tempo di capire la presa per fesso, che quello si era già asserragliato in casa, calando tutti i calascendi della porta.
Ma l’indomani ci organizzammo, l’amico Xacca con me, e altri amici boni. Lo aspettammo all’anto, all’uscita di casa alle sette mattinate, ci aveva pure il tascappano, prova sicura di quello che stava per fare. Lo secutammo fino al fiume, là ammucciati tra le frasce, cominciammo a fare volare i coticchi. Xacca, ch’era boaro fino, e poteva acchiappare i conigli a mazzacanate nel cozzo a venti canne di distanza, gliene ammiscò uno nel cozzo, all’untore, che cascò secco, come una pera fatta. Poi tutti uscirono dalle frasche, io con una pertica gli allontanai il tascappano, e lo forrocammo di pietrate.
Subito dopo scapparono tutti per paura dell’autoritate, che già se n’era scappata per conto suo, ma che facevo la da solo? Me ne scappai anch’io.
La sera tornammo a vedere se l’untore era quagliato: macché, respirava ancora, che i cuti lisci con cui l’avevamo accopponato, scroscìvano sbattendo al ritmo del rantolo. Qualcuno disse: “Chiamate a sua mogliera!”. “Ma quale mogliera — disse Xacca — qua oramai, dobbiamo fare i fichi, e gli caricò una carrettata di legnate con il cozzo del marruggio di zappone che si trovava per le mani. “Bruciategli i vestiti”, consigliai, è vero. Ma era per non infettare il popolo. Ma quelli non mi sentirono, scapparono ancora tutti, per non essere incolpati.
Spessiammo tre giorni per vedere se tirava le cuoia, macché! Ci doveva avere lo spirto dei gatti, quello là, o era il contra che gli avevano dato per non prendersi il qualère, che lo teneva in vita. Mio frate carusitto, squagliò in un niente, e quello non moriva manco a legnate!
Il quarto giorno qualche animella lo andò a contare alla mogliera, dove era il marito, e fu lei a costatarlo morto, sotto il tappeto di pietre nere di sangue pestato.
Quando mi arrestarono gliene dissi una carrettata, che mi tenevano come fossi posseduto, ma non contro il Re, ma contro i governanti che fottono la popolazione, avevo preso pure il fucile alla guardia, bestia di un cane pastore, che poco ci mancò che ne facevo un mazzo, ma mi tennero quattro, e me ne tornarono con la junta.
Ma che feci male? Che? Non me lo disse lui stesso che era untore, non lo vedemmo tutti che ci buttò le molliche come di pane per salvarsi la pelle? Ora che vogliono da me? Non avrebbero fatto tutti lo stesso, vossia non avreste fatto lo stesso? Non si deve difendere la vita dei propri cari, non si deve vendicare il torto subito? E non bisogna strafottere governo, dottori e parrini, tutti pari appattati, congiurati, un complotto, una cricca, una comarca. Ditemelo, sbagliai? Ditemelo! Ma allora… ora… che mi fanno?… m’avvelenano?…mi avvelenarono già? Meglio ‘na fucilata nella crociera della fronte, che morire nsuppilo nsuppilo, in mezzo ai propri sbromi…
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Questo mi raccontò il carcerato, come vuotando il sacco, che mi pareva pure frastoranto assai, l’occhi pieni di scanto, che faceva scantare. E questo basta, per non farlo uscire più di galera, e comunque non prima di avergli cotolato le gangolara. Ma non c’è organizzazione, non c’è sedizione, niente complotto, se non si vuole considerare quello che ci ha in testa, lui se la canta e lui se la suona. La rivolta organizzata si scopre, si sanziona, si reprime, ma contro le cose che ti dice la testa che può fare la giustizia?, Giusto di chi?, giusto per chi?
O ci ha ragione lui?… Che ci fu complotto. Che noi sbirri…Ma a me niente dissero. Niente mi dicono e mi fanno fare il lavoro sporco. E non mi tocca… a me… il contra?
Sot.to-Deleg.to Agg.to Curiazio Mairone.
Il racconto ricalca, romanzandoli, avvenimenti relativi all’epidemia di colera del 1855 a Bronte e a quella, sempre di colera del 1887 a Maletto, quando ci furono linciaggi legati alla credenza degli untori.
Chi vuole approfondire può consultare il sito:
http://www.bronteinsieme.it/2st/colera.html