Al momento stai visualizzando I precursori del nazismo

I vari populismi che caratterizzano l’Europa dell’Ottocento e soprattutto del Novecento affondano le loro radici nel movimento del “Blut und Boden”, cioè “Sangue e Terra”, ideologia che ispira e condiziona tutte quelle teorie, che s’interessano del luogo di nascita, della discendenza e della provenienza primordiale del popolo, a sua volta influenzata dalla remota comunità di Zeitgenossen e Raumgenossen. L’influenza deleteria della ideologia del “Blut und Boden”, condiziona il nazionalismo dell’Ottocento e guida follemente quello del Novecento fino al tragico epilogo del nazismo. Coloro che hanno ideologizzato il nazismo hanno studiato i romantici tedeschi, leggendoli in chiave di precursori del populismo di stampo etnico-razzista. Ecco alcuni esempi più eclatanti:

Lo storico dell’Università di Greifwald, Blome Moritz Arndt in una sua poesia del 1813, intitolata “La patria dei tedeschi”, parlando del legame essenziale che si stabilisce tra il popolo e la sua lingua, arriva a sostenere questa tesi, cioè “Fin dove la tedesca lingua suona e canta a Dio le lodi, tu uomo tedesco, ogni cosa devi chiamare tua”. Secondo questa affermazione, se a tutto il popolo europeo si insegnasse la lingua tedesca, con il criterio linguistico arndtiano, dell’estensione territoriale in base alla lingua parlata, paradossalmente tutta l’Europa sarebbe tedesca. Blome Moritz Arndt predica l’identità di lingua, di popolo e di razza e proprio per questo i nazisti lo considerano un loro antesignano, perché enfatizza anche la tesi che la Germania debba diventare un’unica monarchia sotto un sovrano assolutista come “una sorta di nuovo Sacro Romano Impero”. In questo modo, non coltivando più l’idea di nazione ma quella di Impero, elimina “la componente universalistica” dei diritti di cittadinanza e di libertà di parola, propria della Rivoluzione francese.

Altro precursore dell’ideologia razzista nell’Ottocento è Friedrich Jahn di Brandeburgo, il famoso organizzatore di leghe sportive, durante la guerra contro Napoleone, per allenare in duri combattimenti l’infiacchita gioventù tedesca. Proprio durante l’invasione francese del 1810, scrive un libro dal titolo “Deutches Volkstun” (Peculiarità della razza tedesca), in cui, spianando anch’esso la strada al nazismo, enuncia il postulato più pericoloso del razzismo, cioè il concetto della purezza mantenuta della razza tedesca, così estrinsecato: “Un popolo è tanto migliore quanto è più puro, mentre più è mesciato, tanto più assomiglia a orde sparse”. Questa della purezza della razza è certamente un’invenzione ideologicamente pretestuosa, perché è impossibile che il popolo la mantenga nella sua millenaria esistenza; ma i nazisti ne approfittano ed utilizzano Friedrich Jahn di Brandeburgo anch’esso come antesignano della loro ideologia e come colui che ha risvegliato nei tedeschi “lo spirito della loro etnicità di popolo”, promuovendo numerose edizioni del suo libro, a scopo divulgativo.

