Riguardo alla questione proposta da Antonio Leotta, se non sia da preferire la “convergenza”, evitando prevaricazioni tra una forma d’arte e l’altra, mi sembra opportuno aggiungere alcune mie riflessioni. “Convergenze” e “sovrapposizioni”, per usare un altro termine caro al professore Leotta, sono sempre il frutto della personale visione che dell’arte e della poesia ciascun autore può avere maturato nel tempo. A ciascuno spetta infatti decidere quali debbano essere i temi da proporre ed eventualmente come porli in relazione. E poi, nel caso, quali strumenti utilizzare: se la squillante tromba oppure il più meditativo marranzano. La faccenda non è di poco conto, e trova il proprio corrispettivo in quest’altro quesito, che peraltro è già nell’ordine delle cose: se la musica debba essere sovrapposta alle parole; ovvero le parole, alla musica. Nel primo caso sono le parole che si aggiungono alla musica, che svolge un ruolo preminente; nel secondo caso è la musica che segue le parole, ma non è detto che a dominare siano le parole medesime. Giova qualche aneddoto. È il caso dell’ottimo musicista C.S., il quale ebbe modo di dichiarare apertamente che da tempo andava adattando alla propria musica testi chiaramente destituiti di un qualunque valore, se considerati autonomamente. E perciò rifiutava cortesemente di mettere in musica le poesie che gli venivano offerte, giudicando tale operazione inutilmente gravosa. Poesie peraltro in dialetto siciliano. Se dunque la musica — come questo caso sembra chiaramente suggerire — è un affare per musicisti, è chiaro che le parole finiranno per svolgere una funzione di secondo piano e solo raramente potranno essere comprimarie. Come nel caso del musicista C.S., che alla musica aggiunge parole al seguito. Nondimeno, i brani che sono venuti fuori funzionano, e funzionano bene, per dirla nel gergo discografico. Ma prendiamo ora il caso di una poesia canonica: una di quelle che si leggono a scuola, fin dalle elementari; di quelle che si imparano perfino a memoria e che il sorprendente Fiorello ci ha restituito in musica. È il San Martino di Giosuè Carducci, come ciascuno sa. Operazione ben riuscita, perché l’istrionico Fiorello ha dato nuovo smalto ai versi del poeta premio Nobel, facendolo per un po’ uscire dalla palude nella quale certa critica l’aveva confinato. Operazione riuscita e da riproporre, quindi, per altre vie, altri poeti, altre atmosfere sonore. Fare cioè in modo che tra parole e musica ci sia reale compenetrazione. Persino con la complicità di altre forme d’arte. Ed è così che dalle “rossastre nubi”e gli “stormi d’uccelli neri” di Carducci, felicemente reinventati da Fiorello, si potrebbe fare un altro volo, pindarico e cromaticamente ben denotato. Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno. La canzone sembra essere nata un po’ per gioco un po’ per caso, dalla singolare commistione tra le invenzioni sonore dello stesso Modugno e le parole di Franco Migliacci, affascinato tanto dall’amico cantante quanto dalle atmosfere oniriche del dipinto Le coq rouge dans la nuit del pittore bielorusso poi naturalizzato francese Marc Chagall. “Celeste corrispondenza”; e qui il richiamo ai Sepolcri di Foscolo è fin troppo facile, ancorché debba essere rigorosamente corredato da tanto di clausola latina: mutatis mutandis. Perché il verso è tra quelli che sono entrati di diritto nella ristretta cerchia dei modi dire, dei quali si è poi smarrita l’origine. Vale a dire il culto e la devozione che i vivi sentono il dovere di rivolgere all’indirizzo dei loro cari defunti. Ma è pur vero che sempre di corrispondenze si tratta, benché celesti, appunto, e velate di malinconia. Chagall si dimostrava buon aruspice quando dipingeva sulla scorta dei sogni della sua prima infanzia, che a quello che si vede dovevano essere smodati, e tali erano rimasti anche in età adulta. Per non dire, poi, dell’influenza esercitata su di lui dalla parola di Dio e quindi dalla Bibbia. Anche qui, convergenze, corrispondenze, che hanno prodotto risultati superlativi. E non solo per quello che riguarda Chagall, Modugno e il sodale Migliacci o in altri termini nell’arte e nella musica cosiddetta leggera. Basti fare mente locale su quello che a proposito dei sogni si è andato producendo nel Novecento e per quanto concerne la vasta influenza esercitata dalla Bibbia su artisti e scrittori nel corso dei secoli. La parola trova sempre il modo per esercitare il proprio fascino e la propria influenza, specie se si tratta della parola scritta di un grande poeta. È questa volta il caso del poeta americano Edgar Lee Masters e della sua celebre Antologia di Spoon River. In Italia Masters annoverava tra i suoi lettori più attenti il cantautore Fabrizio De André. Ed era il 1971 quando De André pubblicava il suo LP Non al denaro non all’amore né al cielo, contenente nove brani tratti appunto dal capolavoro del poeta americano. Liberamente tratti, potremmo anche azzardare, perché se non altro parole e musica vengono magistralmente piegate a raffigurare altre atmosfere rispetto a quelle in cui Masters aveva ambientato, per così dire, la propria opera. A cominciare dal fatto che De André non rappresenta questo o quello specifico individuo, ma va per tipologia di persone. Valga per tutti la tipologia del giudice: Un giudice, appunto.
Fatalmente il ritmo proprio della parola scritta finisce per piegarsi ai gusti armonici del musicista, persino in De André. Il risultato può essere tuttavia più che apprezzabile, sia che si tratti di convergenze o anche di sovrapposizioni. Ma è pur vero quanto annotava questa volta Francesco De Gregori in un’altra sua canzone, Le storie di ieri, cantata dallo stesso De André: “I poeti che strane creature / ogni volta che parlano è una truffa”. Insomma, finché c’è ispirazione c’è speranza.