Ho conservato le tue reliquie: poveri ori di cui amavi ornarti e che non ho più spolverato da allora. Non per incuria o dimenticanza, ma forse per non restringere il ricordo a un album di istantanee sbiadite. Sono convinto infatti che quel viaggio in treno continui pure oggi, anche se non esiste più la stessa piccola stazione da cui eravamo partiti.
Allora dovevo essere molto piccolo. Nella memoria ho come nostalgia d’una impalpabile nebbia, che la mia insistenza dirada, fino a scoprire il fugace paesaggio, che i finestrini inquadravano tra una stazione e l’altra: quasi sempre eucalipti solitari, vigne polverose o distese abbaglianti di stoppie. Ad ogni stazione il treno fermava la sua lenta corsa. Ci soffermavamo allora quasi a salutare i nuovi passeggeri: contadini magri e lignei, che facevano ballare la coppola tra le mani, con la cicca spenta in un angolo della bocca sdentata. Ci doveva essere un caldo davvero insopportabile, se ricordo i finestrini tutti aperti e un vento sbuffante che sollevava le pesanti tendine, insieme ai capelli dei passeggeri. La lentezza con cui il treno inseguiva le sue destinazioni, rendeva la nostra noia stagnante. Mia madre alla fine, non essendo il tipo da stare con le mani in mano, aveva accettato il pettine offertole da una vicina di viaggio, troppo gentile e insistente nel volermi sistemare i capelli, prima di scendere.
Andavamo a trovare la nonna, ricoverata presso l’ospedale di un grosso paese, poiché doveva essere operata di tumore. E forse proprio quella preoccupazione dell’ospedale aveva portato mia madre ad evadere dalle sue regole. Fatto sta che la nonna, con il suo solito umore innocente, alla luce della grande finestra, aveva fatto notare qualcosa che non la convinceva muoversi tra i miei capelli. Da allora la mia testa sarebbe diventata, per parecchi mesi, la fissazione costante di mia madre.
Altre istantanee erano le tue. Scattate e fissate nel ricordo, ma le sfogliavi mentre ti liberavi le mani dalla farina impastata, che avevi lasciato a maturarsi in pane sotto la coperta, o quando ti svagavi coi lavori di rammendo. Spontaneamente allora prendeva forma la tua antica felicità di vivere, quando riecheggiavano con impazienza le voci dei venditori, nelle lunghe e tiepide giornate di primavera: quasi tornavano a rincorrersi per le stradine polverose, allagate di risciacquature di panni. Sembrava che destassero quello che dentro di te era rimasto sopito nel freddo. Ma subito dopo carnevale la settimana santa giungeva inesorabile, nel procedere frettoloso, non sempre sereno dei giorni. Malinconico resisteva nell’aria l’odore dei giaggioli e del rosmarino.
Mia madre allora andava in chiesa con le amiche, alle lunghe prediche della settimana santa, che i padri passionisti tenevano dal pulpito. Ci andava quasi con la segreta speranza e persino piacere di vedere aumentata la propria allegrezza. Per pura incoscienza giovanile… giacchè una sorta di rabbiosa vivacità nasceva proprio nel momento meno adatto, quando quei padri passionisti intonavano il lugubre canto:
La morte all’improvviso
Ti priverà di tutto
I tuoi pensieri in lutto
Finiranno…
Forse immaginando che quei sacerdoti si fossero levati in volo dal loro monte, come da un covo banditesco e, planando per l’aria nel nero abito del loro ordine, si fossero alla fine posati in paese, intonando giaculatorie e canti da dies irae…
Se tu non vuoi peccare
Pensa al tuo finir eterno:
Morte giudizio inferno
E paradiso.
Lei in quei momenti pensava di più ad inseguire l’allegria delle sue compagne. Ma quel canto poi, per più settimane, se lo sentiva in gola, quasi volesse strozzarla. Alla fine spontaneamente le sue corde finirono per trovare un motivetto allegro, con cui superava la quaresima, esorcizzando quei canti durante i lavori di casa.