Johann Gottlieb Fichte è l’unico filosofo idealista che aveva aderito, nei suoi anni giovanili, non solo agli ideali della Rivoluzione francese, ma anche alla sua svolta giacobina, con la sua opera “Rivendicazione della libertà di pensiero” pubblicata anonimamente nel 1793, con cui esprime in modo netto la sua posizione riguardo la libertà di pensiero e di stampa, puntualizzando il concetto di libertà, che non è qualcosa che viene dato all’uomo bensì la capacità che l’individuo possiede quando cerca di superare gli ostacoli e i limiti che gli si frappongono. Anche l’altra opera, sempre del 1793 e pubblicata anch’essa anonima “Contributo per la rettifica dei giudizi del pubblico sulla Rivoluzione francese”, è una dimostrazione della sua accettazione della Rivoluzione francese, estrinsecata in queste affermazioni: “E’ proprio di ogni rivoluzione il liberarsi dell’antico contratto e il formare una nuova unione con un contratto nuovo. L’una e l’altra cosa sono legittime e quindi lo è anche ogni rivoluzione, in cui l’una e l’altra cosa si verificano in modo legittimo e cioè in virtù della volontà libera”. Frutto del suo profondo turbamento per le vicende della guerra franco-prussiana, finita con la pace di Tilsit nel luglio del 1807, che stabilisce la sottomissione della Prussia alla Francia, è il suo impegno, che materialmente si esplicita in una serie di discorsi di dura polemica antinapoleonica e di accesa esaltazione  del popolo tedesco, iniziata all’Accademia delle Scienze di Berlino, il 13 dicembre del 1807 e stampata nel mese di maggio del 1808, con il titolo “Discorsi alla nazione tedesca”. Come si vede, la deriva autoritaria del dispotismo napoleonico, fa riflettere Fichte  sul fallimento della Rivoluzione francese, che negli anni giovanili l’aveva considerata come l’avvenimento, che avrebbe affrancato l’umanità dalle tenebre, e gli fa momentaneamente cambiare opinione, provocando un equivoco sulla sua corretta posizione sui valori democratici della Rivoluzione, offrendo un ambiguo sospetto prima ai conservatori suoi contemporanei e poi pericolosamente ai nazisti, di essere dalla loro parte. Fichte attribuisce la responsabilità dello scacco dispotico di Napoleone all’incapacità del popolo francese, dovuta principalmente all’abbandono della sua lingua originaria. Questa motivazione sembra in un primo momento strana, ma se riflettiamo profondamente sul pensiero fichtiano in fatto di lingua, ci accorgiamo che il filosofo trova nelle lingue vive “una parte spirituale che è fatta di immagini ed esprime la vita di una nazione”. Fichte, infatti, nel quarto dei quattordici “Discorsi alla nazione tedesca”, che nell’inverno del 1808 legge pubblicamente per quattordici domeniche, il cui destinatario è il popolo originario, cioè l’“Urvolk”, distingue tra “lingue vive e lingue morte: Le prime sono quelle parlate con continuità nella storia di un popolo, sono le lingue che hanno continuato a svolgersi nella vita effettiva del popolo”. Le lingue morte, a cui assimila quella dei Francesi, sono invece quelle, in cui “La parte spirituale diventa una collezione frammentaria di segni arbitrari ed inspiegabili di concetti altrettanto arbitrari”. La lingua morta, insomma, non esprime la vera natura del popolo. Fichte con l’argomento della lingua ha toccato un punto cruciale e per molti aspetti delicato per i tedeschi, specialmente dopo le affermazioni dello storico Moritz Arndt sul legame essenziale che si stabilisce tra il popolo e la sua lingua. “La prima differenza tra il destino dei tedeschi e quello di altri popoli di origine germanica è questa: che i tedeschi rimasero nelle sedi primitive del popolo originario, gli altri migrarono verso nuove contrade; i tedeschi conservarono la loro lingua e la svilupparono; gli altri adottarono una lingua straniera, che a poco a poco a modo loro la trasformarono”.  Quindi la lingua viva dei tedeschi, che sono rimasti sempre nello stesso posto, dà loro una forza spirituale profonda che li rende in grado di cogliere il significato della libertà e dunque di porsi a guida spirituale dell’umanità. Nell’incitare i tedeschi a scrollarsi di dosso l’invasione francese, il discorso di Fichte è certamente ambiguo e per molti aspetti inquietante, soprattutto considerando che è rivolto al popolo tedesco originario cioè d’eccellenza, ma nell’appello finale alla responsabilità morale e storica, appare ancora viva ed operante la sensibilità cosmopolitica illuministica. In effetti Fichte tocca le pericolose corde del razzismo, quando afferma che la superiorità del popolo tedesco su tutti gli altri scaturisce dal radicamento nei territori originari della stirpe e soprattutto dalla fedeltà alla loro lingua originaria cioè alla “Ursprache” (il suffisso ur tedesco è sinonimo di primordialità). Parole che si prestano molto ad essere strumentalizzate. Naturalmente è facile rendersi conto che dire queste cose per difendere la patria da un nemico che l’occupava, ha un peso diverso che dirle per giustificare una politica di aggressione in nome di una presunta” superiorità razziale”.

