“Un femminile per Bene”
Nel saggio Un femminile per Bene- Carmelo Bene e le Ma-Donne a cui è apparso (Mimesis/Filosofie del teatro, Milano 2019, pp. 121, € 12,00) Vincenza Di Vita (Docente in discipline dello spettacolo in Università e Istituti di formazione in Italia e all’estero), è fuori di dubbio (almeno per chi scrive) che la nozione del “femminile” e del “corpo senza organi” (l’inorganico di Antonin Artaud, Gilles Deleuze/Felix Guattari) costituisce il file rouge o filo di Arianna per entrare nel labirinto del pensiero e dell’azione teatrale di Carmelo Bene. Un file rouge che ci piace dire di qualità epistemica e dei divenire. Due modi di ricerca, questi, lontani dalle verità dei modelli dell’aletheia (svelamento o rivelazione trascendente o trascendentale), nonostante il labirinto teatrale di Bene sia abitato dal “sacro”, da “santi” e “vergini” oltre gli sdoppiamenti di genere, specie e sessualità sui generis. I materiali e i riferimenti messi al microscopio dell’analisi e delle argomentazioni della studiosa non sono pochi (biografia, scritti teatrali, film, dichiarazioni di poetica teatrale, interviste, nutrimenti e riferimenti culturali che portano i nomi di Shakespeare, Schopenhauer, Nietzsche, Sade, Sacher-Masoch, Genet, Klossowski, Campana, Totò, Duse, Petronio, Fellini …). Ma chi scrive, per coagulare qualche pensiero che non sia di sola neutra contabilità recensiva, intende muoversi come se la nostra autrice leggesse il teatro beniano all’insegna dei divenire-identità multiple dell’inorganico (l’indifferenziato d’origine come un insieme di “io” com-possibili ma realizzabili sulla scena di volta in volta). Una scelta epistemica più che aletica, e sperimentabile in scena con le metamorfosi e le ibridazioni rizomatiche del corpo (corpo-testo), della voce (phonè), dei suoni, delle forme del vestirsi e svestirsi dell’attore (come scrive Vincenza Di Vita). Sì, ci viene da dire, che è possibile avanzare, leggendo queste pagine della saggista Di Vita sull’opera e gli intenti della visione complessiva di Carmelo Bene, l’ipotesi che l’arte teatrale di Carmelo Bene sia aderente all’episteme della “minoranza” deleuziana. Il teatro dei divenire possibili e dell’intensità degli affetti e della molteplicità come campi di forze entanglement in variazione continua; corpi quantistici che si desoggettivano lasciando le vecchie forme veicolate sulle onde identitarie “maggioritarie” (standard); quelle della logica binaria dominante dei generi e delle specie universali. Le costanti di genere e sesso, o dell’egemonia dell’Uno patriarcale. Nel teatro di Bene, dove vivono santi, madonne e porno…, le identificazioni scenografiche sono gli eventi singolari del “depensamento” o della destrutturazione dei soggetti, quelli cioè legati ai vari divenire-santo, bambini/e, armatura tecnologica, donna, inorganico, (“corpo senza organi”). Un teatro che fra le altre cose fa i conti e le rese con il pensiero critico contemporaneo, l’incrocio che mescola psicoanalisi freudiana (non scolastica) e filosofia dell’immanenza sul piano della de-fondazione dell’“Io” come soggetto sostanziale. E in un teatro del pensiero dell’immanenza evenementiale e dell’inorganico, dell’evento, dell’incontro e della contingenza; e qui non c’è verità (aleteia) metafisica o inconscia (psicoanalitica) sostanzializzata o permanentemente strutturata che si riveli alla coscienza dei soggetti o dei personaggi. Personaggi che sulla scena si vestono e svestono continuamente (la contingenza delle forme, il disfacimento permanentemente delle forme stesse inscenate). La con-tingenza che dà vita alla metamorfosi come piega corporea dai bordi avviluppati, e tale da rendere indistinguibile la coppia uomo-donna (ibridazione di fattezze e abbigliamenti). La con-tingenza della parola resa come phoné immediata (suoni, musiche e rumori costellati). Il privilegio della voce (quasi muta) o dell’immediatezza anti-rappresentativa. Tutto un arte-facere del dis-dire e del “depensamento” che non può testimoniare se non d’essere un’identità che diviene come una egologia “inorganica”, o mutante mescolamento, intreccio di maschere in onda delle “affezioni” sovrapposte. Sovrapposizione (entanglement) di elementi che, di volta in volta, cambiando posizione e velocità, prendono il ruolo, la funzione o l’uso l’uno dell’altro.