D’inverno le stradine presto già buie, risuonavano dei passi leggeri di scarne vecchiette alluttate, che come corvi svolazzavano frettolose verso casa, dopo essersi presa l’ultima benedizione. Una sera che uno scalpiccio s’era fermato proprio al loro uscio, nella casa già tutti dormivano. Mia madre era sveglia ma si rincucciò ancor di più sotto le coperte, trattenendo il respiro. Un colpo due colpi e suo padre di soprassalto chiedeva chi fosse, con la voce crucciata di chi non ama essere disturbato. Un ragazzino dalla voce incerta, rispose che era morta la vecchia. Mia madre si ritrovò così sulla strada, trascinata dai suoi quasi a viva forza. Avrebbe voluto fermarsi a considerare meglio quanto le capitava, ma la mano della nonna, quasi come una catena, non le lasciava altri panorami da programmare, se non quello di donne alluttate che l’aspettavano attorno al rigido catafalco. Quando arrivarono, da quel nero temporale che già s’mmaginava, le mani e le facce assorte improvvisamente cominciarono a sbucare come fulmini. E per un attimo l’affanno di quella veglia squarciò una curiosità benevola, con un arcobaleno di flebili sorrisi e di cenni di ossequioso rispetto. La più cerimoniosa di quelle parenti alla fine, forse perché meno intrigata nel lutto, conquistò silenziosamente una delle sedie più vicine alla nonna e fece il riepilogo generale, mettendo un punto definitivo sul programma del giorno successivo. Ma mia madre non voleva più restare a sentire, quasi fosse una violenza costringersi ancora a quella compagnia, che sarebbe rimasta col morto ad aspettare l’alba. E dapprima timidamente, poi anche sfacciatamente, andava sempre più rilevando tra le sue cugine i segni incerti della presunta eresia. Avevano formato alla fine come una nuvoletta di mosche presuntuose ai piedi del catafalco, che si spostava controvoglia quando qualcuno di quei parenti sontuosamente mostrava di non gradirne lo zelo. Poi tutte insieme presero a guardare la morta con un’attenzione strana, dando l’impressione di vedere chissà che cosa tra le pallide pieghe del viso. Qualche cosa di allegro, che si svelava solo a loro. La loro allegria si fece infine sempre più invadente e sfacciata, di fronte alla serietà dei più grandi. Tanto che gli stessi parenti si voltavano risentiti, imbarazzati per quel caso strano di forsennatezza. Ma non bastavano gesti e occhiatacce, perché quelle stupide più si sentivano guardate e ammonite più ridevano. Alla fine uno di quei parenti angustiati le prese tutte insieme per i capelli e se le trascinò nella stanza accanto.
Mi raccontavi queste tue disavventure il giorno dei morti, quando lo stradale si allagava di gente ad ogni ora. E forse per l’incoscienza di quella trascorsa allegria, non sono mai riuscito a considerare un lutto rivisitare il proprio dolore.
-Ma tu morti non ne hai- mi dicevi- e ancora non ti conviene pensare a quando ci dovrai venire per me.
-Ma tu, coi morti ci parli? Le chiedevo allora con apprensione, inseguendo con curiosità le sorprese di quel mondo inconsolabile.
-Ci parlavo… veniva sempre mia madre ad avvertirmi. Ad ogni minima contrarietà, me la trovavo che dettava legge alla mia porta. Finchè glielo dissi chiaro e tondo, che non mi venisse a trovare più per queste cose. E’ meglio non vedere le nostre disgrazie prima del tempo…
Nonostante questi suggerimenti la festa dei morti continuava tuttavia a conquistarmi, eccitando la mia fantasia coi pupi di zucchero, i gialli crisantemi, le nere velette che svolazzavano sulla statale, le allegre risate di ragazzi e ragazze indifferenti.
E i vecchi continuavano a raccontarmi i loro sogni, che mandavano bagliori freddi, come i tegami attaccati ai chiodi delle loro cucine. Calando la testa verso il nero rosario d’osso, una di quelle vecchie mi andava rivelando che aveva visto il suo morto mentre si riscaldava ad un braciere enorme.
– Chi faciti accussì– gli aveva chiesto, col timore quasi di importunarlo. Aveva ripetuto ancora la domanda, finchè il vecchio aveva mosso i suoi occhietti di topo, le mani sempre ferme sopra la rossa brace…
–Eh! Suruzza mia… Arrassati, nca stu focu nun finisci chiù.
La scuola del regime in piazza sciorinava saggi ginnici. Milizie tempestose si perdevano cantando, fino a tarda notte, per le stradine buie. Nel coprifuoco di quelle tenebre ogni tanto si indovinavano impazienti nitriti, comandi infuocati, voci di donne addolorate. Il silenzio poi improvvisamente ritornava, come una scia di sordo rancore, che in qualche stalla continuava ad ululare allo scirocco. Il giorno dopo le porte a lutto erano segnate dal rosso degli sguardi che s’incrociavano, mentre sulle soglie i giornali delle bocche intonavano i commenti sulla prima pagina. Ma facendo piazza pulita della mafia, anche le donne dovevano entrarci, perché nascondevano nelle stalle e sotto i letti quella loro malasorte. E quando se le portavano, come le furie incatenate, invocavano che l’ira dell’Eterno Padre s’abbattesse su quanti svergognavano la loro innocenza.
