Al momento stai visualizzando L’insostenibile presenza dell’uguale a sé
© U. Boccioni, Quelli che restano, 1911

© U. Boccioni, Quelli che restano, 1911

Poche pennellate, una pioggia di verde che pare richiamare alla memoria un salice piangente; pochi tratti, ma decisi, definiscono immagini di uomini sommessi, a capo chino e schiena curva,  come a voler uscire da dietro la folta tenda verdeggiante, nonostante tutto… Il colore cambia: diventa più cupo, più triste, più nero. Sono Quelli che restano di Umberto Boccioni, esposto al Museo del Novecento di Milano, in cui mi sono immersa poco meno di due settimane fa…
Il verde, colore della speranza, dell’affermazione dell’Io, della perseveranza e della fiducia in se stessi (questo almeno ci spiega la psicologia) sembra cozzare con l’atteggiamento remissivo, spento, arrendevole direi, di questi uomini che restano. Non sappiamo perché restano, ma a primo acchito pare che lo facciano perché costretti in quella fitta rete di pennellate verdi.
Uno sguardo al dipinto, un flash estivo: l’immagine di Tertuliano Maximo Afonso, inchiodato al suo divano, davanti a un televisore che ritrae un numero indefinito di volte il volto di un uomo, non un uomo qualsiasi, ma un gemello, anzi no, più che un gemello: un uomo assolutamente identico a lui. Anche Tertuliano resta… anche lui sembra prigioniero delle odiose reti della depressione, della vigliaccheria e dell’inettitudine, impedito nell’agire, nei gesti e nello scegliere secondo ragione, o sarebbe senz’altro più opportuno dire secondo il «senso comune» («La decisione che Tertuliano Maximo Afonso ha appena preso è realmente di una semplicità sconcertante, di una chiarezza meridiana e trasparente. Non è della stessa opinione il senso comune, che è appena entrato dalla porta, domandando indignato, Com’è possibile che ti sia nata nella testa una simile idea?, È l’unica ed  è la migliore, ha risposto Tertuliano Maximo Afondo freddamente, Forse è l’unica, forse è la migliore, ma se t’interessa la mia opinione, sarebbe una vergogna se scrivessi quella lettera con il nome di Maria da Paz e dando il suo indirizzo per la risposta, Vergogna, perché, Povero te se c’è bisogno di spiegartelo…» ).
Nulla intanto vieta a noi di pensare che il nostro autore voglia senz’altro cimentarsi nel più classico dei temi letterari novecenteschi: il doppio! E in effetti, sarebbe facile, persino comodo, farsi trascinare da una simile certezza…! Ci hanno provato in tanti prima del nostro Nobel Saramago, a sperimentare questo arduo tema, a cominciare, in tempi meno “sospetti”, dai latini Plauto, nel suo Anfitrione, e Ovidio, nelle sue Metamorfosi. Ma come non pensare alla letteratura della seconda metà dell’Ottocento, con Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson e con Frankenstein di Mary Shelley. E non è forse doppio Dorian Gray, quando nel romanzo omonimo di Oscar Wilde, si sdoppia per divenire ritratto deforme di un’anima venduta al diavolo? La carrellata prosegue ancora lungo il XX secolo, passando per buona parte della produzione letteraria di Luigi Pirandello (credo tutti abbiano in mente la vita paradossalmente sdobbiata di Mattia Pascal (o Adriano Meis o Il Fu Mattia Pascal?) o le riflessioni di Vitangelo Moscarda di Uno nessuno centomila), continuando con Il visconte dimezzato di Italo Calvino e via dicendo in un iter lungo e complesso e dai, consentitemi il gioco, mille doppi (ris)volti!
Ma doppio, a mio parere, è altra cosa da duplicato! Né si può fingere di credere che quest’aggettivo sia stato inserito sin nel titolo del romanzo in questione distrattamente, quasi a intendere che doppio-duplicato in fondo, hanno ben poco di che differenziarsi e che, dunque, l’uno vale l’altro.
Il doppio ha rappresentato nella letteratura l’alter-ego del personaggio, l’altra parte di sé e si è dunque irrimediabilmente sdoppiato in altro da sé, ovvero nel diverso, a volte con esiti mostruosi (e penso a Frankenstein, al ritratto orripilante di Dorian, alle metamorfosi ovidiane come a quella kafkiana); a volte riaffiorando quando la coscienza dell’originale è sopita (e penso alla doppia personalità, e alla doppia persona, del dottor Jekyll); altre volte semplicemente vestendo i panni di una “maschera” (Pirandello docet). E se scoprirsi altro da sé porta l’individuo in certi casi ad aver paura del suo stesso diverso, a rifiutarlo e misconoscerlo, mentre in altri addirittura riesce a conviverci in un paradosso senza fine, che reazione potrà mai provocare all’individuo lo scoprire invece ciò che è assolutamente identico a sé? Ecco che ritorna il binomio doppio-duplicato, ma con una sfumatura nuova: il duplicato non è il diverso, ma al contrario l’identico! Venirne a conoscenza è un dramma senza precedenti. Peggio che confrontarsi con il proprio alter-ego:

Quel che più mi confonde, pensava laboriosamente, non è tanto il fatto che quel tipo mi assomigli, che sia una mia copia, diciamo, un duplicato, casi del genere non sono infrequenti, abbiamo i gemelli, abbiamo i sosia, le specie si ripetono, l’essere umano si ripete, la testa, il tronco, le braccia, le gambe, e potrebbe succedere, non ne ho alcuna certezza, è solo un’ipotesi, che un’alterazione fortuita in un determinato quadro genetico avesse l’effetto che un individuo sia simile a un altro generato in un quadro genetico con il quale non ha alcun rapporto, quel che mi confonde non è tanto questo, ma il sapere che cinque anni fa ero uguale a com’era lui a quell’epoca perfino i baffi usavamo, e ancor di più la possibilità, che sto dicendo, la probabilità che trascorsi cinque anni, cioè oggi proprio adesso, in queste prime ore dell’alba, l’uguaglianza persista, come se un cambiamento in me dovesse causare lo stesso cambiamento in lui, o, peggio, che uno cambi non perché l’altro è cambiato, ma perché il cambiamento è simultaneo, questo sì, sarebbe davvero da sbatterci la testa contro il muro, […] avrei potuto vivere il resto della vita senza neppure immaginare che un fenomeno del genere avrebbe scelto per manifestarsi un normale professore di Storia,propri questo che poche ore fa stava ancora correggendo gli errori dei suoi allievi e ora non sa che fare con l’errore in cui, da un istante all’altro, si era visto egli stesso convertito. Sarò davvero un errore?, si domandò, e, supponendo che io lo sia effettivamente, quale significato, quali conseguenze avrà per un essere umano sapersi errato. Gli percorse la schiena una rapida sensazione di paura…

Questo, per Tertuliano, è solo l’inizio di una vicenda assurda e paradossale, che pian piano lo spingerà a una follia devastante per sé e per gli altri. Prendere coscienza dell’esistenza di un essere uguale a sé conduce il protagonista, e via via anche il subdolo antagonista, a un’unica tragica soluzione: sopprimere il duplicato! A ogni costo, a ogni condizione e con ogni mezzo. Come a dire: tollerare l’altro da sé, il diverso, è un carico oltremodo oneroso per l’uomo, ma in qualche modo sostenibile; tollerare l’uguale a sé è irrimediabilmente e fatalmente inammissibile, un suicidio oserei dire.
Non è un caso che il duplicato di Tertuliano, Antonio Claro, faccia per mestiere l’attore (ecco che ritorna la maschera!): egli è capace di convivere con i diversi personaggi che interpreta sotto lo pseudonimo (ancora uno sdoppiamento!) di Daniel Santa-Clara, ma nel modo più assoluto si concederà di convivere con un altro essere assolutamente uguale a sé: piuttosto architetterà un piano quanto mai viscido nella cui rete cadrà lo stesso Tertuliano, con esiti che non sto qui a dire: chi ha letto o leggerà il romanzo, lo saprà di certo.
Ma viene da chiedersi: perché? Perché è talmente inconcepibile convivere con il proprio identico? Forse perché non ci si sente più unici? Forse perché si perde l’unica ragione per affermare che la propria originalità e unicità è migliori di quella altrui? O forse perché si perdono persino le certezze sulla propria esistenza? Le cause di una tale “insostenibilità” sono infinite e le conseguenze altrettante. Per il nostro personaggio queste ultime consisteranno nell’uscire da sé senza più ritorno. Il modo lo saprà chi avrà letto o leggerà il romanzo.
E noi? Noi, come penseremmo di reagire di fronte al paradossale nostro uguale?
Forse, potrà dircelo chi un giorno sarà clonato… che in fondo non mi pare suoni poi così diverso da duplicato

 

Sonia Baglieri

Laureatasi nel 2008-2009 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania (corso di laurea di Filologia Moderna) vive a Vittoria (RG) dove ha fondato nel giugno 2011 una casa editrice dedita al territorio e alla narrativa per bambini e ragazzi. Legata a Vittoria, è anche affezionatissima alla sua città universitaria, Catania, dove per alcuni anni si è dedicata alla collaborazione con docenti universitari nell’ambito della didattica ludica della lingua italiana per le scuole primarie e secondarie di primo grado (www.grammagio.altervista.org e www.chielasso.it) e dove ha praticato una stage formativo nella casa editrice Prova d'autore con cui è ancora oggi è in contatto. La ricerca del proprio posto nel mondo l'ha forse (e sottolinea forse) conclusa, ma è consapevole che il bello della salita della vita consiste proprio nel mantenere quel posto e nel renderlo migliore!