Così, citando direttamente dal volume di Vincenza Di Vita (Un femminile per Bene- Carmelo Bene e le Ma-Donne a cui è apparso), una scena ci rende l’occhio in bocca maschile come un sesso (l’occhio-sesso come immagine che esibisce il possibile dire-vedere-praticare il desiderio nella bocca che abita la lingua), mentre dall’altra parte un occhio femminile ammicca ed evoca il sesso orale; e ciò per dire al pubblico che il senso erotico non abita organi differenziati in generi e specie standardizzati, perché c’è il godimento. La pulsione dinamica di cui Sigmund Freud intuì la forza di produzione creativa ne “Al di là del principio di piacere”. L’evocazione del sesso orale – scrive Vincenza Di Vita, a proposito dell’esito teatrale della “Salomè beniana” –, è l’esibizione corporea e carnale della “liquida pornografia di un istante. […] di un erotismo che sta tutto all’interno della parola e della bocca in quanto dispositivo linguistico. L’oggetto del desiderio, qui, è quello dell’organo che si caratterizza per la modalità del vedere ma collocato in una inedita modalità visiva, usualmente dedicata a ospitare anche il linguaggio ed è anche quell’apertura che consente di usufruire della nutrizione” (Vincenza Di Vita, cit., p. 61).
Ma di questi concatenamenti macchinici del desiderio (direbbe la concezione schizofrenica di Gilles Deleuze/Felix Guattari, e di cui Carmelo Bene era frequentatore, specie in ordine al femminile e all’inorganico) nella macchina attoriale di Carmelo Bene (“Una vita d’(h)eros(es)”) ci sono altre presenze. L’erotico destrutturato e il femminile divengono infatti per l’attore – scrive Vincenza Di Vita – l’unica possibilità “di essere infinito, in quanto sempre mancante di qualcosa che sempre vigorosamente perseguito sulla scena come un esercizio meccanico […], perché ormai il problema dei generi sessuali […] si risolve nella negazione definitiva del corpo. Questo corpo-stato diviene scatola meccanica in grado di contenere la voce, già negli Amleti l’impossibilità di concretizzare i rapporti sessuali tra uomo e donna era esemplificato con i costumi di scena, valga per tutti l’esempio dell’incipit del film Un Amleto in meno. Rapidi fotogrammi ritraggono un improbabile accoppiamento tra una donna, Gertrude probabilmente e un’armatura che ricopre un’oscura figura, il padre di Amleto o lo zio o il potere che concupisce la madre” (Vincenza Di Vita, cit., pp. 78-79). È una macchina attoriale – prosegue la studiosa del teatro beniano – che “si erige come totem sacrale dell’inorganico e del pornografico, dando il senso di una sessualità negata, priva di umanità e spinte sensoriali ricorrerà anche in modo evidente nella mostruosità fisica di Riccardo III° o ancora in Macbeth Horror Suite, dove una scenografia incredibilmente incombente darà il senso della pienezza su un piano musicale e vocale” (Vincenza Di Vita, cit., p.79).
E il femminile, come l’inorganico, è il file rouge (ripetiamo) con cui Vincenza Di Vita ordisce la trama della vita delle opere di Carmelo Bene; ma è anche la lente con cui legge le mutanti identificazioni sceniche del suo teatro. La lettura che, mediata dalle ri-flessioni che provengono dal pensiero psico-filosofico e letterario francese anche lacaniano; come nel caso se per esempio dell’impossibilità del rapporto sessuale teatralizzata, è impossibile non alludere ai richiami della teoria del “non rapporto sessuale” elaborata da Jacques Lacan. Così come la “mostruosità fisica” e meccanica è quella del divenire-animale-cyborg o dell’ibridazione animale-macchina, il divenire-molteplicità e variazione continua del rizoma e della schizofrenia propri al pensiero del duo Gilles Deleuze/Felix Guattari. I divenire hanno entanglement né dommatici né di potere. Nessuna verità trascendete o trascendentale da rivelare, nessuna catarsi aristotelica, sublimazione santificante o cura psicoanalitica trionfante promette la ricostruzione dell’iter artistico beniano tracciato dalla saggista Vincenza Di Vita.
Dalla biografia dell’autore e attore – dall’infanzia fortemente condizionata da una rigida educazione cattolica, quella delle fobie sessuali, dell’idea dei peccati carnali, dell’elevazione, della redenzione e della ricerca della santificazione (seppure delirante e derisa), come suggeriscono i richiami alle madonne e ai santi del Sud che volano (Cupertino) –, al suo teatro, al suo cinema, alle sue scritture e alle varie dichiarazioni l’iter beniano, tracciato da Vincenza Di vita, si può dire che sia quello di una ri-soggettivazione permanente e delirante della stessa identità attoriale di Carmelo Bene. Il presupposto epistemico, a partire dall’inorganico (“il corpo senza organi” di Antonin Artaud e Gilles Deleuze/Felix Guattarì), del “femminile” e dell’eros de-sessualizzato (Michel Foucault e Jacques Lacan), così (salve le distinzioni teoriche) è quello infatti della destrutturazione schizofrenica del “manque” (mancanza) e della “parole” svuotata (il significante vuoto del linguaggio derridiano; e non solo, se si pensa al soggetto “barrato” e all’oggetto piccolo “a” – il reale non simbolizzabile – di Jacques Lacan).