Carlo Panella, insigne studioso di islamismo, in un suo libro intitolato “Fascismo islamico”, cita un’affermazione di Sami Al-Jundi, cofondatore assieme a Michel Aflaq del partito “Baath”, che avvalora l’ambiguità che Fichte ha suscitato: “Eravamo nazisti, ammiratori del nazismo, leggevamo i suoi testi e le fonti della sua dottrina, specialmente Nietzsche, Fichte e I fondamenti del secolo XIX di H. S. Chammberlain, tutto incentrato sulla razza”. Come si vede Fichte è stato considerato un profeta del razzismo anche dagli arabi. Di strumentalizzazioni ce ne furono molte in Germania per trasformare tutti gli intellettuali della grande stagione filosofica tedesca in precursori del nazismo e Fichte, in particolare, come profeta. Addirittura Hennam Schwarz, cultore ed esperto di mistica nazista, in un corso particolare per i suoi studenti universitari, sulla Storia della filosofia della razza tedesca diceva, come “grazie ad un mistero divino, il popolo etnico-razziale tedesco abbia ispirato in egual misura sia Fichte che Hitler”. Ma un filosofo non si giudica da una sola opera. Basta leggere l’opera, pubblicata nella primavera del 1813, dal titolo “Abbozzo di uno scritto politico”, che secondo il Meineke “può essere considerato il testamento politico nazionale di Fichte”, in cui parla di “un dominio del diritto fondato sull’eguaglianza di tutti coloro che hanno volto umano”. Non sembra, nel modo più assoluto, razzista il suo pensiero, che anzi apre al diritto di uguaglianza di tutti gli uomini.

Era scontato che i nazisti tentassero di far indossare la camicia bruna ai grandi nomi della cultura tedesca, come abbiamo visto per Fichte, ma non sempre vi riuscirono. Essi, infatti, avrebbero voluto utilizzare anche Hegel come antesignano della tesi che uno Stato si fonda “sul sangue e sulla terra”, nome del movimento “Blut und Boden”, che ne teorizza la derivazione del popolo. Ma Hegel non percepisce nessuna idea di popolo bensì quella dello Stato, come suprema espressione di quello che egli definiva “lo spirito oggettivo”. Infatti nei “Lineamenti di filosofia del diritto”, egli afferma: “Il popolo, preso senza il suo monarca, è la massa informe, alla quale non spetta alcuna sovranità”. La concezione hegeliana dello Stato moderno non è quella di nazione, fondata dalla società civile borghese, i cui contenuti sono di estrazione liberal-democratica, ma dello spirito universale che, nei vari periodi storici, ha guidato l’umanità con l’alternarsi di popoli diversi. Quindi i nazisti non hanno potuto usarlo, anche se hanno tentato di strumentalizzarlo, perché per Hegel non ha importanza né la razza né la stirpe dei popoli.