In mezzo a tutta quella storia, t’eri allora ritirata dalla scuola, per custodire i fratelli e le sorelline più piccole, mentre la nonna scendeva a Palermo, commerciando per salvare la famiglia: olio mandorle e vino. Raccontavi pure la tua guerra che era la fame e l’allegria degli sfollati. Alla fine di quell’anno abitavate infatti in campagna, aspettando dal cielo il rombo dei liberatori. Lo zio però, che era anche lui sotto le armi, venne prima di tutti e in incognito. Mentre al buio la famiglia consumava una minestra di fave, improvvisamente tagliò subito corto, sibilando per l’aria il suo ammonimento:
-Spegnete quel fuoco!
Non lo videro subito. Nello spavento videro solo luccicare i bottoni della sua divisa e allora si sentirono persi.
Ho in mano tutti gli esami e i valori dell’emocromo: erano ancora le prime incertezze diagnostiche. Ma ho anche in mano il tuo pudore di diventare un peso. Affrettavi allora tutte le tue cure, dopo il placet dei sanitari. Dopo la chemio aspettavi a casa con fiducia il ritorno delle tue forze e prendevi in mano tutti i lavori di casa, quasi fortunata questa volta di non avere conosciuto quell’altra realtà del precedente ricovero. Ho ripensato ad una delle ricoverate di quella volta. Ancora mi si affaccia nella memoria, immobilizzata nel suo lettino, da cui sporgeva dalla cintola in su come il Farinata dantesco: i capelli rossicci e stopposi scomposti da un insolito vento interno, una voglia come una stella cometa stampata sul mento… Lei diceva che i dolori della gamba acutissimi le avevano fatto dimenticare i dolori del parto. Ogni volta i suoi occhi mi imponevano di avvicinarla. Sebbene controvoglia allora dovevo accettare il suo filo di Arianna. In quel labirinto mi faceva poi un resoconto della vita di sua figlia. Fino a dieci anni questa sapeva che i bambini li portano le cicogne. Poi un giorno improvvisamente le venne a dire che era stata una mamma bugiarda. E questo non se lo sarebbe mai aspettato.
-Perché figlia mia?- le aveva allora chiesto.
Lei sapeva che il mistero era lì, nella pancia di sua madre. Pur tuttavia ancora la interrogava e voleva che le raccontasse come facessero ad uscire. Di pomeriggio la trovai ancora diritta, dalla cintola in su, coperta da una sottana a fiori. In questo reparto di gambe rotte, c’erano pure tre infermiere dell’ospedale psichiatrico. Una magrolina con l’osteoporosi, da poco rimessasi da una frattura femorale, aveva la pretesa di dettagliate conoscenze scientifiche, evidentemente sulle malattie che l’interessavano. La Ciccina assisteva invece un figlio dei suoi nipoti. L’altra ricoverata stava in un lettino, accanto a quello della Farinata, ed era come ossessionata dalla bellezza di sua figlia, ora gravida che aspettava per il primo di Giugno.
-Che le devo dire!- mi diceva- Gina Lollobrigida è niente di fronte a lei e non perché sia mia figlia.
Sua figlia s’era sposata con un francese e ora abitava a Parigi. Mi raccontò poi della sua vita e seppi così che a quindici anni era stata rapita dal marito, che lei dapprima non voleva e che poi fu costretta a tenerselo, per non fare parlare la gente.
Ieri sono ritornato nella piccola stazione. Funziona come ramo secco: manca il capostazione e le sbarre improvvisamente si alzano e si abbassano da sole. Mentre aspettavo il treno, tutto mi sembrò stranamente al suo posto: straordinario il paesaggio che si allargava fino al mare e lucide ancora quelle rotaie sulle quali avevo viaggiato quella volta, appena ragazzo. Altre cose ancora mi venivano incontro, con una strana impalpabile felicità. Forse mai potrò vederti morta. Sul treno che sta per arrivare, continueremo certamente lo stesso viaggio, né ti dimenticherai il pettine, perché il cuore ha tutta la nostra vita.
Vorremmo allora la tua allegria
Raccogliere nella vuota casa
Come quando del tuo amore
Risuonava la nostra festa.
Salvatore Bommarito