Ma il “corpo senza organi” di Carmelo bene, a seguire il tracciato del saggio della nostra autrice, è quello – ci sembra – che si correlaziona (soprattutto) con il “continente nero” (come ebbe a definirlo lo stesso Sigmund Freud), del “femminile” (il termine capeggia il titolo stesso del libro della nostra autrice). Il femminile de-genere che lotta i dualismi dei “generi”, e nato con l’eresia degli studi della psicoanalisi e della filosofia che spodesta la sovranità dell’“Io cogito” cartesiano (la base della cultura e della politica della modernità). Il maschile e il femminile non sono più questioni che riguardano il genere e il sesso logicizzati e stabilizzati, bensì la produzione di affezioni e campi di forze governati dal desiderio e dal godimento, piuttosto che dai singoli piaceri della sessualità cristiano-borghese, quella divisa tra maschi e femmine, uomini e donne come eredità dell’ortodossia cattolico-cristiana. Nell’“Oltre il principio di piacere” (il godimento e il desiderio inventivo), l’intuizione di Sigmund Freud e delle scuole psicoanalitiche non ortodosse, c’è, ci piace ricordare, la voce che la Di Vita affida all’aspetto “della santità folle” – “Per un Bene cretino” – (Vincenza Di Vita, cit. p. 94). Come dire che la creatività teatrale di Carmelo Bene non si esaurisce nelle riduzioni d’ordine psicometrico garantiste
L’“inorganico” e il “femminile” è – ci ripetiamo – il file rouge di un Carmelo Bene del pensiero destrutturante. L’ago di una bussola che si muove in sintonia col pensiero del “depensamento” e lì dove la “mancanza” celebra e teatralizza la supremazia del corpo-testo (sul testo scritto), amplificando in eccesso la phoné e il genio-genialità come geni(t)alità sacrale. Il sacro del sesso pornografico (il divino di Georges Bataille), sì che le bambine-madonne sono ingravidate dallo spirito che santifica (senza piacere e desideri). Desessualizzato…, vergine, casto e santo si prostituisce ed erotizza senza nulla concedere alle sensibilità dell’organico e delle turbolenze mordi e fuggi.
In sintonia con il linguaggio psicoanalitico delle rotture che investono l’inconscio triangolare (padre-madre-bambino) del freudismo classico, l’azione teatrale beniana inscena (sembra ci suggerisca il saggio della nostra autrice) il pensiero della “differenza e ripetizione” anti-metafisica e anti-sostanzialistica della filosofia francese del secondo Novecento, nonché la poesia legata ai nomi di Antonin Artaud e Arthur Rimbaud (l’io è un altro). Vincenza Di Vita profila infatti – ci sembra – l’“Io” attoriale beniano come quello che Antonin Artaud (nel suo godimento schizofrenico di “corpo senza organi”) ebbe a definire di se stesso: “Io, Antonin Artaud, sono mio figlio, mio padre, sono mia madre, / e sono io; sono colui che ha abolito il periplo idiota nel quale si ficca l’atto del generare, / il periplo papà-mamma / e il bambino”, mentre Carmelo Bene scrive: “Più che nato sono stato abortito. Ecco, io mi considero a tutti gli effetti un aborto vivente” (Vincenza Di Vita cit., p. 24).
Per concludere questo ridotto e parziale intervento sulla ricerca della nostra autrice, è possibile dire che l’“io” di entrambi (Artaud e Bene), riformulando il cartesiano “io penso, dunque sono”, sia invece quello di un io (lacaniano ?) che, tra l’inorganico e il femminile, dice: “io sono quello che l’io è”: divenire-identità singolari, uniche. Un vero e proprio entanglement quantistico (una sovrapposizione di identità indifferenziate), come lo sono i fotoni (corpi senza peso e materia) della fisica quantistica ma che di volta in volta configura una posizione o un’altra. Mai la stessa! È entanglement in quanto è nozione che, variazione processuale sottrattiva continua, intreccia le diverse potenzialità scenico-figurative come una specificazione singolare della moltiplicazione delle maschere (sovrapposte), quelle che Carmelo Bene ha messo in scena anti-rappresentativa. Le maschere nietzschiane che, nell’interpretazione di Gilles Deleuze (Differenza e ripetizione) animano il vuoto proprio dello spazio teatrale e della temporalità propri della soggettività che si de-soggettiva e si ri-soggettiva davanti a un pubblico che non c’è (“il popolo che non c’è”).
Antonino Contiliano
Marsala, 26 settembre 2020