Discorso molto diverso deve essere fatto per il populismo aristocratico di Nietzsche. Possiamo definire Friedrich Vilhelm Nietzsche, il populista elitario, anche se paradossalmente egli considera con disprezzo il popolo, come una massa informe. Veramente la sua concezione del popolo non è ipocrita, come generalmente è quella dei populisti classici, che usano il popolo prendendolo per i fondelli. Nietzsche sostiene che il popolo deve essere “irreggimentato” da un capo molto duro per cavargli qualcosa, ma soprattutto gli si deve togliere dalla testa la pretesa malsana, contagiatagli dalle idee liberal-democratiche della Rivoluzione francese e poi da quelle che, il filosofo superomista chiama, “della marmaglia socialista” di governare. Nietzsche riscontra con disprezzo nel popolo una mediocrità intellettuale, per cui esso non può aspirare a cose eccelse e lo considera “un male purtroppo necessario”, affermando che è la stessa natura, cioè “la naturale gerarchia delle capacità intellettive, a vietare che il sapere venga diffuso tra le masse e ad imporre invece che sia riservato a pochi eletti”. Infatti il genialismo, nel pensiero di Nietzsche, è una dote innata, aristocratica, riservata a pochissimi. L’esser filosofi è una questione di discendenza dalla “razza” giusta. “Il nuovo filosofo può nascere soltanto in collegamento con una casta dominante come suprema spiritualizzazione di essa”. E’ così grande il senso elitario di Nietzsche che addirittura disprezza la scienza, perché potenzialmente accessibile a tutti, quindi, virtualmente democratica e perciò, secondo lui, malsana. Il tratto essenziale del suo superuomo, che si è emancipato da tutte le tradizioni, con una rottura radicale rispetto al passato, è costituito dalla volontà di potenza, il centro del pensiero di Nietzsche. E’ chiaro, a questo punto, perché Nietzsche sia potuto diventare un filosofo di riferimento per il terzo Reich e perché l’unica istituzione di insegnamento, che abbia avuto la tentazione di richiamarsi al filosofo del superuomo, sia stata quella nazista. Si racconta che nel periodo tra la fine dell’Ottocento e la fine della Grande Guerra, ogni ufficiale tedesco portasse nel suo zaino un libro di Nietzsche, preferibilmente il “Così parlò Zarathustra”, anche perché nella quarta parte del libro, l’ufficiale poteva leggere: “Dovete amare la pace come un mezzo per nuove guerre, e amare piuttosto la pace breve che quella lunga, perché è la buona guerra quella che santifica ogni causa”.

Un altro filosofo molto vicino al nazismo è Martin Heidegger, fin da giovane membro dell’associazione “Graalsband” (la “Lega del Graal”, il leggendario calice che accolse il sangue di Gesù Cristo), formatosi culturalmente attraverso Johann Ulrich Megerle, il suo autore preferito, monaco degli Eremitani Scalzi di Sant’Agostino, scrittore austriaco del 1600, predicatore antisemita e xenofobo alla corte di Vienna. Heidegger, filosofo esistenzialista, è il più importante fautore del nazismo. Lo comprovano i suoi temi più rilevanti: la sua posizione contro la democrazia, da lui considerata “odioso livellamento e soffocamento di ogni genio individuale; il suo populismo di stampo elitario alla maniera di Nietzsche; la linea che privilegia il razzialismo e l’etnicismo non tanto biologico quanto quello della razza. L’adesione ufficiale al nazismo, attraverso il quale Heidegger era certo che sarebbe stata distrutta l’odiosa democrazia, avviene nel 1931 e subito dopo il filosofo diventa rettore dell’Università di Friburgo. Nel discorso rettorale di insediamento, il filosofo si atteggia ormai a condottiero del partito nazista. Se si vuole trovare un’ulteriore prova del suo appoggio al nazismo, dobbiamo andare al 12 novembre del 1933, quando venne imposto ai tedeschi l’elezione del Reichstag, che poi risultò manipolata ma plebiscitaria, abbinandola al referendum per l’uscita della Germania dalla Società delle Nazioni. Heidegger, in questa occasione, fece un appello agli studenti, inculcando loro delle idee molto pericolose, quali sono queste: “Le regole del vostro Essere non siano principi di dottrina e di idee, poiché il fuhrer stesso, lui soltanto, è l’odierna e futura realtà tedesca e la sua legge”. Quindi, Heidegger più che un precursore è stato uno dei più importanti fautori del nazismo.

CARMELO NICOSIA